Un passato da scoprire

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Francesco Quarenghi, notaio e pittore

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Francesco Quarenghi, notaio e pittore.

Il casato Quarenghi e le vicende di una Comunità nella prima metà del Settecento

Senz’altro, Giacomo Quarenghi, il famoso architetto, è il personaggio il più conosciuto della valle Imagna. Per curiosità, interrogando il catalogo del servizio bibliotecario nazionale (OPAC SBN), il suo nome appare in 174 pubblicazioni; nello spoglio dei periodici locali custoditi in biblioteca Mai, troviamo non meno di 80 articoli, dove appare l’architetto nelle riviste specializzate sulla storia bergamasca. Esiste anche “l’Osservatorio Quarenghi” che cataloga centinaia di referenze bibliografiche su di lui ed il suo importante Premio internazionale Giacomo Quarenghi, attribuito ogni due anni. Infine, non si contano più le vie dedicate all’architetto in tutta la provincia.

Però la fama dell’architetto mette ombra sugli altri singolari e talentuosi personaggi della sua famiglia, che si succedono sulla lunga strada che rappresentano i secoli pregressi, prima di arrivare a lui, nella storia del casato Quarenghi. Con quest’ultimo studio vogliamo ritracciare le radici della famiglia e fermarci con un po’ di attenzione su suo nonno Francesco.

Quel nonno, notaio-pittore, è una tappa indispensabile per capire l’origine della cultura artistica dell’architetto, tappa obbligatoria per studiare (attraverso i suoi archivi) la storia locale di questa prima metà del secolo XVIII e tappa altrettanto importante nel paesaggio artistico-pittorico valligiano.

Meticoloso notaio, che prende cura alla conservazione di tutte le carte affidategli dai suoi clienti, diverse lettere o appunti che faranno la felicità dei ricercatori nei secoli seguenti, fu costantemente attento alla sua scrittura sempre bene leggibile, concentrato sui conti, perfettamente comprensibile. Fu, per tutto il tempo della sua carriera, notaio-cancelliere del Comune-Parrocchia di Rota Fuori e, attraverso i suoi resoconti, possiamo ripercorre una parte della storia di Rota: costruzione della chiesa, crollo del campanile, ma anche le consuete vicende di numerosi abitanti della valle. Ci fa conoscere certi fatti di violenza tra abitanti o sparatorie dopo il sequestro di terre, ci informa sulle piogge devastanti che, l’anno 1749, hanno distrutto case e ponte sulle sponde dell’Imagna; con lui possiamo seguire gli otto successivi cambiamenti di proprietà del mulino sotto al Chignolo di Rota Dentro, in appena poco più di un secolo.

Talentuoso pittore, ha lasciato numerose opere di carattere religioso, ma non è stato riconosciuto al suo giusto valore ed attraverso questo studio, speriamo riabilitare l’artista di fatto quiescente e tenuto in l’ombra dalla fama del nipote e vogliamo fare conoscere il cronista di tanti episodi, certamente comuni a tante altre Comunità, ma che ci permettono di togliere un velo su un passato ancora tutto da scoprire.

Abbiamo fatto la scelta di ritrascrivere fedelmente agli originali (in corsivo) numerosi estratti d’atti rogati da Francesco: lo scopo è di inserirci nell’ambito dell’epoca, la sua ortografia in un certo modo, corrisponde al parlare del momento. Ovviamente, il notaio Francesco usa formule standardizzate e convenzionali, ma il suo vocabolario ritrasmette, comunque, una parte della cultura valligiana.

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1563 radicis nostrae

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Spoglio e trascrizione del primo registro dei battesimi di Rota d’Imagna

 

1563 radicis nostrae

 

Un particolare ringraziamento a Marcello Imberti e all’amico Aquilino Rota responsabile dell’Archivio Parrocchiale di Rota che con il loro impegno hanno reso possibile questo grande risultato.

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Abbreviazioni utilizzate:

ASB: Archivio di Stato di Bergamo

BCM: Biblioteca civica Angelo Mai di Bergamo

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Prefazione

    Le nuove generazioni dell’oggi possono essere definite contemporanee del loro tempo. Non hanno confidenza col passato perché sono immerse nel mondo virtuale, in un tempo istantaneo, che rende tutto presente e non lascia spazio a chi è venuto prima. Ma forse è vero anche per le    generazioni degli adulti odierni. Sembrano essersi dimenticati del passato, hanno poca memoria delle vicende della loro vita e della vita del mondo.  Hanno dimenticato e non raccontano più le storie, la storia. O forse gli adulti non sono più convinti che serva a qualcosa e tantomeno ai giovani narrare gli avvenimenti del passato.

Tra il 55 e il 54 a.C. un intellettuale romano (come diremmo oggi) di nome Cicerone scrisse un’opera dal De Oratore (Cicerone, De Oratore, II, 9, 36) nella quale si trova una frase che ha racchiuso per due millenni un insegnamento immortale.   La   frase   è   la   seguente: ‘Historia vero testis temporum, lux veritatis, vita memoriae, magistra vitae, nuntia vetustatis’, La storia in verità è testimone dei tempi, luce della verità, vita della memoria, maestra di vita, messaggera dell’antichità. La frase è stata poi sintetizzata nel magistrale aforisma ‘Historia magistra vitae’, la storia è maestra di vita. La storia ci sintonizza con il passato per capire da dove veniamo; ci radica nel presente per capire chi siamo e qual è il nostro ruolo nella società; ci orienta nel futuro per capire cosa dovremo fare. La storia ci permette di capire che l’uomo di oggi non è un essere separato dall’uomo di ieri e di domani, perché il presente è il frutto del passato e il seme del futuro. La storia non distribuisce colpe o meriti, ma ci consente di scoprire le esperienze costruttive del dna storico. Con la caduta dei regimi per esempio le statue che rappresentavano i dittatori     vennero abbattute nel tentativo di cancellare un’epoca. Non è cancellando che si impara dalla storia, ma narrandola, affermando ciò che di valido c’è stato, impegnandosi a non ripetere lo stesso errore.

Quando nella storia si citano date e nomi non si compie una fredda azione bibliografica. Numeri e parole racchiudono la vita di quelle persone, le loro ansie, le loro scelte, le caratteristiche della loro esistenza e della società nella quale hanno vissuto. Il recupero del registro parrocchiale intitolato ‘1563’ è   un’atto di umanità: dentro quei nomi e quelle date ci sono la vita serena e sofferta, faticosa e buona, drammatica e dura, religiosa e pia, di padri, madri, figli, nostri antenati. Ringrazio lo storico Robert Invernizzi e il suo collaboratore Marcello Imberti. Sono riconoscente a Aquilino Rota, responsabile del prezioso archivio parrocchiale di Rota d’Imagna, per la competenza e la passione nell’essere custode della storia di tante vite raccontate dai manoscritti lì conservati. Chi si impegna nella ricerca storica è un uomo generoso, si mette al servizio dei suoi simili, e ciò che lo differenzia dal vivere in maniera anonima è la consapevolezza di arricchire la comunità di un’eredità non economica, ma esistenziale. Il suo intervento può contribuire al miglioramento della società, ai giovani e alle generazioni future. Chi si dedica alla storia sviluppa una capacità di previsione per il futuro, non restringe la visione del futuro alla propria vita individuale, ma considera anche quella delle persone con le quali vive.

Don Ermanno Meni, parroco di Rota d’Imagna

 

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Una visione globale delle famiglie di Rota, che qualificheremo come le più antiche, ci è tratteggiata in un documento del 1472, vero anche che esistono numerosi altri materiali, più remoti, del secolo XIV, che citano però singoli individui. Quello che presentiamo, è reso speciale dal fatto di essere una riunione dei capi di famiglia di Rota, probabilmente non ci sono tutti, ma rappresenta, per lo meno, i due terzi delle famiglie.Si tratta di un periodo in cui mancano i notai: in alta valle Imagna, in quell’anno 1472, il notaio Tonolo figlio di Teutaldo Rota[1] della valle San Martino deve oltrepassare i monti per venire ad assistere i valdimagnini per le loro formalità aministrative, in una lunga serie d’atti concernenti la valle Imagna.

Il 16 marzo 1472 sono riuniti i vicini di Rota in contrada Caboli, sulla via pubblica davanti alla casa di Gasparino Zabelli. Sono i seguenti capi di famiglia:                                                                      Antonio detto Gionus f.q. Antonio detto Ligeri de Rota, Maffeo f.q. Antonio detto Mazacani de Rota, Zanni suo nipote f.q. Giovanni Maria Mazacani de Rota, Giacomino f.q. Filippo Guarini de Rota, Cristoforo f.q. Filippo de Via de Rota, Vitali figlio di Tonolo Palazini de Rota, uomini della medesima parentela de Rota.                                                                                                                                            Giovanni f.q. Vitali detto Pertuso de Moscheni, Guelmo detto Carolo f.q. Fachini detto Muschini de Moscheni, Vitali detto Mirabello f.q. Bertrame de Moscheni, Giovanni detto Belosa f.q. Crizi de Moscheni, Crizi f.q. Giovannino Antonio Magoldi de Moscheni, Guelmino figlio di Alberto detto Pizardi de Moscheni, Bonomi f.q. Bertrame de Moscheni, uomini della parentela de Moscheni.                          Giovanni f.q. Vincenzo de Raselli de Bolis, Bertrame e Guelmino detti Berizini fratelli f.q. Antonio detto Berizzi de Bolis, Maffeo f.q. Pietro Veschere de Bolis, Lorenzo f.q. Pietro Veschere de Bolis, uomini della parentela de Bolis.                                                                                                  Bertrame figlio di Alberto detto Bertole de Quarenghi, Antonio detto Rinelli figlio di Tonolo detto Ferini de Quarenghi, Maffeo f.q. Antonio detto Salvini de Quarenghi, Giovanni f.q. Tonalli de Quarenghi, Pietro figlio di Zanni detto Vigne de Quarenghi, uomini della parentela de Quarenghi.

L’eccezionalità di questo documento è la distinzione fatta dal notaio, considerando che sono quattro le famiglie, ceppi della popolazione del paese, e cioè, i Rota, i Moscheni, i Bolis e i Quarenghi, almeno così la vedevano gli abitanti di Rota di quell’epoca.

I secoli passano, i soprannomi si trasmettano di generazione in generazione, ci sono variazioni, appaiono nuovi appellativi relativi a qualche particolarità d’un individuo: una sua caratteristica fisica, un suo mestiere, un suo luogo di vita o un aspetto del suo carattere. Nel quotidiano dei nostri antenati, quello che consideriamo oggi come cognome, non era utilizzato, o cosi poco, come  vedremo nelle pagine seguenti, così che, alla fine del Cinquecento, i preti fanno fatica a segnare il patronimico nella registrazione dei battesimi, e soltanto negli atti ufficiali, quelli notarili, il nome del ceppo originale è una costante, ed il riferimento al nome della famiglia, come l’intendiamo alla nostra epoca, sarà generalizzato solo nel secolo XVII.

Dobbiamo anche considerare l’uso fatto di questi cognomi, (Rota, Moscheni, Bolis e Quarenghi), parliamo del Quattrocento, epoca di questo primo atto notarile citato, che rappresenta una referenza geografica, economica e anche politica. I Rota furono commercianti, ma si sono distinti come avversari del potere visconteo, i Bolis abili artigiani nello sfruttamento dell’energia idraulica: mugnai o tintori, i Quarenghi più conosciuti come intellettuali: notai, preti, ma anche per il loro lavoro del legno come tornitori, i Moscheni, loro furono maestri nella lavorazione del ferro. Dunque fuori della valle, nella sfera bergamasca, quando un valdimagnino si nominava, ad esempio: sono Maffeo Veschere de Bolis era immediatamente riconosciuto e situato geograficamente, socialmente, economicamente e talvolta, … anche politicamente! Per illustrare quest’ultimo argomento, il caso dei Locatelli è particolarmente significativo. Parliamo sempre del periodo tra XV° e XVII° secolo, e le famiglie con quest’appellativo, sono geograficamente ed unicamente concentrate nelle parrocchie di Fuipiano, Locatello, Corna, Selino e Berbenno, comuni limitrofi, sulla sponda sinistra dell’Imagna. Al di là delle affinità di parentela, o legami di sangue  tra i Locatelli[2], gli antichi ghibellini erano considerati come sostenitori di Milano, dunque avversari della Serenissima e, dopo la conquista del territorio bergamasco, (1428), da parte della Repubblica Veneta, subiranno vessazioni e segregazioni dal nuovo potere, ma furono soprattutto socialmente ignorati ed isolati dai loro vicini valligiani stessi. L’appellativo Locatelli aveva secondo noi, prima di diventare una referenza anagrafica, un significato clanico e quest’impronta politico-sociale durerà secoli prima di offuscarsi.

Gli archivi parrocchiali sono le fonti principali di testimonianza sul nostro passato e sono la memoria della storia locale, a volte, l’unica documentazione disponibile sulla presenza di certe famiglie. Prima del Concilio di Trento[3] la registrazione dei battesimi era variabile a seconda dei luoghi.  La diocesi di Bergamo, conta 40 casi di registrazioni pretridentine, il registro di Rota, che abbiamo studiato, (scopo di questa ricerca), è uno di quelli. L’archivio parrocchiale di Rota contiene varie fonti documentarie eccezionali, miniera senza fondo d’informazioni, la principale è anagrafica e demografica. Ma oltre ai libri canonici, troviamo la documentazione relativa al patrimonio della parrocchia, all’attività caritativa: opere pie, confraternite, ma anche riferita al patrimonio artistico e culturale del paese.

Il primo registro dei battesimi di Rota, ha la singolarità di essere il più antico dei libri parrocchiali della valle[4] giunto fino a noi, in uno stato di conservazione relativamente buono. Ma al di là dell’antichità del volume, ed oltre l’aspetto religioso del documento, abbiamo lì una parte della storia di questo paese: rappresenta il ricordo della nostra gente. Non è soltanto un elenco di neonati che entrano nel mondo cristiano, ma simbolizza anche un anello tra le generazioni, un pezzo di vita in un’epoca difficile.                                                                                                                                                         Il sedicesimo secolo fu una successione di carestie ed epidemie, forse la valle fu risparmiata da qualche contagio dalla sua posizione geografica defilata, però la qualità e la topografia dei suoi suoli, non l’ha avvantaggiata per quanto concerne l’alimentazione della sua popolazione, (l’agricoltura in valle fu sempre considerata di debole rendimento), basti rileggere quella che consideriamo come “la Bibbia” per la descrizione della bergamasca fatta per questa epoca: Descrizione di Bergamo e suo territorio, 1596[5] scritta dal Capitano di Bergamo Giovanni da Lezze: siamo in piena concordanza, per la tempistica relativa alla redazione, (1563-1611), con il nostro registro dei battesimi.

Questi nostri paesani non ce la fanno, quasi tutte le famiglie sono indebitate, gran parte degli uomini devono partire per trovare altrove i mezzi di sussistenza, tante delle loro donne muoiono dopo il parto, le morti si succedano alle nascite in rapida successione: c’è una mortalità infantile disastrosa. Dopo la lettura della descrizione fatta dal da Lezze, il lettore troverà le nostre diatribe esagerate o superflue, ma, purtroppo, il quadro generale fu quello: l’ultimo decennio del secolo fu particolarmente pesante, il granoturco[6] non era ancora stato introdotto nella bergamasca, l’alimento – che diventerà un’alternativa conveniente ed indispensabile per il mondo contadino – arriverà solo all’inizio nel secolo seguente. L’allevamento, (con suoi derivati tessili), e lo sfruttamento dei boschi, sono essenziali nell’economia locale. Ci sono alcune famiglie della valle che già da tempo sono in città, arricchiti nel negozio dei pannilani, come i Cassotti, i Petrobelli, i Grassi ed altri che commerciano in tutta l’Italia, ci sono anche quelle rimaste sul posto come i Daina, Rota, Manini, Quarenghi, Zanucchini, famiglie benestanti, possiamo affermare, senza entrare in un “conflitto di classe”, che globalmente l’agiatezza di questi, riposa sulla dominazione economica del restante della popolazione.

Questa situazione economica spiega, in parte, la mancanza di preti[7] nelle parrocchie della valle, le vacanze alla cura di Rota sono osservabili nei buchi, percepibili nella registrazione dei battesimi, il primo, tra agosto 1577 e agosto 1578, il secondo, tra marzo 1581 e agosto 1582, un terzo, tra agosto 1594 e marzo 1596[8], poi, constatiamo nuove mancanze per gli anni 1599 e 1600: ci sono solo due battesimi segnati. Anni difficili si riscontrano alla fine del registro, in quattro anni, (1608-1611), sono annotati appena 14 battezzati.

Nel periodo di redazione del registro, cioè 50 anni, si sono succeduti per lo meno 10 preti, ognuno di loro con il suo modo particolare di compilare il registro, in un’epoca in cui il patronimico, come l’abbiamo descritto precedentamente, era un concetto astratto, spesso non c’è il cognome[9] del battezzato, a volte solo un soprannome o il nome della contrada. Scritture maldestre, ortografie approssimative complicano il decifrato e, dunque, la ricostruzione delle famiglie fu un’impresa ardua.

 Identificazione delle persone e delle famiglie

Un primo criterio, da prendere in considerazione, è la definizione del cognome da differenziare dal soprannome. Nell’epoca posteriore al registro studiato, cioè il Seicento e secoli seguenti, come oggi, consideriamo come cognome il patronimico che si trasmette tra le successive e future generazioni. Certi soprannomi sono diventati cognomi, come: Tondini, Schiantarelli, Vanalli, Baracchi, Berizzi, Ferrari, Galeotti, altri, come Ton, Bianco, Pertusi, anche se molto diffusi nel periodo antecedente al registro, hanno lasciato il posto al cognome “ufficiale”: ad esempio, i discendenti Ton e Pertusi, li ritroviamo con l’appellativo Moscheni e, i detti Bianco, sono nominati Bolis. Nel nostro registro sono battezzati 567 fanciulli, di questi, 383 sono identificabili con un cognome, 58 con un soprannome, 120 con il solo nome del padre e la contrada e soltanto 6 con l’unica informazione del nome del padre.

Dobbiamo considerare questo registro come composto di due parti ben distinte, di cui, la prima parte è, secondo noi, una copia realizzata da Don Francesco Mainerio[10] dei battesimi celebrati dai suoi predecessori, tra il 1563 e il 1581. Dall’inizio del libro cioè il 12 gennaio 1563 fino al 31 maggio 1577, che sarebbe il foglio n.19, la scrittura è a stampatello, ben regolare e perfettamente leggibile, sono tra i 3 e i 6 battesimi registrati per pagina, la calligrafia sembra essere stata la stessa come pure l’inchiostro utilizzato, e la copia fu fatta di getto, cosa che spiega la regolarità e l’uniformità del lavoro compiuto. Dal foglio n.20 al n.25, (fino al battesimo del 16 marzo 1581), si riconosce sempre la scrittura dell’inizio del registro, ma si capisce che le registrazioni furono realizzate poi in diversi tempi, da quel foglio n.20, anche, se la calligrafia rimane sempre la stessa, la qualità, però, diverge. Questi diversi indizi lasciano pensare che il prete, (il redattore), ha ricopiato un altro documento, l’originale, certamente rovinato o di brutta qualità. Don Mainerio scrive in basso della prima pagina, oggi in parte illeggibile, spiegando probabilmente che fu lui ad impegnarsi a questo incarico:

 Io P.te Franc° Maineri venni a far la …

  Gotardo adi 14 …

Purtroppo, il basso di questo primo foglio, sporcato e disgregato da centinaia di dita che hanno manipolato il manoscritto nel corso dei cinque secoli trascorsi, ha l’angolo destro in parte danneggiato.

Sul verso del foglio n.25, figura un ultimo battesimo (secondo noi sempre ricopiato da Don Mainerio), quello di Lucia Zanayno e subito sotto, Don Mainerio scrive di nuovo: Io P.te Franc° Maineri da Urg°. venni a Ruota p.(er) curato adi 14 ottob° del 1606[11].

Dalla pagina n.26r alla 32v, anche lì l’uniformità e la regolarità della scrittura, lasciano pensare che fu ricopiata ulteriormente, che i battesimi non furono registrati ognuno il giorno della celebrazione, però la calligrafia non sembra quella di Don Mainerio. Possiamo immaginare che il prete segnasse su qualche bigliettino i battesimi celebrati, poi, ogni tanto, si prendesse il tempo, con calma, di trascriverli sul registro ufficiale.

Don Mainerio, nel piccolo mondo rurale della valle, in questo piccolo paese, quale era Rota, appare come una personalità eccezionale: aveva la qualifica di secondo notaio e lo ritroviamo, per un certo periodo, (circa 1604-1607), accanto al notaio Francesco Quarenghi[12]: la sua presenza è attestata dalla controfirma di numerosi atti notarili.

Cronologia dei parroci di Rota nel periodo di compilazione del registro:

 Sala Guglielmo[13] parroco nel 1561/1575

Amirati Nicola[14] parroco nel 1582/1588

Orio Raffaele frate, parroco nel 1589

Vinizzoni Flaminio 1590

Camozzi Antonio[15] parroco nel 1591/1592

Girandi Enrico[16] parroco nel 1592/1593

Viviani Cesare[17] parroco nel 1594/1599

Mainerio Francesco parroco nel 1601/1608

Penna Michele parroco nel 1608

Giovanni Battista Rota[18] curato di Valsecca 1610/1611

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Il volume studiato è etichettato “2 – Rota F – BA 1563 . 1625 – CR 1579.08.17”, le sue dimensioni sono di 20,5 cm per 15 di larghezza, la copertina più recente è di cartone di un colore marmorato rosso e bianco, la rilegatura reca numerose tracce di restauri, con rinforzi di carta bianca incollati alla giunzione degli fogli. Sulla prima di copertura è scritto “bat”, sulla seconda di copertura si legge “Battesimi 1563 al 1625”. I fogli sono numerati in alto a destra, unicamente sul recto. L’ultima pagina sarebbe la numero 111, ma gli angoli degli ultimi fogli sono parzialmente disgregati ed illegibili. I battesimi, segnati in modo convenzionale, sono registrati fino alla pagina 59r; l’ultimo annotato è del 22 settembre 1611 sotto il quale è scritto la parola Finis.

Seguono pagine bianche fino alla n.78r dove è segnato il battesimo di Giovanni Cristoforo figlio di Gio. Andrea Tondini e di Apollonia, celebrato il 11 gennaio 1649, il luogo non è comprensibile, ma in un altro Stato. Poi, arriviamo alle pagine 81r a 82v, dove sono registrate le cresime di 44 figlioli di Rota del 17 agosto 1579, celebrate da Monsignor Gerolamo Regazzoni vescovo di Bergamo. Altre pagine vergini, e saltiamo alla pagina 109r dove sono annotazioni di contabilità dell’anno 1607, sulla pagina seguente, sono elencate le messe celebrate negli anni 1606-1607 per il legato Gajardelli. Sul verso del foglio leggiamo: Adi 21 Magio 1591 fu sepolto m. Andrea Tondino seguito da un nuovo elenco di messe, per gli anni 1605-1607, celebrate per il legato del q.da. Gasparo … Infine arriviamo all’ultimo foglio (111) piuttosto consunto e di lettura molto difficile, altra contabilità, incomprensibile, con l’elenco di messe celebrate, sui due lati del foglio.

Un primo cambiamento, nel modo di redigere, si nota nell’ottobre 1575: fino a settembre di quell’anno, il prete registra unicamente la data del battesimo. Il 9 di ottobre inizia l’annotazione della data di nascita, e ciò non per caso, corrisponde alla visita detta di San Carlo Borromeo. In realtà, l’arcivescovo di Milano non ha mai messo piede in valle Imagna, ma il suo inviato, l’abbate Ottavio Forerio, visita, in suo nome, la parrocchia di Rota il 14 ottobre 1575. Possiamo dunque pensare che il battesimo di Giovanni Maria Moratelli del 9 ottobre fu segnato nel libro parrocchiale posteriormente alla visita apostolica dell’inviato del futuro santo.

Il primo lavoro eseguito per la trascrizione di questo registro fu l’opera di Don Pietro Bugada[19], parroco di Rota Fuori, con la sua carica di vicario foraneo ha avuto accesso all’archivio parrocchiale di Rota Dentro, dove ha ritrovato il detto registro, (questo prete si è impegnato alla redazione di tre repertori alfabetici e cronologici per i battesimi, decessi e matrimoni). Nell’ultima pagina del repertorio alfabetico delle nascite ha scritto:

OSSERVAZIONI – Operazione fatta dal parroco di Rota Fuori, Pietro Bugada l’anno 1817 nel mese di novembre unde possa e lui ed i Parrochi successori sapere tutte le operazioni parrochiali fatte dai Parrochi di S.Siro e Gottardo.

Questo quinternetto è lo spoglio di un libro ritrovato nell’archivio parrochiale di S. Gottardo penso avuto ad imprestito da qualche parroco di Rota, cui compette poiché dall’1563, sino al 1611 anni che comprendono il presente quinternetto ni era solo la comune di Rota dominante anche delle contrade che ora sono di S. Gottardo, sebbene le Chiese erano due una detta S. Siro l’altra S. Gottardo…

Questa annotazione è rivelatrice della tribolazione vissuta dal nostro libretto! Forse è stato dimenticato per decenni in un armadio, spostato, ritrovato, non è stato perso o distrutto… per miracolo.

Abbiamo tentato di ritrascrivere il più fedelmente all’originale, in corsivo tale come si legge, tra parentesi, le nostre annotazioni per facilitare la comprensione del testo. Abbiamo, talvolta, aggiunto le maiuscole ai nomi propri, un punto significa un’abbreviazione come appare nell’originale, tre punti sono parole parzialmente o totalmente illeggibili.

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Trascrizione

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1563

 

[1] ASB – Archivio notarile – Filza n.390.

[2] Che possiamo considerare posteriore al loro posizionamento politico, cioè, della circostanza che, a causa , del loro isolamento, si sono sposati tra di loro.

[3] 1545-1563.

[4] Presentiamo, qui sotto, una parte degli altri archivi parrocchiali della valle, la loro consistenza e l’anno dei documenti i più antichi reperiti. Estratto da: Gli archivi parrocchiali della Diocesi di Bergamo – Censimento 1997 – Diocesi di Bergamo, Centro Culturale Nicolò Rezzara.

Bedulita: 14 buste, 115 registri, 4 mazzi – dall’anno 1615: battesimi, matrimoni cresime e morti.

Berbenno: 37 buste, 249 registri, 3 mazzi – 1641: battesimi, 1529: legati. Contiene una parte dell’archivio di Blello.

Capizzone: 16 buste, 72 registri – i battesimi dal 1816, stati delle anime dal 1776.

Cepino: lacunoso, archivio probabilmente incendiato, 35 buste, 92 registri, 1 mazzo – 1779: battesimi. Sono conservati ugualmente dei documenti riguardando il Santuario della Cornabusa: 5 buste e 15 registri dal 1850.

Corna: 26 buste, 131 registri, 4 mazzi – i battesimi dal 1638, morti e matrimoni: 1640.

Costa: 57 buste, 91 registri, 1 mazzo – i battesimi dal 1605, atti notarili dal 1656.

Fuipiano: 21 buste e 129 registri – i battesimi e matrimoni dal 1631, morti dal 1634

Locatello: 19 buste, 142 registri, 4 mazzi – i battesimi dal 1642, matrimoni dal 1682 e morti dal 1693, atti notarili dal 1548.

Rota Dentro: 8 buste, 74 registri, 15 mazzi – per i battesimi, il registro è comune con Rota Fuori dal 1563, i matrimoni dal 1626.

Rota Fuori: 23 buste, 137 registri, 43 mazzi – i battesimi dal 1563, matrimoni e morti dal 1612, Dottrina Cristiana dal 1659.

Sant’Omobono-Mazzoleni: 47 buste, 199 registri – i battesimi dal 1732, morti dal 1717, matrimoni dal 1735, legati dal 1570, Confraternita SS. Sacramento dal 1572. Possiamo aggiungere l’informazione seguente riguardando S.Omobono: nel Settecento fu eseguita una ricerca genealogica per i nobili Camerata de Mazzoleni: in queste carte il ricercatore precisa: Il libro de morti nella Chiesa di S°Homobone principia l’anno 1612, il libro de battesimi di detta Chiesa principia l’anno 1605. E’ importante sapere ciò perché oggi questi preziosi registri sono scomparsi.

Selino: 16 buste, 93 registri, 4 mazzi – i battesimi dal 1702, cresime dal 1582, morti dal 1664, matrimoni dal 1702. L’inventario della Curia, per quello che riguarda Selino, non è esatto, nel corso di una nostra ricerca abbiamo trovato in quest’archivio un registro dei battesimi, molto lacunoso, ma che inizia nell’anno 1588.

Strozza: 35 buste, 152 registri, 4 mazzi – i battesimi dal 1621, matrimoni dal 1632, benefici: 1606, cappellanie: 1605.

Valsecca: 32 buste, 88 registri, 1 mazzo – i battesimi dal 1626.

[5] Vincenzo Marchetti, Lelio Pagani – Lucchetti, 1988.

[6] Il nuovo cereale ebbe nel corso del Seicento un ruolo di primo piano nel garantire l’autosufficienza alimentare della popolazione e la scomparsa delle carestie. Andrea Zannini – L’economia veneta nel Seicento… in Società Italiana di Demografia Storica, La Popolazione nel Seicento (1999).

[7] La gran parte delle parrocchie valligiane sono mercenarie: i parrocchiani hanno il privilegio di scegliere il loro curato, ma tocca a loro di remunerarlo.

[8] C’è un solo battesimo registrato per tutto l’anno 1595.

[9] In particolare, Don Nicola Amirati, nel 1582, non vuole, scrive, il patronimico.

[10] Don Francesco Mainerio, oriundo di Urgnano, parroco di Rota nel 1601.

[11] In realtà Don Manerio segna la sua presenza, scrivendo il proprio nome numerose volte, tra il 8 gennaio 1601 e il 24 agosto 1607, però la sua scrittura è riconoscibile fino al 27 gennaio 1608. Il 30 ottobre del 1608 Don Manerio è curato di Berbenno.

[12] ASB – Archivio Notarile – Francesco fu Giovanni Schiantarelli de Quarenghi, filza n.4411.

[13] Don Guglielmo Sala, oriundo di Piacenza, parroco di Rota, nel 1575 per la visita detta di San Carlo Borromeo, è detto da 14 anni curato di Rota.

[14] Amirati Nicola oriundo di Nola, nel corso della visita di Monsignor Regazzoni, vescovo di Bergamo,  in Locatello il 16 agosto 1579 fu citato: <<… il nostro curato che credo si chiami Nicola Napolitano per quello che si può vedere si trova assai bene, non conosco in lui vizio alcuno, non ha in casa nessuna donna, insegna la dottrina cristiana…>>.

[15] Il prete Antonio Camozo o Antonio de Mozzi, anche se non è più parroco, rimane per un certo tempo a Rota e compare, nel registro, come padrino, nel 1593 e nel 1594.

[16] Don Enrico Girandis, è citato in un atto notarile del 1590, dal notaio Marcantonio Donati di Berbenno (ASB, filza n°3223) …il pbr.Henricus f.q.Mathei de Girandis Marchion… curato di S.Ant. di Berbenno.

[17] Oriundo di Pesaro.

[18] C’è un po’ di confusione con Don Giovanni Battista Rota, forse di tratta di due persone diverse, omonimi. Don Giovanni Battista Rota fu parroco di Rota Fuori nel 1624-1625, un Don Giovanni Battista Rota fu parroco di Valsecca tra dicembre 1626 e dicembre 1649, in un registro parrocchiale di Rota lui stesso scrive (anno 1624) curato di Valsecca, vice curato di Rota… Nel registro dei morti di Rota Fuori alla data 24 marzo 1650 è registrato il decesso di Don Giovanni Battista Rota, parroco di Valsecca. Nel mese di maggio 1650 Don Giovanni Battista, in un atto notarile, è detto di Mazzoleni.

[19] Nato il 23 maggio 1758 in Rota Fuori, figlio del notaio Giovanni Maria e di Francesca Cassinelli, fu parroco tra 1810 e 1832.

Rubriche del notaio G.G. Moscheni-Zanuchini

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Giovanni Giacomo Moscheni-Zanuchini, notaio di Rota

La sua attività, i suoi clienti (1532-1599)

 

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Abbreviazione utilizzate:

ASB: Archivio di Stato di Bergamo

BCM: Biblioteca Civica A. Mai di Bergamo

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Il seguente studio nasce da un altro progetto ancora più ambizioso: fotografare tutte le rubriche dei notai dell’alta valle Imagna, è dunque nel corso di queste riprese fotografiche che è nato l’interesse di approfondire l’attività di un singolo notaio. Chi vuole indagare sulla storia della valle, ripercorrere i tortuosi sentieri delle vicende valligiane o semplicemente ricostruire le genealogie delle famiglie, dopo la consultazione degli archivi parrocchiali arriva a quelli notarili. Parlando dell’alta valle Imagna, globalmente gli archivi parrocchiali iniziano negli anni intorno al 1630, eccezion fatta per quelli di Rota che partono dal 1563. Per una ricerca genealogica e risalire indietro nel tempo, gli atti dei notai costituiscono fonti preziose che rivelano il quadro dei nuclei familiari, i nominativi e i luoghi delle successive generazioni.

Avere a disposizione le foto di queste rubriche significa, oltre a risparmiare tempo, avere uno strumento unico che permette, senza necessariamente vedere gli atti, di ricomporre gli strati generazionali di una stessa famiglia, capirne l’attività lavorativa, farsi un’idea della posizione sociale di certi individui e in qualche modo ricostruire la loro fisionomia economica. Lo studio delle nostre radici conduce inevitabilmente agli archivi notarili, ogni ricercatore prima o poi consulterà i volumi rilegati contenenti gli atti ritracciando gli avvenimenti particolari della vita dei nostri antenati. Memoria viva delle vicissitudini del passato, le filze notarili costituiscono un insieme di elementi fondamentali per capire la vita interna di una comunità, il comportamento di certi individui, la loro forma di sussistenza, la fruttificazione e la trasmissione del loro patrimonio. Doti e testamenti rappresenteranno nel corso dei secoli l’evoluzione della società ed evidenzierà il posto delle donne; le vendite e le locazioni spesso fittizie riflettono l’anacronismo dell’uomo di fronte ai suoi bisogni o di fronte alla religione. La gestione delle terre e del bestiame, la loro vendita, gli affitti o soccide, saranno per secoli per i più umili la sopravvivenza, ma saranno investimenti fruttuosi per altri. Il passaggio di due contraenti davanti al notaio oggi come ieri costituisce un legame sociale importante, almeno due individui saranno uniti e dovranno rispettarsi l’un l’altro malgrado, come vedremo in seguito, spesso uno dei due sia in una situazione d’inferiorità. Dagli archivi emergono le vicende delle nostre famiglie e di certi aspetti di un’economia rurale, anche se tanti altri rimangono ancora nell’ombra, il notaio ne è stato il testimone privilegiato, li ha trascritti in una forma legale e standardizzata ma, certe emozioni trapelano comunque e si può capire la drammaticità del momento.  La carta o la pergamena strappata, macchiata, talvolta in parte bruciata, l’inchiostro sbiadito, la scrittura certe volte illeggibile, il notaio con il suo scrivano nonostante tutto ci ha lasciato un momento di vita, concludendo la chiusura dell’atto appoggiando il suo segno di tabellionato, sottile e grazioso disegno.

Nell’antica Galilea due cittadini Ebrei che volevano contrattare si accontentavano di dichiarare le loro volontà in un luogo pubblico davanti a dei testimoni per rendere irrevocabili le parole dette, le parti si fidavano tra di loro. Ma l’uomo nella sua diversità, tra i suoi numerosi difetti, ha la particolarità di non rispettare i suoi impegni, così l’imbroglio e la malvagità rendono i contratti verbali inadeguati e l’introduzione di intermediari, del giuramento o della presenza di testimoni si diffonderà con il tempo. In Europa occidentale i vari paesi hanno un ceppo comune nelle loro pratiche notarili, basate sul diritto romano, i popoli conquistati all’epoca dell’Impero, oltre alle proprie leggi locali, hanno assimilato i costumi e le abitudini degli invasori[1]. Nel corso dei secoli, l’istituzione del notariato, il suo livello di competenza, la sua affidabilità, è considerata come un indice: un testimone del grado di civiltà delle nazioni. Il patrimonio documentario custodito nei vari archivi cittadini, dimostra il ruolo centrale del notaio, attore di primo piano nei momenti essenziali della vita dei suoi vicini, protagonista nella gestione della cosa pubblica, accanto alle istituzioni locali.

L’attività notarile in provincia di Bergamo fu gestita e controllata dal Collegio Notarile, i primi statuti conosciuti risalgono al 1264[2]: ma il più antico documento notarile è un diploma di epoca longobarda del re Astolfo, l’originale è conservato tra le carte dell’Archivio della Cattedrale di Bergamo[3]. Nell’archivio della biblioteca civica tantissime pergamene citano le contrade e le famiglie della valle, in particolare tra il XIII e il XV secolo, appaiono le numerose proprietà del Monastero di Astino, atti notarili per l’affitto o l’inventario delle terre, ma spesso rogati da notai della città. Tra i notai residenti in alta valle Imagna, i primi conosciuti appartengono alla famiglia degli Arrigoni (sec. XIII), diverse pergamene conservate nella biblioteca Ambrosiana di Milano, testimoniano la loro presenza. Nell’Archivio di Stato di Bergamo, il notaio Bortolo fu Defendo Locatelli-Patay ha lasciato un rogito dell’anno 1400. Non conosciamo la struttura organizzativa che gestiva la conservazione delle scritture notarili in valle prima dell’Ottocento, sappiamo che nella stessa famiglia di notai il passaggio avveniva di padre in figlio[4]. Il comune della Valdimania si è preoccupato di conservare e di non lasciare che andassero dispersi i preziosi documenti, l’unica fonte scritta della memoria valligiana. Per secoli la valle ha avuto il suo archivio in Corna nella contrada di Brancilione, subendo le vicissitudini del tempo, nei primi anni dell’Ottocento[5] alcuni documenti furono danneggiati dall’umidità e dal fuoco. Gli archivi notarili, nel senso attuale del termine, sono il frutto del Regolamento sul notariato del 1806, da quel momento gli archivi notarili hanno lasciato la valle per il capoluogo.

Per la valle Imagna circa 120 notai ci hanno lasciato i loro archivi tra il Trecento e la fine del Settecento, il tutto conservato oggi all’Archivio di Stato di Bergamo, ma sicuramente altrettanto numerosi sono quelli di cui abbiamo perso le tracce, le numerose citazioni di quelli scomparsi lasciano immaginare il doppio del numero dei notai che hanno rogato in quel periodo nella valle o almeno assunto la funzione di secondo[6] notaio. Tra i notai archiviati sono note le dinastie, generazioni che si succederanno nella stessa attività: gli Arrigoni di Cepino (sec. XIV-XVI), i Coronini e i Donati di Berbenno (sec. XVI-XVIII) ma soprattutto notevoli i Moscheni-Zanuchini di Rota stabiliti in contrada Cabrignoli. Siamo certi di sette componenti, cioè sette generazioni di questo casato, ai quali si potrebbero aggiungere altri tre stabiliti a Bergamo[7]. Tra parentesi gli anni di attività:

Giovanni (1481-1533) – Gio.Giacomo (1532-1599) – Giovanni (1561-1624) – Benedetto (1599-1630) – Gio.Giacomo (1624-1645) – Benedetto (1653-1712) – Franco (1684-1711).

Tra tutti i notai accessibili per i loro archivi, il patrimonio documentario lasciato da Giovanni Giacomo Moscheni-Zanuchini è eccezionale, sono 67 gli anni di attività, abbiamo diversi esempi dove ben quattro generazioni della stessa famiglia hanno potuto rivolgersi a lui per sigillare ufficialmente gli eventi importanti della loro vita. G. Giacomo è succeduto a suo padre Giovanni e dal 1532 al 1599 fu uno dei due principali notai in alta valle, la sua carriera rappresenta 28[8] filze di archivi contenenti 74 volumi[9]. In parallelo al nostro notaio Moscheni in alta valle Imagna rogavano i notai Arrigoni di Cepino (detti Mazzi o Massi), il padre Alberto Battista tra 1519 e il 1565 (46 gli anni di attività che non sono pochi!) ma soprattutto il figlio Eustachio, anche lui ha avuto una carriera impressionante, lasciando 63 anni di archivio tra il 1538 e il 1601. Non è stato fatto un confronto preciso tra il nostro Moscheni e gli Arrigoni, anche si troviamo spesso negli archivi di Alberto Battista Arrigoni tanti abitanti di Fuipiano, non è il caso del figlio Eustachio e globalmente sembrerebbe che i notai di Cepino erano più orientati verso il sud della valle, li ritroviamo spesso nei paesi di Strozza, Roncola, Bedulita, mentre il Moscheni era posizionato più verso le parrocchie di Brumano, Fuipiano, Locatello, Corna, Rota. Ma questa è soltanto una visione superficiale, non sarebbe giusto dire che le due famiglie si fossero divise la valle, infatti numerosi clienti dell’una appaiano negli archivi dell’altra. Apparentemente la relazione tra i due fu eccellente, provata dal fatto che i due notai per i loro affari personali si recavano l’uno dall’altro[10], ma non solo, per certi atti era necessaria la presenza di due notai, Eustachio firma tantissimi atti come secondo notaio accanto a Gio. Giacomo. Parlando sempre dello stesso periodo, dobbiamo citare un notaio di Berbenno: Giovanni Antonio Donati, attivo tra 1537 e 1570. Ecco il quadro dell’attività notarile che centra il secolo XVI in alta valle Imagna.

Moscheni

Le notizie più antiche sulle famiglie Moscheni della valle Imagna provengono dall’Abate Angelini che cita nell’anno 1188: Arnoldo Mosca de Frontale de Lemine. Sappiamo che nel XIII secolo Arnoldi Musche de Frontali appare sul Rotolus Episcopatus della Curia Vescovile di Bergamo.

Nell’opera monumentale: Antichità Bergamasche di Giuseppe Ercole Mozzi, l’autore ha rilevato:

  • Giovanni figlio del quondam Bonadei Moscheni de Valdimania, cittadino di Bergamo nell’anno 1371.
  • I fratelli Bertrame e Venturino figli del quondam Zinini de Scudelari de Valdimania, nell’anno 1386.
  • Vitali detto Pertusi de Moscheni fu creato cittadino di Bergamo nell’anno 1458 e suoi eredi furono proprietari al Frontale di Rota Dentro nell’anno 1461.
  • Nel 1472 è citato Zanuchini figlio del quondam Ser Bertrami olim Fachini de Moscheni de Rota.

Però con l’appellativo Moscheni troviamo ugualmente le famiglie: Cassinelli, Todeschini, Mirabelli, Gritti, tutti di Valsecca. Sembrerebbe che le prime famiglie Moscheni provenissero da questo paesino, lasciando alla contrada Cascutelli il nome del loro antico mestiere, gli scudelari che lavoravano il legno al tornio. Originari ugualmente di Valsecca, i nobili Moscheni, marchesi di Bergamasco e consignori di Castelnuovo (Bormida), il capostipite sarebbe Tonolo (Antonio) figlio di Giovanni che fece testamento nel 1505 presso il notaio Giovanni Zanuchini-Moscheni, suo figlio Simone è soprannominato Todeschini, citato tra 1479 e 1496, senza sforzi possiamo immaginare che abbiamo lì il progenitore delle numerose famiglie Todeschini. Il fratello di Tonolo: Giovanni sarà all’origine della stirpe dei detti Mori.

Per Rota i detti Pertusi de Moscheni sono collocati in Rota Dentro, il soprannome si rileva fino all’anno 1624, da questo stesso casato appaiono i discendenti: i cosiddetti Ton de Moscheni sempre al Frontale, poi all’inizio dell’800 stabiliti alla Canova, famiglie ancora oggi esistenti.

Quelli che vogliamo studiare sono i detti Zanuchini, il sopraddetto Zanuchini citato nel 1472, potrebbe essere il patriarca di questa famiglia di notai, però il luogo: la contrada Cabrignoli, sede per secoli dei Zanuchini è ugualmente rilevata dal Mozzi nell’anno 1506, dove sono citati gli: heredi di Zanini q.Jo.Girardi de Moscheni in loco de Cha Brignoli. Dunque è difficile attribuire il titolo di capostipite all’uno o all’altro, sappiamo che Giovanni il primo notaio che lascia i suoi archivi è detto figlio di Zanuchino e svolge la sua attività nella sua casa di Cabrignoli, sarà l’attività professionale di suo figlio che andremo a seguire.

Dobbiamo citare il Zenochino citato dal Capitano Giovanni da Lezze[11] nella sua descrizione del territorio bergamasco parlando di Valsecca: Il più riccho è il Zenochino, qual è console et thesorier di tutta la valle et cancelliere poi generale di tutte le altre valli insieme. Quel Zenochino non è altro che un omonimo del nostro notaio: Giovanni Giacomo Zanuchini che fu Console di Rota e tesoriere del Consiglio della Valle, lo troviamo citato in una scrittura notarile, un resoconto di un’assemblea del detto Consiglio, del 2 novembre 1561, atto rogato dal notaio G. Giacomo Moscheni.

L’ultima nascita censita in Rota Fuori da questo casato è di Maria Vergina nell’anno 1747 in Cabrignoli figlia di Guglielmo Moscheni detto Polacco e concludiamo con la discendente reperibile con l’appellativo Zanuchini: Giulia, probabilmente nativa di Bergamo, figlia di Giovanni Pietro e vedova del notaio Giacomo Antonio Manini de Personeni di Sant’Omobono, deceduta a Cabrignoli il 4 gennaio 1820.

Tra le poche notizie pervenute fino a noi, citiamo una relazione alla Curia[12] del 1822 dove don Giovanni Pietro Bugada, parocco di Rota F., vicario foraneo, elenca i vari legati della parrocchia di Rota, tra cui: Messe 4 in Off. ogni anno in perpetuo con lire cinque di moneta per cera …per legato del fu Giacomo[13] Alberto di Ghirardo de Moscheni. Don Bugada prosegue: Vi sono poi n.18 messe in un Oratorio pubblico, ma di diritto privato di un tale Zanuchini gravitanti sopra un fondo, ma queste da più anni inadempite, ed il fondo venduto e rivenduto di modo che or più non si parla ne di fondo, ne di messe. Questo è di famiglia privata estinta. Il fondo però vi è ancora, e vi è pure l’oratorio[14], e ciò tutto è posto nel luogo detto Cabrignoli.

Nella contrada Cabrignoli di oggi non ci sono più tracce dell’antico luogo, sede dei Rota Brignoli del Quattrocento, non si vede più l’oratorio, nemmeno la maestosa torre descritta dal dottor Barbieri[15], sono pochi i segni, o quasi niente, del passato che lascerebbero immaginare l’antica dimora dei Zanuchini.

Giovanni Giacomo è nato il 14 ottobre 1514 figlio di Giovanni e di Angelina, da due documenti abbiamo la sua precisa data di nascita. Il primo è il testamento del padre Giovanni probabilmente ammalato nella sua casa in Cabrignoli dove detta il suo testamento[16] la domenica del 28 febbraio 1524 presso il notaio Alberto Battista Arrigoni. Nomina eredi e successori universali, il primogenito Giovanni Giacomo di anni dieci e Giovanni Andrea di anni quattro. Sono citate le figlie: Domenica e Benedicta, tutti figli procreati con sua moglie Angelina. Il secondo documento è eccezionale, scritto per mano dello stesso padre Giovanni in un volume dei suoi archivi di notaio[17]. Il padre ha segnato le date di nascita e di decesso dei suoi figli, uno scritto così unico che lo riproduciamo nelle note[18]. Questa inattesa annotazione rende ancora più vive le filze notarili, il notaio offre un commovente ed insostituibile ritorno al passato, come quel disegno ritrovato nelle filze del notaio Carlo Quarenghi[19], anche lui di Rota, dove un suo figliolo disegnando riproduce il padre con la piuma d’oca in mano, tentando anche di riprodurre il segno di tabellionato paterno.

Sono scarse le informazioni ritrovate su G. Giacomo, non sappiamo il nome di sua moglie, non è stato rinvenuto nessun testamento, la consultazione degli archivi di altri notai è rimasta infruttuosa. Il testamento di suo padre e anche quello di Giovanni suo figlio rivelano notizie familiari. Del fratello Andrea sappiamo che si è stabilito a Bedulita in Canegrè, sposato con una certa Maddalena e che fa parte dei capifamiglia del luogo nell’anno 1605.

Giacomo è padre di almeno un figlio: Giovanni nato nel 1542 circa, marito di Caterina, dall’archivio parrocchiale rileviamo la nascita di otto suoi figli tra il 1565 e il 1586, lascia un testamento[20] olografo datato 27 ottobre 1616, dove appare citata per la prima volta la loro chiesetta in Cabrignoli dedicata a San Francesco. Giovanni decederà il 1 settembre 1624 all’età di 82 anni.

Giacomo comincia a rogare all’inizio dell’anno 1532, dunque aveva diciotto anni, benché negli ultimi Statuti del Collegio Notarile dell’anno 1491 l’età minima fu alzata da diciotto a venti anni. Dopo aver superato la valutazione davanti alla commissione esaminatrice[21], G. Giacomo fu approvato dal Collegio e la sua registrazione figura nel registro Matricola Notariorum[22] con la data del 9 marzo 1534 coerente per i suoi vent’anni. Dopo l’esame che conferisce al futuro notaio la menzione: approbato ad rogandum Giovanni Giacomo, come altri suoi pari, deve prestare giuramento. Gli esempi ritrovati che sanciscono la presa di funzione del postulante lasciano vedere un imponente cerimoniale. Proponiamo qui sotto l’esempio di un altro notaio della valle Imagna, si tratta di Francesco Quarenghi (1569-1630) della famiglia di Capiatone in Rota Fuori, la scrittura ufficiale è registrata dal notaio Gio. Antonio Petrobelli[23] di Bedulita, con il titolo Creazione di notaio. La solenne cerimonia per la sua investitura ufficiale è presieduta da un notevole personaggio: il giovane conte Francesco Brembati[24], la presenza di un esponente della nobiltà cittadina da una rilevanza importante alla creazione del notaio e non mancherà di impressionare la gente presente. Un tale rituale contribuisce a dare più peso al giovane notaio e alla sua funzione, la sua affidabilità è rinforzata, ma costituisce ugualmente un modo per riaffermare l’autorità cittadina, a volte contestata.

Nel nome di Cristo amen, giorno quarto del mese di Luglio dell’anno 1604, indizione seconda, nel luogo di Sant’Omobono di Valle Imagna, distretto di Bergamo sotto il portico a piano terra del cimitero della chiesa parrocchiale di detto luogo, presenti i testimoni: sig. Aucursino fu Andrea Contalli de Petrobellis, sig. Giacomo fu Giovanni de Gambirasi di Palazzago, ser Antonio fu ser Stefano Borioli de Angelinis e ser Leonardo fu ser Salvi de Muttis di Almè, tutti ecc. bergamaschi che si dichiarano ecc.  e per secondo notaio il signor Andrea Luello notaio pubblico di Bergamo ecc che si ecc.

Ivi il Magnifico Illustre sig. Conte Francesco fu Magnifico Illustre  sig. Conte Ottavio  de Brembate per creare il notaio imperiale avente autorità come nel suo privilegio del giorno ecc. al quale ecc. e da me notaio infrascritto visto e letto ecc., spontaneamente ecc. così instando e richiedendo il sig. Francesco fu sig. Giovanni Schiantarelli de Quarenghis di Rota di Valle Imagna inginocchiatosi lì alla presenza come sopra costituito chiedendo di essere creato notaio pubblico di Bergamo ecc.; il quale Magnifico Illustre sig. Conte Francesco, vista prima la adeguatezza di detto sig. Francesco e che il suo animo è mosso da cause ragionevoli, osservate le formalità da osservare, in ogni miglior modo ecc. creò e ordinò notaio e tabellione pubblico di Bergamo detto sig. Francesco fu Giovanni Schiantarelli lì presente e così richiedente e con l’anello d’oro, il calamo, la tavoletta cerata come è costume,  inginocchiatosi come sopra, ricevente con umiltà, investì pubblicamente dell’arte notaria così che in seguito possa redigere istromenti ed atti pubblici e fare tutto ciò che un notaio e tabellione può fare secondo il tenore di detto suo privilegio, giurando detto sig. Francesco, toccate fisicamente con mano le Scritture [cioè la Bibbia] nelle mani del predetto Magnifico Illustre sig. Conte Francesco stipulante e ricevente a nome di detto Impero, di esercitare il proprio ufficio secondo giustizia e fedeltà, rifiutando ogni falsità e inganno; e inoltre promettendo anche di non trattare nulla che sarà ritenuto contrario all’onore e allo stato dell’Impero Romano né del predetto Magnifico Illustre sig. Conte e del  suo casato né consentirà a ciò, rogando me notaio che di quanto premesso dovessi fare un istrumento pubblico ecc.

S.N. Io Giovanni Antonio figlio di Polidoro de Petrobellis cittadino e notaio pubblico di Bergamo del soprascritto istromento di creazione di notaio insieme con …

 Spoglio delle rubriche

Ogni filza di archivio contiene da due a cinque volumi dove vengono rilegati gli atti, all’inizio di ogni volume ci sono queste rubriche, tutte compilate nello stesso modo, di solito su una sola riga:

Tipologia dell’atto / nome dei contraenti / numero dell’atto (o del foglio).

Il notaio nel suo modo di redigere l’intitolazione delle sue rubriche, rispetta sempre dei codici di buona creanza corrispondenti all’epoca, usando le abbreviazioni rispettose per i termini: Magister, Domino, Magnifico[25], per un maestro artigiano, un notabile o un nobile, nello stesso spirito scrive nelle rubriche in primo luogo il nome dei maggiorenni che di solito tengono le redini e gestiscono la situazione relativa all’atto.

Dunque come nella maggior parte degli atti ci sono due parti che contrattano, il notaio o il suo scrivano nella rubrica scrive sempre in primis il nome dello stipulante preminente seguìto dal nome del secondo contraente. Di conseguenza abbiamo fatto la scelta, per il detto spoglio, di rilevare e segnare unicamente il nome del primo, considerato il contraente principale. La prima ragione di questa scelta è di ottenere una stratificazione sociale ed economica degli abitanti della valle, la seconda è che l’altro contraente apparirà in altri rogiti dove sarà il protagonista basilare (nei retrodati, dote, testamenti ecc.…) e la terza è una ragione tecnica, schedare tutti i contraenti significa un lavoro interminabile e un finale controproducente. Sono stati necessari quattro mesi di intenso lavoro e non sono state conteggiate le ore per decifrare le centinaia di foto. Lo spoglio delle rubriche si è reso lungo e complicato dal fatto che diverse persone hanno compilato questi repertori in periodi successivi, in modi diversi, e dal latino si passa all’italiano. Inoltre nel corso degli anni il modo di qualificare certi atti cambia e ne rende più difficile l’interpretazione e la classificazione.

Nel caso che cita diversi fratelli, chi scrive rispetta l’ordine cronologico iniziando con il nome del primogenito (non sempre ma spesso dà il nome del padre e talvolta anche del nonno quando c’è un rischio di omonimia), rispetta la forma nel redigere una buona parte della intitolazione ma spesso usa anche delle scorciatoie che rendono difficilissimo il riconoscimento del personaggio citato, si accontentano di un nome e di una contrada, all’esempio: Maffeo di Canito o Andrea Luce, sunti evidenti per lui. Il primo sarebbe Maffeo Moreschi di Corna in contrada Canito, il secondo Andrea Rota figlio di Luca della contrada Torre di Rota Fuori.

L’uso dei soprannomi è frequente, derivanti spesso dal mestiere, troviamo i Garzaroli, Cementari, Carbonari, Fusari, Molinari, Fachini, Ferrari, Scudelli, Marengoni, Tintalori.

I numeri

Tentiamo adesso di presentare i numeri estratti da questo studio e di esporli in modo chiaro e gestibile, vista la grande quantità di numeri e percentuali riguardanti le tipologie degli atti o dei clienti, abbiamo fatto la scelta di presentarli a dosi omeopatiche! ripartiti per tutta questa relazione secondo il tema affrontato. Dei 74 volumi presenti nelle filze del notaio Moscheni ne sono stati studiati 64, gli altri dieci sono senza rubriche[26] e rappresentano circa 20 sui 67 anni di archivi, dunque in questo tempo di circa 47 anni abbiamo individuato 3.685[27] clienti che hanno cumulato un totale di 14.799 atti, per quel periodo sono 115 i clienti  presenti con più di venti atti ciascuno, la scelta di questo numero dei venti atti serve a stabilire una soglia virtuale sopra la quale visibilmente il rogito notarile entra nella gestione di una attività professionale, come oggi un imprenditore si assicura l’aiuto di un avvocato o perlomeno di un commercialista. Consideriamo che la maggioranza dei 3.570 clienti sotto questa soglia è gente comune, certi benestanti, altri semplici artigiani o contadini che utilizzano i servizi del notaio per gli eventi importanti, eccezionali, della loro vita, nei tre gruppi di operazioni essenziali: le compravendite, le doti e la gestione del patrimonio. Cioè una media di 2,6 atti per ogni cliente, ma la stragrande maggioranza: 2.873 contraenti avranno contattato il notaio per la scrittura di tre atti o meno ognuno[28].

I numeri lasciano vedere un’attività massimale tra circa il 1540 e il 1570, dopo di che c’è un declino e si nota negli ultimi due anni una diminuzione fino alla metà degli atti rogati rispetto al periodo più intenso. Sono diverse le spiegazioni possibili, ovviamente più andiamo avanti nel tempo, più Gio. Giacomo invecchia e la sua capacità lavorativa diminuisce, inoltre dobbiamo considerare che suo figlio Giovanni inizia il mestiere nell’anno 1561 e infine il Senato veneto istituisce nel 1571 dei nuovi dazi su certi tipi di atti notarili e ciò influisce fortemente su tutta l’attività notarile.

Spostamenti

Gio. Giacomo fu un notaio sempre vicino ai suoi clienti, definirlo itinerante forse non è adeguato, certi puristi attribuiscono questo termine ai notai, cancellieri che seguono il vicario nei suoi spostamenti nel distretto. Ma lo studio dei suoi spostamenti mette in luce l’incredibile mobilità del notaio, tutti i giorni si sposta da un paesino all’altro, non passa per dire, tre giorni nel suo studio di Cabrignoli aspettando i clienti, no, mai più di un giorno a Rota. Spesso ospitato in casa di un suo cliente per la stesura degli atti, di frequente nell’abitazione dei grossi contraenti, tra gli altri appaiono spesso Gerolamo Manini al Prato Grigio o Gio. Antonio Rota-Chiarelli alla Torre di Valsecca. I luoghi d’incontro possono essere molto diversi: sulla strada pubblica, ma il più frequente è davanti al cimitero o la chiesa dei vari paesini. Tra i posti più nominati per Sant’Omobono ci sono la casa di residenza del Vicario o davanti al portico dei Mazzoleni. La sorpresa è di trovare tanti, per non dire tutti, abitanti di Brumano tra i suoi clienti abituali, ricordiamo che Brumano faceva parte del Ducato Milanese, subordinato a una giurisdizione differente, per loro il notaio si reca al luogo detto Corna Magna di Rota, al confine del territorio, vengono lì anche quelli di Morterone. Tutti i paesini della valle Imagna sono citati fino ad Almenno, ma anche al di là: in valle Brembana e in valle San Martino. Bergamo è citata numerose volte all’anno: nelle vicinie di S. Agata, S. Pancrazio, S. Michele dell’Arco, in Platea Magna (attuale piazza Vecchia, nell’apoteca di Gio. Giacomo Rapa de Locatelli, drappiere) sempre in una bottega di qualche commerciante e gli atti rogati sono ogni volta in relazione con un abitante della valle Imagna. Abbiamo tentato di capire se c’erano dei giorni stabiliti in anticipo, rispettando il calendario Giuliano in vigore in quest’epoca, risulta che non ci sono giorni fissi per esempio: il martedì a Rota, il mercoledì a Sant’Omobono ecc., non c’è una regolarità pianificata a lungo termine in queste trasferte. Probabilmente rispondeva alle richieste e spostandosi alla domanda, la voce si spandeva per la sua venuta e dunque si radunavano al luogo previsto anche altri paesani, non è da scartare la sua presenza sui mercati o fiere importanti. L’esame di questi incessanti spostamenti lascia intravedere un uomo di forte tempra, robusto, cavalcando per sentieri e mulattiere gran parte delle sue giornate tra monti e valli, in tutte le stagioni e frequentemente anche la domenica.

Analisi dei risultati

Innanzitutto devo sottolineare l’aiuto indispensabile del dottor Gianmario Petrò per capire e decifrare le intitolazioni degli atti, senza la sua assistenza una parte di questo lavoro non sarebbe stato possibile.

     
TIPOLOGIA ATTI %
dato 4444 30,03
locazione 2267 15,32
liberazione 1003 6,78
retrodato 950 6,42
dote (+ assicurazione, ecc.) 895 6,05
obbligazione 644 4,35
accordo 526 3,55
soluzione 436 2,95
testamento 372 2,51
soccida 327 2,21
procura 279 1,89
divisione 214 1,45
introytus 184 1,24
transazione 163 1,10
permutazione 153 1,03
cessione 134 0,91
revocazione 124 0,84
ratificazione 110 0,74
confessione 95 0,64
compromesso 83 0,56
donazione 76 0,51
patto 73 0,49
assegnazione 69 0,47
codicillo 53 0,36
protestato 48 0,32
prorogazione 43 0,29
investitura 42 0,28
DIVERSI 992 6,70
TOTALE 14799 100,00

 

Testamento:

Dalla grande diversità delle tipologie degli atti, si distingue il testamento. Per certi individui dopo la loro morte potrebbe succedere il diluvio, per altri il lascito alla generazione seguente dona probabilmente la sensazione che una parte di se stesso sopravvivrà. L’uomo al crepuscolo della sua esistenza è certamente un abituale cliente del notaio, il testatore vuole un’ultima volta, o almeno così pensa, dare la sua fiducia al notaio, vuole la garanzia che le sue ultime volontà vengano rispettate.

La trasmissione del patrimonio è uno dei fondamenti della famiglia, il patriarca sulla soglia della morte attraverso il testamento deve concludere il suo ruolo di capofamiglia ed assicurassi una giusta ripartizione dei beni. Il testamento come altre tipologie di atti notarili è standardizzato, il patrimonio è solitamente ripartito in parti uguali tra i figli maschi, legittimi, mentre per le figlie[29] è prevista soltanto la dote, spesso il padre dispone che i figli debbano riservare una stanza e gli alimenti per le sorelle fino al matrimonio o l’eventuale entrata in religione. Il posto della religione è altrettanto importante, il testatore ordina per il riposo della sua anima immediate celebrazioni religiose, altre più a lungo termine, spesso in perpetuo. Istituisce donazioni alle varie confraternite, elemosine per i più sforniti e infine pensa alla sepoltura della propria salma, il tutto ovviamente proporzionato alla sua situazione economica. Purtroppo nella realtà le disposizioni testamentarie, soprattutto quelle relative alle donazioni religiose vengono difficilmente rispettate dagli eredi, i resoconti dei parroci e quelli delle visite pastorali dei vescovi sono pieni di esempi significativi, in tutti paesini della valle diverse famiglie sono indebitate verso le parrocchie. Il riposo dell’anima del defunto è compromesso, nella coscienza popolare dell’epoca il tema è fortemente presente, l’aldilà rappresenta la salvezza dopo le tribolazioni terrestre, nel suo Effemeride[30] padre Donato Calvi cita almeno tre casi nella bergamasca di apparizioni soprannaturali, descrivendo spaventose erranze di morti venute a vendicarsi!

Dei 372 testamenti rilevati per tantissimi, purtroppo, è l’atto conclusivo di una vita, probabilmente vista l’età avanzata del capofamiglia appaiano varie procure che spesso sono delle deleghe ai figli per la gestione dei beni, ma riguarda di solito le famiglie benestanti, dopo queste scritture il personaggio scompare dalle rubriche. Di tutti questi testamenti, 93 rappresentano l’unico atto di un’esistenza, parliamo sicuramente di persone più modeste.

Abbiamo scelto di presentare un testamento rogato dal nostro notaio Moscheni, perfettamente rappresentativo delle disposizioni abituali, conforme a quelli registrati nei secoli XVI e XVII. La sua particolarità è data dalla presenza di una seconda moglie con due figli minorenni, la precauzione in questo caso è di assicurare alla vedova delle condizioni materiali dignitose per coabitare con i figli del primo matrimonio. Si deve tenere conto che la vedova, nel caso che la convivenza diventasse impossibile, potrebbe esigere di recuperare la sua dote e ciò graverebbe sull’integrità del patrimonio. Il testatore Francesco Geri Mazzoleni[31] sopravvivrà a questa malattia del 1586 e riaggiusterà il testamento nel 1594 con uno nuovo per assicurare ai figli minori Bonetto e Caterina, divenuti maggiorenni, un giusto equilibrio nella ripartizione della sostanza trasmessa.

 

Nel nome della Santissima e individua Trinità, Padre,  Figlio e Spirito Santo Amen. Questo è il testamento fatto, scritto e ordinato da ser Francesco fu Gerio Mazzoleni della Costa sano di mente, memoria, intelletto e loquela ma malato nel corpo, per il quale testamento prima di tutto affida umilmente a Dio Onnipotente e a tutta la Curia celeste la propria anima; poi, siccome l’essenza e il fondamento principale di ogni compiuto testamento è e deve essere l’istituzione degli eredi, ser Francesco istituì, creò e volle e nominò ed ora di sua bocca crea, nomina e istituisce in eredi e successori propri e di tutti i propri beni, dei propri diritti e azioni presenti e futuri che lui lascerà dal giorno della sua morte, i propri figli infrascritti e cioè Gerio, Vanino, Francesco, Pietro e Bonetto fratelli e ciascuno di loro egualmente e in parti eguali, con i sottoscritti oneri, disposizioni e legati che dovranno soddisfare.

Poi costituisce la signora Maria, sua moglie ed ultima signora, matrona e usufruttuaria per tutto il tempo della sua vita, della propria ed unica casa, (da terra fino al colmo, murata, con la porta, col tetto coperto di ardesie, giacente nel luogo detto Cà della contrada di Valsecca che altra volta fu acquistata da parte del testatore dai figli del fu Bernardo del Cornello) e della corte e delle servitù di detta casa e di una pezza di terra coltivata a prato e alberi giacente in detta contrada nel luogo detto nella Foppa a cui confina da una parte Ruggero del Cornello, da un’altra parte Pietro Antonio Bugate, da un’altra parte Francesco Baracchi e dall’altra il Comune di quelli del Cornello, che è di pertiche due circa, o tanta quanta è, e di tutti i propri indumenti per proprio uso; e assegnò ed assegna alla propria moglie la detta casa, pezza di terra e indumenti perché ne goda e usufruisca finché vivrà onestamente nello stato vedovile  e non esigerà la sua dote, salvo quanto infrascritto.

    Poi, salvo quanto premesso, giudicò e legò e ordinò di dare da parte dei propri figli predetti, eredi istituiti, a Caterina sua figlia, al tempo del suo matrimonio o del suo ingresso in convento, quattrocento lire imperiali per la sua dote e per ogni sua parte spettante e tutto ciò che le possa spettare in beni ed eredità da lasciare da parte di esso testatore  // in qualsiasi modo e maniera e che nel frattempo essa Caterina possa abitare e godere dei beni di detto testatore insieme con detti suoi eredi.

             Poi, dato che i predetti Bonetto e Caterina, suoi ultimi figli, sono minori, perciò detto testatore per essi minori costituì, scelse e incaricò come tutori e curatori, per il tempo necessario, Gerio detto Gireto, nipote dello stesso testatore da parte di Pietro detto Turbino suo fratello, e Bartolomeo Bugadino di Rota con tutte le attribuzioni opportune e necessarie per fare, trattare, fare e disfare contratti per detti Bonetto e Caterina come detto testatore potrebbe fare se vivesse, fino alla maggiore età di loro e di ciascuno di loro.

       Poi, salvo quanto predetto, ordinò e comandò che il proprio cadavere sia seppellito nel cimitero della chiesa di San Marco e che nella stessa chiesa, ai tempi debiti, siano celebrati la settimana, il trigesimo e l’anno della sua morte con diciotto messe in tutto, cioè con messe per ognuno di detti uffici con  cera (candele) adeguata da bruciare in simili uffici funebri per l’anima di esso testatore.

      Poi, salvo quanto premesso, giudicò, legò e ordinò di dare, da parte dei suoi eredi, alla fabbriceria della Scuola del Santissimo Corpo di Cristo nella predetta chiesa di San Marco, mezzo scudo d’oro da spendere a beneficio di detta Scuola, come sarà opportuno, per la sua anima.

        Poi, ordinò e comandò che si debbano celebrare, da parte del Parroco della prefata chiesa di San Marco, messe di San Gregorio (messe cantate in canto Gregoriano?) per la sua anima. Al quale Reverendo Parroco celebrante dette messe, decise e comandò di dare da parte dei  suoi eredi  la consueta offerta per la celebrazione di dette messe.

     E tutte le predette cose, e ciascuna di esse, esso testatore ordinò, volle e comandò e dispose che valgano e che tengano debitamente come suo ultimo testamento e sua ultima volontà e disposizione e, se così non valessero, che valgano e tengano e debbano valere e tenere come codicilli e come donazione a causa di morte e in ogni miglior modo, via, diritto e forma in cui possono valere e tenere meglio.

Furono fatte tutte le predette cose da parte del soprascritto testatore e scritte e pubblicate da me notaio infrascritto di suo mandato e commissione il giorno 1 maggio 1586, indizione 14ma, nella contrada di Valsecca, Valle Imagna, distretto di Bergamo, nella camera da letto della casa di proprietà e di abitazione del predetto testatore, presenti i testimoni Francesco figlio del fu Gerolamo Baracchi, Bertolo figlio del fu Andrea Belli, Francesco figlio del fu Pietro Sibella, Bartolomeo figlio del fu Giacomo Sibella e Antonio figlio del fu Bertolo Sibella, tutti questi di Valsecca, e Antonio detto Tonino figlio del fu Bertramo Todeschini de’ Moschenis e Pietro Antonio suo figlio, tutti abitanti della detta contrada di Valsecca, noti ed idonei a ciò chiamati e da detto testatore rogati e dichiaranti di conoscere lo stesso testatore e l’infrascritto secondo notaio e me notaio rogato da esso testatore perché di tutto quanto predetto faccia uno strumento (atto notarile) in valida forma.

Al cui atto fu presente come secondo notaio, che si sottoscrive secondo la forma degli Statuti di Bergamo, il signor Petrino Cassotti de’ Mazzoleni, notaio pubblico di Bergamo.

N. Io Giovanni figlio del signor Giovanni Giacomo Zanuchini de’ Moschenis della Valle Imagna, notaio pubblico di Bergamo fui presente a tutte le cose predette e di queste feci uno strumento e lo consegnai e mi sottoscrissi in fede.

Per completare il tema del testamento, in numerosi casi, deceduto il padre incombe sui figli  la gestione dei beni della famiglia e, arrivare alla divisione ereditaria di una proprietà contadina tra i diversi fratelli, rappresenta grande complessità per tutti. Al di là della portata simbolica di conservare intatto il patrimonio familiare per la trasmissione alle generazioni future, nella pratica l’integrità anche di pochi beni caduti in successione garantiva delle entrate, forse scarse, ma permettevano di far fronte ai bisogni minimali di sussistenza. Troviamo allora tanti atti notarili che dimostrano una gestione collettiva della proprietà, intitolati ad esempio: Locazione Giovanni e fratelli… e per anni il primogenito e i fratelli condividono i beni trasmessi.

Altri casi lasciano vedere un ineluttabile frazionamento dei fondi, tal fratello vuole uscire dalla famiglia originale e stabilirsi per conto proprio,  altre volte l’alterazione dei rapporti tra fratelli, la coabitazione delle cognate divenuta impossibile, o per altre varie ragioni che possiamo immaginare, allora assistiamo a volte ad una successione interminabile di atti per la ripartizione dei beni: divisione, inventario, donazione, assegnazione, permutazione, cambio, accordo, compromesso, ecc.… Le materie contenziose non mancano per dare lavoro al nostro notaio! All’esempio dei fratelli Francesco e Rocco figli di Bono Locatelli di Selino (Cataiocco), che per più di vent’anni appaiano insieme nelle rubriche del notaio Moscheni, la divisione tra di loro è datata 1567 ma vediamo una sequenza di una trentina di atti che impegna i due fratelli fino al 1588. Altro esempio, il caso degli eredi di Maffeo Rota Chiarelli, e la sua vedova, in 14 anni si succedono 12 atti notarili, la mancanza di eredi diretti (figli) rende la successione conflittuale.

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Prima di proseguire con il tema seguente, sembra utile ricordare, brevemente, la situazione economica della valle allo scopo di capire meglio il senso della scrittura notarile dato con locazione. Ci basiamo su una pubblicazione conosciuta da tutti, utile per la visione d’insieme della bergamasca.

L’eccezionale descrizione del territorio realizzata da Giovanni da Lezze[32] corrisponde perfettamente all’epoca del notaio Moscheni, il capitano presenta un inventario delle risorse, calamitoso per quello che riguarda la valle. Vediamo una gran parte della popolazione che fa fronte ad enormi difficoltà economiche, i raccolti garantiscono pochi mesi di autonomia alimentare. In un secolo che ha visto una successione di gravi carestie tra 1524 e 1539, un’altra di nuovo nel 1591, senza parlare della peste di San Carlo (1576), la situazione è critica per numerose famiglie della valle. Da Lezze descrive anche: Sono molti ricchi de gl’huomini della valle fatti con negocii per ogni parte d’Italia, massime in Ancona, che delle quatro parte le tre sono le botteghe di quella valle… Ma di questi ricchi imprenditori pochi ritornano ad investire in valle, eccezion fatta per Giovanni Maria Camerata de Mazzoleni et Giovanni Galli-Locatelli, due dei principali clienti di G. G. Moscheni.

A noi interessa però la moltitudine dei contadini confrontati ai bisogni elementari per nutrire le famiglie, bastano poche cose per capovolgere una situazione non facile in una condizione tragica: una grandine in primavera, un’estate troppo piovosa, un’invasione d’insetti ecc… e un raccolto si perde ma anche un’epizootica che decima il bestiame trasforma il precario in disgrazia. Non solo gli eventi naturali immergono la gente nella disperazione, come vedremo, anche il decesso del capofamiglia spesso riduce la famiglia nella miseria, per far fronte alla mancanza di entrate, per fare il ponte fino alla prossima raccolta, nell’attesa di vendere lana, frumento, panni o altri manufatti era frequente indebitarsi, come dimostrano i numeri.

Dato (datum)

Il dato, in generale, è l’atto che censisce la compravendita di un bene. Nei primi decenni (1530-50) l’intitolazione appare semplicemente come: datto fatto da … (e i nominativi delle parte). Dagli anni 1560, il titolo talvolta è più preciso e svela certi particolari: datum e renutia – datù insolutum – datum reyteratum – datù con pactis. Niente di sorprendente nel vedere che il datum rappresenti il 30% della totalità degli atti notarili.

Dato con locazione (datum cum locatio).

La Chiesa condannava il prestito con interessi, nelle città gli ebrei[33] erano i soli a prestare denaro, le campagne o le vallate isolate come l’Imagna, in assenza di banche, avevano poca scelta per risolvere i bisogni di liquidità. Malgrado la creazione del Monte di Pietà di Bergamo nel 1557 che offriva del credito su pegno, il problema della mancanza di denaro rimane in valle, il dato con locazione sarà uno degli artifici per aggirare le difficoltà. Da una parte i potenti locali o famiglie mercantili, detentori di capitali, dell’altra una marea di umili artigiani o piccoli contadini bisognosi.

Il datum cum locatio è una vendita fittiva di un bene, terra o casa che funge da pegno, il debitore “vende” un bene e il creditore cede lo stesso bene in locazione allo stesso debitore e percepisce gli interessi sotto forma di un affitto. Dunque nella pratica troviamo un primo atto, il dato: cioè la compravendita del bene con una clausola di riscatto, l’atto successivo è l’affittanza per la stessa parte dello stesso bene, il canone versato corrisponderà agli interessi annuali, ad un tasso tra il 4 e il 5%, spesso pagabile a San Martino (11 novembre). Non si deve perdere di vista che seguiva la perdita di proprietà in caso di prolungata insolvenza, i più poveri talvolta finivano avviluppati in un’incontrollata spirale di debiti.

L’analisi delle rubriche mette in luce l’importanza del credito nel lavoro del nostro notaio Moscheni, protagonista in primo piano, conosce bene i suoi clienti, il denaro disponibile e quelli che hanno bisogno di soldi. Creditori e debitori si appoggiano sulle sue competenze e il suo ruolo probabilmente non si ferma alla redazione dei contratti, sembra ovvio che serviva intermediare per un’intensa attività di prestito su pegno fondiario. La durata dei mutui è variabile tra i 4 e gli 8 anni.

Il datum cum locatio viene spesso rilevato per finanziare la dote, le famiglie modeste di frequente si indebitavano per favorire un dignitoso matrimonio alle loro figlie. Questo tipo di finanziamento si pratica anche tra fratelli, numerosi atti di questa tipologia sono fatti anche dai sindacati parrocchiali e il colmo è stato raggiunto da un prete che presta denaro in questo modo, in piena contraddizione con le norme religiose!

Il finanziamento attraverso il dato con locazione è rivelatore di una situazione economica difficile, il numero di questi atti è impressionante, un sondaggio a campione effettuato su questa tipologia di atti (dato + locazione, cioè un campione di 853 atti) il 31,43% sono dei mutui stanziati in questo modo, ossia un numero complessivo di 2109 prestiti in 47 anni per un solo notaio.

I prestiti possono anche prendere la forma del pagamento in anticipo di una futura raccolta o della consegna prevista di panni o qualsiasi prodotto manifatturiero. Il contadino in una situazione difficile gradisce un’entrata di liquidità, ma il creditore ne approfitta per far abbassare i prezzi.

Il documento adesso presentato per illustrare il datum cum locatio è l’emblema di certe situazioni precarie che dimostrano, se ce n’era ancora bisogno, le difficoltà economiche della valle. La vedova Orsola si ritrova sola con tre figli all’incirca di una diecina d’anni d’età, dopo il decesso del marito: Bernardo Locatelli[34] di Blello, ha fatto un primo mutuo di cento lire presso Giovanni Antonio Invernizzi di Corna, davanti alla sua insolvibilità il creditore prende il possesso di un appezzamento di terra e lo lascia in affitto alla stessa famiglia per altri cinque anni che deve versare un canone annuale di quattro lire, cioè: il 4% d’interessi.

In nome di Cristo amen. Il due febbraio 1568, indizione decima, in Valle Imagna dell’episcopato di Bergamo, in contrada di Locatello presso il cimitero della chiesa di Santa Maria, presenti i testimoni ser Ludovico fu ser Giovanni di Zambono della Corna, Sebastiano suo figlio e Maffeo e Martino fratelli fu Moresco Lavi di Canito, tutti Locatelli, noti ecc. idonei ecc. e bergamaschi dichiaranti ecc.

Qui Manzino fu Pietro Berardi Manzoni e la signora Orsola, vedova di Bernardo fu Antonio del Canto del Ronco Locatelli e madre degli infrascritti minori, come tutori testamentari di Giacomo, Antonio e Giorgio fratelli minori del defunto ser Bernardo del Canto del Ronco, costituiti con l’autorità secondo la forma, espressamente e spontaneamente e con matura scelta, per ridurre le spese della escussione che voleva fare Gio. Antonio Bardella contro i minori per ricuperare l’infrascritto suo credito, in pagamento vendono  a ser Giovanni Antonio Bardella fu Ser Giovanni Corona Invernizzi di Regorda quattro pertiche di terra da scorporare da un appezzamento di prato con alberi situato in contrada di Blello in Valle Imagna del distretto di Bergamo in un luogo chiamato al Canto del Ronco, che misura altre 9 pertiche, acquistato in precedenza dallo stesso ser Giovanni dai tutori, come risulta da un atto rogato dal notaio Gio.Marco Pellegrini o da altri notai nel giorno in esso scritto, che confina a mattina con il bosco degli stessi minori, a mezzogiorno una terra tenuta dagli stessi minori, a sera la strada e a monte gli eredi di Boneto di Pietro del Canto del Ronco, e cedono ogni diritto spettante ai minori sulle quattro pertiche di terra. I tutori fanno questa vendita a ser Giovanni Antonio che l’accetta per 100 lire imperiali di cui Giovanni Antonio era creditore degli stessi minori per fitti arretrati e per vitto e vestito dati a loro e alla loro madre in precedenza quando versavano in estrema necessità, come risulta nel libro delle ragioni dello stesso ser Giovanni Antonio contrassegnato dalla lettera D, fatto un diligente calcolo, salvo il diritto di ser Giovanni Antonio ad un maggiore credito se tale risultasse dal detto libro. I tutori fanno questa vendita perché non hanno altro modo di soddisfare ser Giovanni Antonio. Così i contraenti sono soddisfatti. Le cose predette sono state fatte in presenza e con l’autorità e il decreto del signor Alberto Battista Arrigoni notaio, in questo ruolo messo regio e giudice ordinario, che ha avvallato con la sua autorità e il suo decreto le cose predette secondo gli statuti di questa valle.

 In nome di Cristo amen. Lo stesso giorno, luogo e testimoni. Qui il citato ser Giovanni Antonio Bardella affitta al citato Manzino e alla signora Orsola tutori dei citati Giacomo, Antonio e Giorgio minori per i prossimi  5 anni le 4 pertiche di terra che ha acquistato da loro. Per questa locazione i conduttori convengono di dare a ser Giovanni Antonio quattro lire imperiali ogni anno e pagare le taglie e le imposte che gravano su quella terra, con il patto che i conduttori al termine dei 5 anni prossimi possano riscattare le quattro pertiche di terra, avendo prima versato il prezzo citato, i fitti decorsi e le spese degli atti notarili. Passato questo termine ser Giovanni Antonio potrà costringere i tutori, se non lo avranno fatto, a versargli i soldi del capitale con i fitti e le spese degli atti notarili.

Io Gio.Giacomo figlio del signor Giovanni de Moschenis notaio pubblico bergamasco sono intervenuto su richiesta alle cose sopraddette e di queste ho scritto gli atti e li ho sottoscritti.

Per completare il tema delle difficoltà economiche rivelate attraverso i prestiti su pegno, la tipologia del seguente atto è spesso una conseguenza diretta dell’atto precedente (dato con locazione). Anche qui i numeri svelano un contesto sbalorditivo, sono 184 gli atti di presa di possesso ufficializzati dal notaio Moscheni, nel caso più frequente da un creditore al suo debitore, per una parte o per la totalità del suo fondo.

Introytus

In caso di insolvenza di un debitore, nella fattispecie di dato con locazione, il moroso senza un altro accordo rischia di perdere definitivamente il suo bene dopo una sentenza giudiziaria o di un datum in solutum (dato in pagamento di debiti, che sarebbe un “componimento amichevole” per evitare la condanna giudiziaria) dunque la sequenza successiva è la presa di possesso del bene. In questi atti è sempre segnalata la presenza del Servitore[35] del Comune di Valdimania, rappresentante del Vicario della valle. Intervento indispensabile per ufficializzare il cambiamento di proprietario, ma che aggiunge drammaticità al contesto, possiamo immaginare le situazioni angosciose, perdere le proprie terre forse anche la casa è un mondo che crolla. Gli statuti della valle sono rivelatori della serietà con la quale la gestione dei debiti, la relazione creditore/debitore, l’esecuzione degli atti per la riscossione dei debiti è particolarmente controllata e documentata.

Dote (Dos)

Poteva presentarsi sotto forma di denaro o con qualche appezzamento di terra, non li abbiamo visti negli atti del notaio Moscheni, ma il dono di bestiame era una realtà. Nella struttura familiare patriarcale, attraverso la dote si tenta di giustificare l’esclusione delle donne dall’eredità paterna, per secoli il posto delle donne fu secondario, considerate come figlie, mogli poi madri, cioè un passo dietro l’uomo che si dovrà seguire. Però anche se sono poco presenti direttamente nella gestione patrimoniale, l’attività notarile concernente le donne è estremamente importante, in primo luogo i dati rilevati per le varie scritture notarili intorno alle doti sono impressionanti: 895 gli atti censiti. Al secondo posto vengono le procure, per tradizione e forse anche sotto pressione la donna deve delegare ad un familiare la gestione dei beni, anche se non è stato fatto il conto, delle 279 procure censite possiamo affermare che più della metà sono fatte da donne. Infine, un altro fatto che dimostra la precarietà della posizione femminile, in caso di decesso del marito la vedova è sempre affiancata da due curatori per la gestione patrimoniale e la tutela dei figli minori.

Qui sotto presentiamo l’atto per la dote della figlia di Giovanni Maria Camerata de Mazzoleni sempre estratto dagli archivi di G.G. Moscheni. Un piccolo particolare interessante, il notaio fa riferimento al morigincap, antichissima tradizione che deriva dal diritto longobardo (morgengabio) ossia il dono del marito alla propria moglie dopo la prima notte di nozze, una contro-dote (quarta). Altri direbbero “il prezzo dell’innocenza”, o per essere chiari il pagamento della virginità della sposa!

 

Dos d. Maria filia d. Joannes M.a Camerata – 478

Nel nome di Cristo, amen. Il giorno ottavo del mese di settembre 1540, indizione tredicesima, nel comune di Valsecca, distretto di Bergamo, in contrada di Mazzoleni, nel luogo del Plaza (Piazzo), nella casa di abitazione dell’infrascritto sig. Giovanni Maria, presenti i testimoni: sig. Antonio fu sig. Giovanni detto Zanola, Sebastiano fu Antonio Lazzarini, Stefano fu Giovanni Bachay e Guelmino fu Pietro Monico, tutti testimoni di Mazzoleni e noti ed idonei a ciò convocati ecc. e tutti bergamaschi e dichiaranti di conoscere gli infrascritti contraenti e ciascuno di loro e il sig. Andrea Cassotti de’ Mazzoleni notaio sottoscritto a questo atto come secondo notaio e me notaio rogato.

Ivi Giovanni Antonio, figlio del sig. Battista fu sig. Giovanni di Gaspare  de Mazzolenis costituito in presenza, con l’autorizzazione e il consenso di detto sig. Battista suo padre e lo stesso sig. Battista insieme con lui e ciascuno di loro, il quale Giovanni Antonio dichiarò di avere l’età legittima, espressamente, spontaneamente e non per errore di assegnare a titolo di assicurazione di dote e in ogni miglior modo, via, diritto e forma meglio che poterono e che possono, investirono // così come investono la signora Maria sposa e moglie legittima di esso Giovanni Antonio e figlia del sig. Giovanni Maria fu di Maestro  Bertramo Camerata de’ Mazzolenis presente e accettante generalmente in tutti e di tutti e sopra tutti e i singoli suoi beni e cose mobili e immobili, presenti e futuri e nominatamente per lire seicento imperiali della dote e del consulto (?) della stessa signora Maria; le quali lire seicento imperiali il soprascritto

signori Giovanni Battista e Giovanni Antonio furono contenti e dichiararono in presenza e a richiesta della soprascritta signora Maria e del soprascritto Giovanni Maria suo padre che dà e paga  a suo beneficio e per sua dote nel modo infrascritto: dichiarano di aver ricevuto parte in oggetti dotali, parte in denaro contante, computato anche l’aumento della stessa dote versato dagli stessi padre e figlio secondo il solito; e nelle dette lire seicento imperiali fu computato e fu ed è computata e compresa la dote o tutti i soldi e le cose dotali già avute dal soprascritto Giovanni Maria in dote e come dote della fu signora Lucrezia sua prima moglie e madre di detta signora Maria e figlia del fu signor Antonio Romano de’ Mazzoleni e quanti essi siano consta dall’atto notarile di assicurazione e costituzione della dote, fatto dal sig. Giovanni Maria e rogato dal sig. Giovanni Massi di Arrigoni notaio bergamasco, o da altro notaio, al quale atto si faccia ricorso perché la soprascritta signora Maria, costituitasi in presenza e col consenso e con l’autorità del soprascritto Giovanni Antonio suo marito e lo stesso Giovanni Antonio insieme con lei, e per la quale inoltre anche lo stesso Giovanni Antonio in beni suoi propri promise e promette della validità di questo presente atto e di tutto ciò che in esso è contenuto, dichiarò di essere molto contenta e soddisfatta da suo padre per dette lire seicento imperiali di detta dote della soprascritta fu signora Lucrezia sua madre, liberando ed assolvendo e // libera e assolve detto Giovanni Maria suo padre e i suoi eredi e successori e i suoi e i loro beni dalla predetta dote della fu sua madre e da tutto ciò che la potesse riguardare. E i soprascritti sig. Battista e Giovanni Antonio padre e figlio rinunciarono all’esecuzione per non aver avuto e ricevuto le soprascritte lire seicento imperiali nel modo di cui sopra e della speranza di averle in futuro e di ogni altro suo diritto. E costituendo e si costituirono e ciascuno di loro di tenere e possedere tutti i suoi predetti beni e tutte le predette cose a nome e in vece della soprascritta signora Maria e per lei e per le predette lire seicento imperiali della sua dote come sopra; e dando e diedero e danno gli stessi padre e figlio e ciascuno di loro alla detta signora Maria l’autorizzazione e la licenza irrevocabile di godere, tenere e possedere a titolo di dote tutti i predetti loro beni ed anche di entrare e stare nel corporale possesso e tenuta di detti beni finché la stessa signora Maria sarà stata soddisfatta delle dette seicento lire imper. della sua dote come sopra e dando e diedero e danno essi padre e figlio e ciascuno di loro alla stessa sig.a Maria autorizzazione e licenza irrevocabile di godere, tenere e possedere per diritto di dote tutti iloro predetti beni e anche di entrare e rimanere in tenuta e possesso materiali dei detti beni finché la stessa sig.a Maria sarà soddisfatta delle dette seicento lire imperiali della sua dote come sopra.  Nel caso che si dovesse verificare la loro esazione e restituzione e inoltre i sopraddetti sig. Battista e Giovanni Antonio padre e figlio ed entrambi in solido, così che ciascuno di loro sia tenuto e possa convenire in primo luogo in solido, nonostante ogni diritto, legge, ragione e rinunciando all’Epistola divi Adriani e al Beneficium Nove Constitutionis (alla Lettera del divino Adriano e al beneficio della Nuova Costituzione) e [rinunciando] lo stesso Giovanni Antonio alla legge che dice che il figlio di famiglia obbligato col padre, o con l’autorizzazione del padre, non sia tenuto se non in tanto quanto può fare, avuta la compensazione e di ogni altro suo diritto perché non si trovi nel bisogno, e di ogni altro suo diritto all’aiuto; si accordarono e per mezzo di stipulazione solennemente promisero e promettono obbligando se e ognuno di loro in solido e ogni bene e cosa presenti e futuri, loro e di ciascuno di loro, alla soprascritta signora Maria così accettante, in modo che daranno e // pagheranno e restituiranno gli stessi padre e figlio alla medesima signora Maria predette lire seicento imperiali della sua dote come sopra, in ogni caso di esazione e restituzione della stessa dote; però con questi patti fatti e celebrati tra essi coniugi, cioè: se si verificasse il caso che il predetto matrimonio accadesse che fosse sciolto per la morte del sopraddetto Giovanni Antonio, sopravvivendo la soprascritta signora Maria sua moglie, che allora e in quel caso la stessa signora Maria abbia e possa esigere le predette lire seicento imperiali della sua dote in beni sopraddetti dei predetti padre e figlio e di ognuno di loro, e null’altro abbia e possa esigere in detti beni per diritto al quarto [cioè il diritto di avere al massimo un quarto dei beni del marito] del morigincap né del dono di nozze né per altra causa. Viceversa, se capitasse il caso che il soprascritto matrimonio si sciogliesse per la morte della sopraddetta signora Maria sopravvivendo il soprascritto Giovanni Antonio suo marito come sopra, che allora in quel caso lo stesso Giovanni Antonio tragga profitto e abbia le predette seicento lire imperiali e ogni altro bene dotale che la stessa signora Maria avesse consegnato o fatto dare al marito, salvo sempre e riservato il diritto dei figli comuni dei detti coniugi che dovessero succedere nei predetti beni secondo la forma degli statuti del Comune di Bergamo. Al rogito poi di questo sopraddetto o presente atto notarile di assicurazione della dote e di ciò che in esso è contenuta fu presente come secondo notaio che si deve sottoscrivere secondo la forma degli Statuti predetti, il sig. Andrea Cassotti de’ Mazzolenis notaio pubblico di Bergamo.

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In questa ricerca non riprenderemo i vari temi relativi all’attività della lana, già abbordato nello studio sulle famiglie Petrobelli. Ovviamente in una vallata dove domina un’economia agraria e silvo-pastorale la lana e i suoi derivati rappresentano un punto centrale, ma nella lettura delle rubriche, il detto prodotto non appare in modo evidente e dunque non verrà approfondito.

Vendita ferri

Troviamo 6 atti intitolati datum ferri, fatto da 3 abitanti di Valsecca Martino Scudelle nel 1566, i due fratelli Capini figli di Simone: Marco nell’anno 1553 e Pietro Antonio nel 1554 e uno di Mazzoleni: Battista Baroni nell’anno 1542. Le fucine lungo tutto il torrente Petola, attive ancora fino alla metà del secolo scorso, vedono lì il loro lungo e antico passato, in un luogo che riuniva le risorse necessarie: la forza idraulica per azionare i magli e una generosa area boschiva per fornire il carbone indispensabile per la fucinatura.

Soccida

Numerosi sono i mercanti d’origine valdimagnine, che hanno raggiunto una certa posizione sociale, stabiliti nel capoluogo, tra loro ci sono quelli che hanno mantenuto forti legami con la loro terra di nascita.  Possiamo immaginare, come si fa oggi, che avevano una casa di campagna in valle, probabilmente la casa degli avi, ampliata e ristrutturata in corrispondenza alla nuova situazione familiare ed economica. Questi notabili come tutti i benestanti dell’epoca investivano i loro guadagni in proprietà fondiarie, per tanti, l’unica fonte di reddito sicura era la terra. Avevano dei massari, terre in pianura e in valle e tra le diverse attività agricole, la soccida fu un mezzo in più per far fruttare il patrimonio. Non solo i ricchi mercanti svolgevano quest’attività, famiglie benestanti o contadini facoltosi figurano tra i clienti del notaio Moscheni come locatori di animali.

L’investitore affida del bestiame al soccidario, quest’ultimo s’impegna a custodire, governare e nutrire gli animali, nei contratti viene precisato la ripartizione dei prodotti generati: latte, formaggi, animali nati nel corso della soccida, pelle, lana, letame, ecc… e alla fine della soccida la divisione del capitale ottenuto.

Sono delle formule legali, standardizzate, dove ritroviamo il nome dei contraenti, la descrizione degli animali, seguono le obbligazioni e i diritti delle parti e si concludono con certe clausole cautelative. Bisogna precisare che un contratto di soccida può mascherare la presa di possesso degli animali da un creditore al suo debitore insolvibile. Anche se la valle Imagna non è un rilevante luogo di attività pastorale quando facciamo il paragone con le altre valli bergamasche, tuttavia rimane una fonte di reddito non trascurabile per i suoi abitanti, l’importanza dell’allevamento è evidenziato da Giovanni da Lezze nella sua relazione del 1596, dove precisa che in valle Imagna ci sono: 1.208 bovini e circa 1.400 pecore.

Abbiamo scelto di pubblicare l’esempio di un contratto di soccida tra i primi atti rogati da Gio.Giacomo. L’8 aprile del 1532, la stesura del contratto si fa in casa del notaio dove sono presenti i quattro testimoni necessari. Il conduttore è Maffeo Fachi de Locatelli di Fuipiano della contrada di Arnosto, il locatore è il mercante abitante di Bergamo ma originario di Cepino, Corsino[36] figlio di Pietrino Contalli de Petrobelli, contratta anche in nome dei fratelli: Sebastiano e Bernardo (deceduto). Il contratto concerne quattordici capre con quattro capretti allattanti, per la durata di quattro anni[37]:

In nome di Cristo Amen. Giorno 8 aprile 1532, indizione quinta in Valle Imagna, episcopato di Bergamo, in contrada di Rota presso le case di Cabrignoli, sotto la loggia di fronte alle case di proprietà e di abitazione di me notaio , presenti  testimoni Pietro figlio di ser Bertramo Lanfranchi di Manzoni, ser Jacobo di Andriolo Cay.. di Rota, Lodovico figlio di ser Deffendino di Pietro Zani, Giobbe Locatelli e Giovanni Antonio figlio di un altro Antonio  del  fu Pietro Belloli di Rota, tutti noti chiamati a queste cose etc.

Ed ivi Maffeo del fu Tonino Fachi de’ Locatelli di Fuipiano dichiarante di avere più di venticinque anni, espressamente e spontaneamente e senza errore e in ogni moglior modo ecc. fu contento e dichiarò in presenza ed a richiesta del signor Corsino figlio di ser Petrino Contalli de’ Peterbelli presente e ricevente per se e per il signor Bastiano suo fratello e anche per i figli ed eredi del fu loro fratello così che lo stesso signor Corsino diede e consegnò al medesimo Maffeo e depositò presso di lui in soccida ad uso del bene di soccida a metà capre quattordici con sotto quattro capretti da latte da tenere da qui e per quattro anni  seguenti  da pascere, nutrire, … , custodire, allevare ed esse bestie coi loro nati e nati dei nati a sue spese e danni e interesse, bene, diligentemente e senza frode. Perciò soprascritto Maffeo sotto obbligazione di se stesso e di ipoteca dei suoi beni e che così facendo non molesterà nessuno in seguito a detto soccido [maschile!] senza speciale licenza del soprascritto signor Corsini a suo nome e a nome come sopra e che in fine di detto soccido … il soprascritto Maffeo darà e consegnerà allo stesso signor Corsino come sopra la metà delle soprascritte bestie e dei loro nati e dei nati dei nati e di tutto il guadagno che ci sarà in detto soccido all’uso del bene del soccido a metà, del quale soccido il predetto signor Corsino, per volontà di detto Maffeo, riserverà in sé e presso di sé il dominio diretto finché e fino a quando al medesimo  signor Corsino sarà soddisfatto e contento per il completo pagamento che gli spetterà nello stesso soccido all’uso del bene del soccido a metà come sopra e così ecc. e rinunziò ecc.

 CLIENTI

 I 30 più importanti clienti del notaio Moscheni

 

COGNOME/SOPRANNOME – NOME LUOGO ATTI PERIODO
Galli-Locatelli Giovanni Fuipiano 238 1540-1599
Rota-Chiarelli Giovanni Antonio Mazzoleni 209 1536-1584
Camerata-Mazzoleni Giovanni Maria Mazzoleni 171 1539-1572
Daina Marco Valsecca 129 1546-1575
Capini Pietro Antonio Valsecca 120 1540-1575
Rota-Chiarelli-Bazini Maffeo Mazzoleni 117 1555-1582
Mazzoleni-Morsali Francesco Mazzoleni 106 1540-1579
Rota Andrea Rota 101 1551-1591
Manini-Personeni Gerolamo Mazzoleni 100 1536-1566
Amigoni Giovanni Rossino 95 1558-1570
Capini Marco Valsecca 93 1540-1572
Locatelli-Corna Ludovico Corna 92 1539-1582
Schiantarelli-Quarenghi Giovanni Rota 90 1536-1570
Catena Francesco Rota 79 1536-1559
Costa Michele Mazzoleni 77 1551-1586
Farina-Manzoni Giacomo Cepino 71 1558-1599
Invernizzi-Bardella Giovanni Antonio Corna 68 1536-1571
Bolis-Bianco Lorenzo Rota 66 1536-1581
Locatelli-Corna Marco Corna 62 1536-1562
Garzaroli-Locatelli Vittorio Locatello 56 1551-1587
Rossetti-Brage Giovanni Antonio Fuipiano 54 1551-1584
Gervasoni Giovanni Andrea Berbenno 53 1585-1599
Personeni-Politi Pierino Bedulita 48 1551-1590
Galli-Locatelli Martino Fuipiano 47 1539-1548
Florentino Alessandro Mazzoleni 46 1548-1595
Petrobelli Giovanni Pietro Bedulita 46 1539-1572
Posta Bartolomeo Rota 46 1536-1587
Tondini-Quarenghi Giovanni Antonio Rota 46 1542-1590
Baroni Battista Mazzoleni 44 1542-1572
Bugada Pietro Antonio Valsecca 44 1536-1579

 

Giovanni Galli de Locatelli

Figlio di Martino del q. Bertrame olim Defendi di Fuipiano, fu il più importante tra i principali e fedeli contraenti del notaio Moscheni, tra il 1540 ed il 1580 risultano registrati 238 atti, dei quali 85 dati, 70 locazioni. Giovanni Galli è più orientato sul fondiario, la soccida non lo interessa, sono solo 3 i contratti. Giovanni da Lezze nella sua descrizione del 1596 lo individua erroneamente in Locatello: in questo loco vi è un Zovanne Gallo ricco di scudi 30 mila in trafichi che fa fuori del paese. Per misurare le sostanze del personaggio, possiamo fare il paragone, sempre dalla descrizione di Da Lezze, il capitano cita i grandi mercanti in borgo San Leonardo di Bergamo, dove sono 36 le ditte che rappresentano un capitale di 80.000 scudi.

Sono scarse le informazione su di lui, sarebbe nato nel 1513 ca., nel 1560 fa parte del Consiglio di Valle come rappresentante della contrada di Fuipiano. Mercante di pannilana, nel 1568 fa procura al figlio Giovanni Antonio per negoziare sulle fiere nel Mediolanum.

 Rota-Chiarelli

Il secondo cliente per numero di atti (209) rogati da G. Giacomo Moscheni fu Giovanni Antonio Chiarelli, figlio di Gaspare Mafiolo (discendente dei famosi Guarinoni di Rota Fuori), residente in Mazzoleni, ma certi atti sono rogati nella sua casa alla Torre di Valsecca (altre volte anche detto del luogo Cha Guer).

Sappiamo dal suo testamento del 1563, che fu erede suo figlio Giovanni Antonio, vengono citate anche le figlie: Marsilia e Orsola. Di questa famiglia, precisamente il cugino di secondo grado del sopraccitato, fu Maffeo Chiarelli detto Bazino, anche lui fu un importante cliente del nostro notaio, rimasto senza discendente maschio il suo erede fu Antonio il figlio del sopracitato Gio. Antonio. Nella sua relazione alla Curia del 1822, don Giovanni Pietro Bugada, vicario foraneo cita: (L’) elenco dei legati secondo l’antica e ritrovata Tabella nella Sagristia della Chiesa Parrocchiale di S. Omobono comun de Mazzoleni e Felghera – Doveva il parocco ogni venerdì celebrare la messa per l’anima del defunto Maffeo Chiarelli detto Bagino all’altare della B.V. localiter.

Con l’Estimo di Valsecca dell’anno 1476, abbiamo notizie della famiglia dove è citato: Antonio di Andriolo de Chiarelo, anni 36, merzaro nel Piemonte.

 Camerata de Mazzoleni

La famiglia Camerata trae le sue origini in Cepino, i suoi componenti sono conosciuti come grossi mercanti già dalla metà del Quattrocento. In quel periodo il più noto fu Giovanni figlio di Bertrame, già benestante, compra delle terre in Bergamo nella vicinia di S. Alessandro della Croce nel 1456, acquista altre terre in Seriate (1474) e in Grassobio (1484).

In vari archivi[38] si può trovare la genealogia della famiglia, ma la più affidabile secondo noi, rimane quella ritracciata dall’abate Giambattista Angelini[39]. Di questa stessa stirpe sono ugualmente originari i Cassotti, anche loro arricchiti nella mercatura.

Giovanni Maria Camerata occupa il terzo posto tra i clienti più importanti del nostro notaio Moscheni per un totale di 171 atti tra il 1539 e il 1572, anno del suo decesso. Il personaggio ha la particolarità di aver mantenuto stretti legami con la valle natale, come dimostra l’attività notarile per la gestione dei suoi affari. Come i suoi contemporanei, gli altri mercanti della valle: i Cassotti e i Petrobelli[40] si è arricchito soprattutto con il commercio della lana, poi la sua attività si è estesa ad ogni genere di mercanzia, percorrendo tutto il Centro-Sud dell’Italia per stabilirsi nelle Marche, dove acquista un ingente patrimonio fondiario. Il suo insediamento in Ancona è datato 1548 quando compra una casa con magazzino e cantina nella parrocchia di S. Nicola. Sarà nel 1583 quando i suoi figli si sposteranno a Jesi, residenza della famiglia fino all’Ottocento.

Giovanni Maria è deceduto nella bergamasca, nella chiesa di Sant’Agostino di Bergamo c’era un sepolcro dei Camerata de Mazzoleni, altre fonti indicano però che fu sepolto nella chiesa di Sant’Omobono.

Dopo la sua morte i tre figli dividono l’eredità il 14 febbraio 1573, sono stati fatti tre lotti: due parti fatte con le proprietà del bergamasco, la terza con i beni della provincia di Ancona.

Beni in provincia di Bergamo:

Casa in Bergamo[41] in contrada di S. Giovanni dell’Ospedale in borgo S. Antonio che fu di Gio. Maria Casotto più diversi pezzi di terra.

Terre in Mapello (150 pertiche)

Terre in Prezzato

Un fitto da Gio. Pietro Respin di Cà Rosso

Un fitto da Gelmi Monegho

La casa Camerata in Valdemagna con tutti letine e stalle

… ? in Sotto Riva più stalla già dei Passeri

Livello di Silvestro de Alessi di Mazzoleni

Pezzi di terra a Costa comprata da Martino Vanoy (Vanoli)

Il Ronchetto sotto a S. Michele e il boschetto a Ambivere.

 

Nella seconda metà del Settecento un discendente Camerata impegnerà molto denaro ed energie per due processi di nobiltà in Malta e Monaco, vari intermediari vengono incaricati per riunire la documentazione sulle antiche origini bergamasche della famiglia. Da queste carte emergono due interessanti novità: il figlio di Gio. Maria, Antonio (marito di Caterina Locatelli) sarebbe stato lui a far costruire l’altare di San Sebastiano nella chiesa di Sant’Omobono, farà testamento nel 1583, è sepolto nella chiesa di Locatello; l’altra notizia riguarda l’archivio parrocchiale di Sant’Omobono in valle Imagna: Il libro de morti nella Chiesa di S°Homobone principia l’anno 1612, il libro de battesimi di detta Chiesa principia l’anno 1605. E’ importante sapere ciò perché oggi questi preziosi registri sono scomparsi.

Per secoli la famiglia Camerata lascerà ricordi nella storia della valle, in una relazione del 1822, il parroco di Rota, il vicario foraneo G.P. Bugada, parlando della parrocchia di Sant’Omobono precisa: ogni mercoledì celebrare la messa per il legato del q. Alessandro Camerata all’altare di S. Sebastiano localiter. (L’altare di S. Sebastiano eretto nella distrutta Chiesa).

I Camerata marchigiani conserveranno i loro beni nella bergamasca fino agli inizi dell’Ottocento. La famiglia nel 1584 aveva ottenuto la nobiltà anconetana e in seguito a matrimoni con prestigiose famiglie marchigiane e romane nel 1824 un loro discendente sposerà la figlia della sorella di Napoleone Bonaparte. L’ultimo discendente Camerata morirà a Roma nel 1906.

 Capini Pietro Antonio

Figlio di Simone olim Martino della famiglia di Valsecca, con il fratello Marco totalizzano 213 atti presso G.G. Moscheni. Appare già nelle rubriche del notaio Giovanni Zanuchini-Moscheni negli anni 1530-33.

Le notizie più antiche sulla famiglia risalgono al 1476 nell’Estimo di Valsecca (BCM) dove appare Pero detto Capino di anni 55, venditore di cugari e cazuli, padre di cinque figli. La famiglia si è estinta all’inizio del Seicento, non ci sono nascite da questo casato in nessuna delle parrocchie della valle.

 Gerolamo Manini de Personeni

Poche le informazioni rinvenute ad oggi sull’antica famiglia Manini, le più rilevanti sono quelle sul detto Gerolamo, per secoli la famiglia fu stabilita sul territorio di Rota nella contrada Prato Griso, ma dipendente dalla parrocchia di Sant’Omobono. Fu un importante cliente per il nostro notaio, un centinaio di atti in trent’anni.

Presso il notaio Moscheni, troviamo una scrittura piuttosto rara, Gerolamo figlio di Bartolomeo Manini de Personeni nel 1548 procede alla legittimazione dei suoi tre figli: Francesco, Gio. Antonio e Elisabetta, concepiti con la sua domestica Maria detta la Ventaya di Valsecca.

Gerolamo fa testamento il 7 ottobre 1551, i due detti figli legittimati sono eredi universali, però sua moglie, un’altra Maria, rimane usufruttuaria dei beni. Riguardo la madre dei tre figli, sua domestica, Gerolamo le attribuisce una casa al Prato Griso al luogo detto Beduletti. Altre particolarità del personaggio rivelano una posizione sociale più che agiata: domanda di essere seppellito nella chiesa di S. Omobono nel monumento davanti alla cappella di S. Sebastiano, impone agli eredi di ordinare una statua di legno rappresentante S. Antonio da collocare nella chiesa di S. Omobono e dispone di mantenere una lampada nella tribulina sita in loco della Polchastra (Poltrasca?).

Da questo casato numerosi preti e notai lasceranno un’impronta nella storia delle famiglie di Mazzoleni, fino ad arrivare all’artista Vittorio, il famoso pittore.

 Catena Francesco

Figlio di Simone di Rota Fuori, non è un importante cliente, sono 79 gli atti rilevati, ma in un tempo relativamente corto: tra il 1536 e il 1559, la sua particolarità  è rappresentata dal notevole numero dei contratti di soccida: 49.

Garzaroli-Locatelli Vittore

Figlio di Vanoni di Locatello, appare spesso come contraente nelle rubriche, Garzaroli deve essere un soprannome derivato dell’antico mestiere di garzatore, queste famiglie prenderanno il cognome Locatelli, uno dei rami con questo soprannome sarà all’origine delle famiglie Borella.

Un interessante documento, il contratto d’apprendista garzone presentato ora, svela una piccola parte delle relazioni tra vicini. Rappresenta l’importanza per il commerciante di portare con sé un garzone della valle, avrebbe sicuramente trovato in Schiavona un altro ragazzo, ma questo atto è rivelatore della fiducia tra valligiani, la solidarietà tra le famiglie che costituisce un legame forte e dunque per quest’imprenditore è una garanzia di fedeltà unica.

Adì 24 settembrio 1553 in el loco del Medil, contrata de Locatello de Valdimagnia

Si dechiara per la presente scriptura qualmente Zuanino detto Cremagniola figlio del fu ser Gabriel Garzarolo di Locatelli per Una parte e il sig. Vittore fu Vanono Garsarolo di Locatelli per l’altra parte, concordemente son venuti ai patti, promessa e accordo come sotto, cioè: prima esso Giovannino Cremagniola ha dato e consegnato Giacomo suo figlio come garzone con il predetto Messer Vittore per i prossimi anni cinque futuri e servirlo nei le sue attività soprattutto nelle parti (terre) della Schiavonia dove opera detto meser Vittore. Promettendo come promette esso Giovannino che detto suo figliuolo Giacomo starà e servirà per detto tempo con detto messer Vittore e nelle sue attività con assiduità e onestà e che non farà alcuna frode, ma sarà giusto. Il detto messer Vittore invece promette di tenere detto Giacomo per detto tempo edi istruirlo per quello che può nella sua attività mercantile e di nutrirlo e vestirlo adeguatamente secondo la sua qualità e la sua condizione e di condurlo a sue spese in Schiavonia e riportarlo alla scadenza di detto tempo e ancora a metà di detto periodo di tempo portarlo in Valdimagna e ricondurlo giù  a sue spese di detto messer Vittore; e se per caso a metà di detto periodo di tempo esso Giacomo non volesse venire a casa, che detto messer Vittore debba dare e pagare al detto Giovannino e Giacomo quella somma di denari che spenderebbe  o che avrebbe potuto spendere  detto Giacomo a venir su e ritornar giù.

Poi esso messer Vittore promette di dare e pagare a detti Giovannino e Giacomo alla fine di detti anni cinque per il salario e compenso del detto Giacomo per detto suo servizio scudi sedici d’oro e così tutte e due le parti promettono e hanno promesso l’una all’altra sotto obbligazione di tutti i propri beni di rispettare e osservare le cose predette inviolabilmente sotto pena di ogni // danno, spesa et interesse. Et questo fu fatto il giorno e nel luogo soprascritti, presente per testimoni il nobile et Egregio messer Cristoforo del Medil di Locatelli, Bernardino fiol de magistro Martino Mazuchotelo di Locatelli, Jacomo de Simone de Imagnia et Baptestino de

Martì de Imagnia  fulatori (follatori, cioè lavoratori al follo dove si lavavano e pestavano i panni per sodarli).

N. Io Giovanni Giacomo del signor Giovanni Moscheni de ValleImagna notaio pubblico di Bergamo fui presente alle cose predette e le scrissi per volontà delle parti e per la fede (cioè la pubblica fides dell’atto stesso) mi sottoscrissi.

—o—

Come l’identificazione dei clienti, la localizzazione è resa molto più difficile dal fatto della scarsità delle informazioni nelle rubriche, tuttavia sono all’incirca 2.350 i clienti oriundi della valle Imagna, 167 della valle S. Martino, 47 della valle Brembana e 139 di vari luoghi, la rimanenza è data da contraenti non localizzabili.

 Ripartizione per comune della valle dei clienti identificati.

Parrocchia n. clienti Parrocchia n. clienti
Valsecca 290 Locatello 62
Rota 271 Selino 59
Mazzoleni 199 Bedulita 49
Fuipiano 191 Blello 47
Corna 140 Strozza 42
Berbenno 123 Roncola 37
Brumano 107 Cepino 19
Costa 87 Capizzone 16

 

 Parrocchie-comuni-istituzioni.

Nel Cinquecento sarebbe improprio denominare comuni i vari paesini della valle, in realtà sono delle contrade che fanno parte del Comune di Valdimania, allora utilizziamo la parola parrocchia che definisce meglio la comunità, giustificata anche dal fatto che spesso la gestione del paese s’intreccia con quella religiosa. Assistere le istituzioni locali fa parte delle competenze del nostro notaio, sempre presente per redigere un resoconto delle assemblee. Ritroviamo 23 atti relativi alla gestione del Comune di Valdimania. Tutte le parrocchie della valle avranno utilizzato i servizi di G.G. Moscheni, anche quelle più a sud come Roncola, Capizzone, Strozza, spesso anche fuori valle: Carenno, Rossino, Erve, Gerosa. Almeno una volta all’anno c’è l’assemblea dei vicini, poi avviene l’elezione dei Consoli, l’elezione dei parroci, ma la più importante è la gestione dei beni comunali e dunque ritroviamo gli atti classici come tra privati: obbligazione, locazione, procure, dato, investitura, ecc… con una particolarità che si ritrova di frequente: la vendita di legna. Le 21 comunità segnate totalizzano 521 atti per la loro gestione, in questo conto sono comprese le numerose confraternite o scuole religiose. Bisogna sempre ricordare che G.G. Moscheni non era l’unico notaio, dunque i numeri presentati non rappresentano che una parte dell’insieme. Sottolineammo che i vicini di Mazzoleni furono i principali clienti del notaio con 240 scritture, l’Ospedale Maggiore di Bergamo beneficia di donazioni, presenti anche il monastero di Almenno e quello dei Celestini. Ci sono anche sei atti per le assemblee del sindacato delle Valli Montane (Vallium montanea Bergomen).

 —o—

I miei vivi ringraziamenti vanno a Gabriel Locatelli e Anna Rita Meschini.

R.L.I.

—o—

[1] Estratti di: Dell’origine e dell’uffizio del notariato – Nozioni storiche e considerazioni teoriche su di esso – dal notaio Michele Cusa da Rimella – Torino 1856

[2] Juanita Schiavini Trezzi: Dal Collegio dei notai all’Archivio notarile – Fonti per la storia del notariato a Bergamo (sec. XIV-XIX) – Prov. Di Bergamo, 1997.

[3] Canonico Mario Lupo: Codex Diplomaticus.

[4] Non si deve dimenticare che gli archivi avevano anche un valore commerciale come il rilascio delle copie, anche se l’utile diminuiva col tempo, passata una generazione, massimo due, ne rimaneva soltanto l’ingombrante conservazione.

[5] ASB – Collegio Notarile, busta n.265 – documento n.1101. Scrive G. Canali Cancelliere del Cantone di Almenno: “Alla commissione Notarile di Bergamo. In questo Cantone non esiste altro Archivio pubblico, dove si conservano Atti di Notai defunti, fuorché il cosiddetto Archivio di Valle, il quale è custodito dal Sig. Sante Moreschi del Comune di S. Simone di Corna in casa sua. Almenno il 18 novembre 1805”. Nella stessa busta un altro documento datato 30 ottobre 1807: “L’archivio è custodito a Brancilione sotto la responsabilità di Giuseppe Cassotti – Discreta condizione. E’ stato in parte consunto per un incendio ultimamente avvenuto è fornito in parte di rubriche – Volume: 300 pezzi”.

[6] Non erano abilitati a rogare atti notarili, soltanto a rilasciare copie autenticate e certificati, però il loro intervento era indispensabile per la stesura di atti particolari, o quelli di un valore tra 100 e 1000 lire, per somme superiori la presenza di due secondi notai era obbligatorio. Ved. Nota n.2, J. Schiavini Trezzi Dal Collegio dei notai…p.23.

[7] Antonio Moscheni Zanuchini (1655-173ì13) – Gio.Giacomo (1713-1723) – Gio.Pietro (1747)

[8] Numerate da 1718 a 1745, purtroppo la numerazione non corrisponde all’ordine cronologico. A queste 28 filze se ne deve aggiungere 1 in più conservata nell’Archivio di Stato di Milano n. 11177, anni 1537-1596, non si sa come sia finito là.

[9] Per i quali sono state scattate 785 foto, di questi 74 volumi 10 sono senza rubriche.

[10] Il padre Alberto Battista Arrigoni e i suoi figli: Eustachio, Agabito e Gio. Tesei appaiano in 37 atti negli archivi di G.Giac. Moscheni.

[11] Descrizione di Bergamo e suo territorio 1596 – Giovanni da Lezze – Vincenzo Marchetti e Lelio Pagani. 1988 – Prov. Di Bergamo.

[12] Curia vescovile di Bergamo, fascicolo Rota Fuori.

[13] Giacomo quondam Alberto Girardi de Moschenis è citato come testimone nell’anno 1539, c’è da indagare ancora su di lui ma probabilmente si tratta dello stesso Zenochino tesoriere della valle sopra citato, il suo testamento è stato rogato dal nostro notaio Gio.Ciacomo il 6 gennaio 1543.

[14] L’oratorio dedicato a S. Francesco d’Assisi di Cabrignoli è citato nell’anno 1702 per la visita pastorale del vescovo L. Ruzini.

[15] Il dottor Giuseppe Barbieri (1811-1884) medico condotto, nativo di Pavia, sposa successivamente due sorelle Daina della contrada Torre di Rota, scrive: Cenno Storico- Statistico della Valle Imagna (Bib. Angelo Mai, Bergamo), nel capitolo su Rota Fuori descrive lo sgraziato spirito delle fazioni civili dei secoli XIII e XIV, cioè a Cà Brignoli ed alla Torre, vi sono due Torri maestose (sottolineato nel manoscritto) siamo nell’anno 1840 ca.

[16] ASB, notaio Alberto Battista Massi Arrigoni, filza 2112- n.1, volume: 1519-1537, atto n.81.

[17] ASB, notaio Giovanni Zanuchini-Moscheni, filza 861- n.3, volume 1514-1518.

[18] I lationes filios e filias mie Johannes Zanuchini de Moschenis …

Johannes Jacobus ortus est die 14 octobre 1514

Domenica orta est die 15 dicembre 1516

Guelmino orto est die 13 feffraio 1518

Johannes Andreas die 3 jannuary 1520

Johannes Bartolomeusdie 26 dicembre 1524

Suo. Scriptus Jo.Andreas vitam on morta … die 10 july 1526 ut do plan…

Jo. Andreas … 27 february 1528 ortus est

Johannes Zanuchinus die 16 july …1531 ortus est

Mms. Jo. Zanuchinus … vitam on morte … die 22 august 1537.

[19] Nato nel 1676 in Capiatone, figlio di Gio. Antonio e Francesca Locarini, suoi archivi: ASB, filza n.9122, anni 1702-1732.

[20] ASB, notaio Gio. Antonio Petrobelli, filza n.3930, volume 2 – 1606.1620. I suoi due figli Giovanni Giacomo e Benedetto sono eredi universali.

[21] Gli Statuti del 1491 imponevano nuove disposizioni per l’organizzazione dell’approbatio, al fine di evitare corruzione e nomine agevolate, i giureconsulti che procedevano all’esame dei candidati notai erano sorteggiati tra tutti gli inscritti al Collegio Notarile. L’esame di poca difficoltà controllava la vertente ars notariae, litteratura et scrittura, il postulante doveva essere nella condizione di civis di Bergamo, godere di buona reputazione e posizione economico-sociale. Ved. Nota n.2, J. Schiavini Trezzi Dal Collegio dei notai…p.22.

[22] ASB, Collegio dei notai – Registro n.12, anni: 1504-1543.

[23] ASB, archivio notarile, Gio. Antonio Petrobelli – f. 3929.

[24] Il conte Francesco Brembati dell’illustre famiglia bergamasca muore a Parigi nell’anno 1644.

[25] Interessante l’atteggiamento del notaio, verso Giovanni Maria Camerata de Mazzoleni, usando gli aggettivi onorifici che precedono il nome: Magnifico Cavaliere di Loreto…

[26] Mancano, nella filza n.1718, vol. 1540-43 e vol. 1544-49 / filza n.1719, vol. 1553 / filza n.1722, vol. 1560-61 / filza n.1724, vol. 1565-66 / filza n.1728, vol. 1576 / filza n.1734, vol.1594 / filza n.1737, vol. 1532-35 / filza n.1740, vol. 1550-52 / filza n.1745, vol. 1560-64.

[27] Tra quelli sono stati indentificati 3387 individui.

[28] 1863 clienti del notaio sono presenti con un solo e unico atto in questi archivi.

[29] “Nelle future successioni, a parità di grado, i maschi escludono le femmine dalla successione senza testamento […]. I parenti prossimi fino al quarto grado, ascendenti, discendenti o trasversali, escludono la madre e tutti i cognati nelle successioni senza testamento.” p. 185 – Gli Statuti del Vicariato di Almenno, valle Imagna e Palazzago del 1444 – Antonio Previtali – Comunità Montana V.I. – 2000.

[30] Donato Calvi Effemeride sagro profano di quanto di memorabile sia successo in Bergamo, sua diocesi et territorio (1676-1677). A cura di Aurora Furlai – Silvana Editoriale, 2009.

[31] Particolarmente interessante il percorso di questa famiglia Mazzoleni, il capostipite sarebbe Geri nativo di Costa Imagna anno 1480 ca.  in contrada Cà Bagazzino, la famiglia si sposta in Valsecca all’inizio del Cinquecento in contrada Cà, alla fine del secolo un ramo detto Turbini si stabilisce in Mazzoleni, altri discendenti all’ inizio del Seicento di Valsecca si spostano a Bedulita Cà Personeni, altri arrivano a Locatello contrada Cattivanome, poi in Cavaler fino all’inizio dell’Ottocento, per stabilirsi in Bergamo. Sempre di questa famiglia di Costa sono originari i detti Poli o Poletti di Selino e Locatello e i Mazzoleni detti Giri un po’ ovunque!

[32] Descrizione di Bergamo e suo territorio 1596 – Giovanni da Lezze – Vincenzo Marchetti e Lelio Pagani. 1988 – Prov. Di Bergamo.

[33] L’antisemitismo e le persecuzioni razziali lasciavano poca scelta agli ebrei, tra i pochi mestieri loro autorizzati, potevano prestare denaro con interessi.

[34] La famiglia Locatelli detta Rosetti (Rubei) ha le sue radici in Blello, lì nel Cinquecento, un suo discendente Cristallo si stabilisce in Berbenno nel 1670 ca., il detto Cristallo lascerà il suo nome come soprannome alle future generazioni. Un secolo dopo altra andata e ritorno in Blello, arriviamo alla fine del Settecento con le ultime nascite in Berbenno, la famiglia poi si trasferisce in Rota Fuori. La scelta di presentare questo documento non è fatto per caso, l’Invernizzi Giovanni Antonio detto Bardella, il creditore citato nell’atto, non è altro che l’antenato di chi scrive queste righe e il detto Bernardo Locatelli detto Rosetti è l’avo del dottor Giuseppe Ge altro appassionato di storia locale. Un altro discendente è Gabriele Locatelli, ricercatore che ha attivamente collaborato allo spoglio delle rubriche del notaio Moscheni.

[35] Furono Servitore, negli anni 1541-42: Bartolomeo q. Bernardino Laurenti de Rota – Anni 1539-42: Sebastiano q. Antonio Lazzarini de Mazzoleni – Anno 1542: Bernardino de Locatelli de Ranzuolo.

I servitores costituivano un elemento fondamentale nell’amministrazione della Comunità perché assicuravano i legami tra le autorità politiche e giudiziarie del capoluogo, Almenno, e i vari comuni. Essi portavano a domicilio le citazioni giudiziarie e le convocazioni del Consiglio di Valle. Erano incaricati di eseguire i sequestri dei beni ordinati dal Vicario; effettuavano le riscossioni delle entrate e le vendite all’incanto dei pegni non pagati…” p. 35 – Gli Statuti del Vicariato di Almenno, valle Imagna e Palazzago del 1444 – Antonio Previtali – Comunità Montana V.I. – 2000.

[36] Accorsino Petrobelli deceduto il 25 ottobre 1544, abitante in borgo S.Antonio di Bergamo, conosciuto come mercante, ma sarà suo fratello Bernardino noto per essere il capostipite dei famosi Corsini: suo figlio Stefano marito di Ludovica de Castelli di Gandino, abitante in via Pignolo in Bergamo, ricco mercante con interessi in tutta Italia ma soprattutto all’Aquila. Ricordiamo i tre figli di Stefano: i guerrieri, Cavalieri Gio.Antonio, Gio. Battista e Francesco, questi ultimi due riposano nell’imponente sarcofago collocato nell’atrio della biblioteca Mai in città alta.

[37] Tutti i contratti di soccida letti del nostro notaio Moscheni sono di quattro anni, peraltro come si faceva generalmente in tutta la bergamasca.

[38] Gran parte delle notizie seguenti provengono dell’Archivio Rocchi-Camerata – Biblioteca Comunale Planettiana di Jesi (AN).

[39] BCM – Ab. G.B. Angelini – Zibaldone d’alquante famiglie – Gabinetto Ø 3-8. AB 421

[40] Si potrebbero citare altre famiglie: Frosio, Mazzoleni, ma i Cassotti e Petrobelli sono stati molto legati ai Camerata, con loro avevano una sede in Ancona.

[41] La casa Cassotti al n. 72 dell’attuale via Pignolo, Gio.Maria Camerata è citato come proprietario nell’Estimo del 1569 – La casa di Zovanini Cassotti De Mazzoleni in via Pignolo 72, nota come casa Grataroli-De Beni – G. Petrò, La Rivista di Bergamo nov.- dic. 1992.

 

Venerabile Francesco da Bergamo

 

Ricordo del Venerabile Francesco bergamasco della famiglia dei Personeni

Con la presentazione di un documento inedito, da lui scritto

 

<< Essendo stato comandato a me, fra Francesco bergamasco, sacerdote cappuccino, dal molto reverendo padre fra Salvatore da Todi, provinciale nella provincia di Roma, che debba dargli minuto conto del progresso della mia vita, tanto al secolo, come nella religione, pertanto astretto dal suddetto comandamento come figlio di santa obbedienza, sebbene contro mia voglia, dico come segue.

                La mia natività fu nel territorio di Bergamo in Val di Magna nel 1536 in circa, parrocchia di Sant’Antonio di Berbenno, e lì fui battezzato e chiamato Gioan Francesco. Mio padre si chiamava Pietro Passeri e la madre Felicita dell’istesso luogo, e lì stetti sino alli tredici anni imparando a leggere e scrivere. Dopoi mio padre mi chiamò in Ancona, dove teneva fondaco di panni, e attesi all’esercizio sino al 1557. Dopoi mio fratello maggiore, che faceva fondaco in Roma, me chiamò che dovesse venire a Roma per aiutarlo, e avendo io desiderato questa occasione di venire a Roma, me partii senza licenza di mio padre, per levar l’occasione d’una cattiva[1] compagnia.

                Essendo poi giunto in Roma e trovando che detto mio fratello teneva vita spirituale, confessandosi dal beato Filippo della Chiesa Nuova, comunicandosi più volte la settimana, e vedendo il buon esempio della vita sua, lo volsi imitare ancor io, e così mi cominciai a confessare dal medesimo beato Filippo e mettermi sotto il governo suo.

                In quel tempo, essendo io chiamato da Dio alla religione de’ cappuccini, procurai con il detto beato che volesse aiutarmi, conferendogli questo mio desiderio ed egli me diceva che non era religione per me, e che non ci saria potuto durare, e me proponeva altre religioni che non erano tanto strette; ma io non potei inclinarmi mai ad altra religione che de’ cappuccini.

                Cominciai a praticare al luogo de’ cappuccini e conferire questo mio desiderio con li padri, e l’istesso mi dicevano ancor loro, che la mia complessione non avria potuto resistere a questa vita.>>[2]

Cosi inizia l’autobiografia del venerabile Francesco da Bergamo: non era nella sua natura di mettere in evidenza la propria persona, ma l’uomo, umile e di poche parole, obbedisce al suo superiore padre Salvatore da Todi. Francesco è nell’ultima parte della propria vita, la deposizione del futuro Servo di Dio è raccolta de verbo ad verbum da padre Francesco da Carpineto, siamo attorno al 1620 e già da tanti anni la fama di Francesco ha superato i confini della provincia romana. Francesco è al tramonto della propria vita, e i superiori dell’Ordine, non vogliono perdere la memoria viva del serafico Francesco sulla strada della santificazione, la sua testimonianza, con quelle dei sui confratelli, alimenteranno numerose e interessanti biografie sulla vita del Venerabile.

Giovanni Francesco vede la luce l’anno 1536, suo padre, Pietro Personeni di Capassero ha 31 anni, la madre Felicita Mazzoleni, 29 anni, il primogenito della famiglia è Flaminio[3]. Sono nate due sorelle la prima nel 1531, la seconda l’anno 1533 e nasceranno, dopo Francesco, due fratelli, di uno dei quali conosciamo il nome: Gabriele.

E’ ancora adolescente, quando raggiunge, ad Ancona, il padre, che per otto anni l’aiuterà; nel 1557 raggiungerà, poi, il fratello Flaminio a Roma, dove abitava vicino alla Zecca Vecchia, cioè nel palazzo del Banco di S. Spirito[4].

Francesco incontrerà Filippo Neri nella chiesa di San Girolamo della Carità, dove, il futuro santo aveva fondato il primo Oratorio. Filippo è sacerdote da poco, (ordinato nel 1551), e abita in un convento vicino a detta chiesa. Il ”granaio della Carità” (sopra la navata della chiesa) è il luogo di riunione dei seguaci di Filippo: s’incontrano per preghiere e riflessioni giovani romani e personalità di spicco. Dalla via di S. Spirito, alla chiesa dell’attuale via di Monserrato, sono poche centinaia di metri e siamo sempre negli stessi paraggi: San Filippo Neri si occupava anche degli infermi abbandonati all’ospedale di Santo Spirito.

La sua Congregazione dell’Oratorio sarà fondata soltanto nel 1575, nella chiesa di S.M. in Vallicella (detta chiesa Nuova), Filippo Neri sarà confessore e padre spirituale di Francesco e l’aiuterà nella sua decisione ad entrare in un ordine, provando però a dissuaderlo dal raggiungere i cappuccini, per le loro regole di vita cosi impegnative. Come lui disse, era chiamato da Dio, Francesco aveva una visione chiara della sua vocazione: io non potei inclinarmi mai ad altra religione che de’ cappuccini.

Quando Francesco entra nell’ordine, la Provincia Romana dei cappuccini è in piena ebollizione, dopo l’approvazione di papa Clemente VII della riforma dell’Ordine francescano l‘anno 1528, al Capitolo Generale del 1536 la nuova Congregazione di Cappuccini fu divisa in provincie, quella di Roma aveva solo otto conventi: Roma, Scandriglia, Rieti, Nemi, Anticoli, Monte S. Giovanni, Collevecchio e Tivoli[5]. La seconda metà del Cinquecento vede emergere la costruzione di numerosi conventi in tutto l’attuale Lazio. L’Ordine dei frati minori cappuccini, dopo Felice Porri da Cantalice, (morto nel 1587, dichiarato beato l’anno 1625 e canonizzato nel 1712), vede rapidamente in Francesco, bergamasco, affiorare un religioso eccezionale, sarà uno dei 17 cappuccini, ad oggi dichiarati venerabili.

In questa seconda metà del Cinquecento le condizioni di vita sono estremamente difficili, epidemie e carestie si succedano, la vita dei cappuccini non è soltanto predicazione o meditazioni[6]. Ci sono anche lavori manuali, coltivano l’orto, tagliano la legna, alzano muri, assistono gli infermi, sono presenti accanto ai malati nelle pestilenze. Tutto questo, con periodi di digiuno e astinenze, raccolta di elemosine, penitenze corporali, ascetismo.

E’ da tenere in conto anche l’ambiente intellettuale del momento: le liti intestine alla Chiesa, il contesto di febbrilità rinnovatrice[7], il Concilio di Trento che tenta di dare delle risposte al malessere della cristianità, la Riforma protestante che non riconosce più l’autorità papale.

Ma, tra tutte queste difficoltà, il giovane della valle Imagna a trovato la sua strada.

Frammenti biografici

Questo studio non vuole essere l’ennesima biografia di Francesco: è uno sguardo sull’uomo nella sua semplicità. Uno sguardo sulle testimonianze d’altri che hanno portato al culmine della notorietà un frate assolutamente distaccato dagli onori terreni.

Francesco è deceduto a Roma il venerdì 2 ottobre 1626, nel convento di S. Buonaventura al Quirinale e la domenica seguente, cioè il 4 ottobre, papa Urbano VIII è ospite dei cappuccini per la posa della prima pietra della futura chiesa della Concezione, accanto al nuovo convento cappuccino, a pochi passi da piazza Barberini, sull’attuale viale Vittorio Veneto.

A cerimonia conclusa, il Padre Michele bergamasco, architetto della detta chiesa, ricorda a Sua Santità la morte di Padre Francesco bergamasco, che gli risponde: “Già noi l’habbiamo saputo, e udito anco, che fosse un gran Servo di Dio, però farà bene di pigliarno informatione”, e poi voltandosi verso al Padre Francesco da Genova[8], che stava dietro, che in quel tempo era Procuratore di Corte, gli dice: “Padre Procuratore, prendete informatione della vita, e de’ miracoli di cotesto Padre, mà con modestia”[9].

La lunga procedura è lanciata, il Processo ordinario informativo inizia, e rapidamente, nei tre mesi seguenti sono interrogati i numerosi testimoni, confratelli di Francesco. La salma di Francesco, sepolto nell’antico convento di S.Bonaventura al Quirinale, fu traslata il 27 aprile 1631 nella nuova chiesa della Concezione, nella cappella della Trasfigurazione.

Un documento inedito

Alla ricerca delle tracce lasciate da Francesco, nell’Archivio Provinciale dei Frati Minori Cappuccini di Roma, tra i pochissimi documenti conservati dell’epoca XVI e XVII sec., si trova un registro manoscritto intitolato: Novizi – Aspra e Palazana – 1574/1610, nel quale sono inscritti i novizi per il tempo di probazione, seguito della pronuncia dei vuoti. Troviamo lì l’unico documento manoscritto, censito ad oggi, scritto dalla mano di Francesco.

Il 22 settembre del 1579 il frate laico Bernardino da Canepina di anni ventidue, dopo un anno e due giorni di noviziato nel convento di Aspra (Casperia), entra nella professione, giuramento ricevuto e segnato nel libro, dal guardiano: Francesco da Bergamo.

Francesco da Bergamo

 

Cronologia della vita di Francesco nei vari conventi

 

1560, veste il saio in Tivoli

1561, ordinato sacerdote

1561-1563, Rieti (3 anni ½)

1564 (ca.), Orte – Ottiene il subdiaconato

1565-1566, L’Aquila (2 anni)

1566, Aspra Monte Fiolo (oggi Casperia- novizi 2 anni)

1570-1571, guardiano del Convento del Monte S. Giovanni Campano (2 anni)

1572-1573, guardiano a Anticoli di Campagna (oggi Fiuggi)

1575, (febbraio e marzo) a Palanzana (Viterbo – Bagnaia, convento di S. Antonio di Padova)

1579 (settembre-ott.), Aspra, guardiano, (non c’era nel sett.1578 e non c’è più nel luglio 1580)

1581-1587, Roma (5 anni), confessore delle monache clarisse cappuccine

? Siena?

1590-92, Viterbo

1592 (?) Civita Castellana, guardiano, 2 anni (per certo: aprile, maggio 1591)

? Orvieto, guardiano, 1 anno

? Ronciglione, 1 anno

? Città Ducale, 1 anno

1600, Isola Bisentina-Montefiascone

1601 Anagni, guardiano (parte il 4 ottobre per Siena, confessore delle monache[10] per 3 anni ½ )

1602-1605, Palestrina, guardiano

1605 (ca.), Scandriglia (S.Nicola), guardiano “Franc. Da B. che soleva ritirarsi a pregare in una grotta, la quale ancora si mostra nel bosco”

? Priverno, guardiano 1 anno

? Rieti, 2 anni al vecchio convento, poi 2 anni al nuovo

? Aspra, 2 anni

1609-1612, Viterbo, 3 anni

1610, ritorno da Siena / Campagnano

1612, Scandriglia, guardiano

1613-1617?, Palestrina, guardiano 4 anni (1614 sicuro)

1617-1619?, Agnani, 2 anni

1618-1620, Palestrina (deposizione autobiografica)

1619-1621?, Subiaco, 2 anni

1626, Roma, convento di San Bonaventura

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 L’opera, essenziale per lo studio della vita di Francesco, è la pubblicazione del padre Giovanni Battista Pinnardi di Collevecchio[11]Compendio della vita del rev. padre F. Francesco Bergamasco sacerdote capuccino della Provincia di Roma cavata dal processo fatto per la sua beatificatione ordinato dalla Santità di N.S. Urbano VIII avanti che il corpo del detto padre fusse sepolto l’anno del Signore e della sua morte 1626.

Estratti:

Su istanza di Francesco Neri, Francesco fu ricevuto alla religione e mandato a Tivoli a far il noviziato, sotto la cura di Padre Tolomeo da Crema, Guardiano e maestro dei novizi.

Dopo un anno di noviziato fu ammesso alla professione il 7 marzo 1561.

Fu ferito sopra un occhio nel convento di Scandriglia.

Mentre celebrava messe fu visto più volte con una corona di spina in testa.

Tra le numerose testimonianze, viene spesso sottolineata la sua abnegazione ad aiutare i più poveri, in particolare nella carestia del 1570-1571. Cura i numerosi ammalati e infermi, come i suoi confratelli va anche lui domandare elemosine, lavora nell’orto.

Il libro di padre Pinnardi è una successione di guarigione miracolose, Francesco appoggia le mani sulla parte lesa, fa un segno di croce… Nel divenire dell’opera, sono citati numerosi fatti straordinari nei quali Francesco, ad esempio, ferma la caduta di enormi sassi, spostando rocche voluminose… (testimonianze d’altri frati, ancora vivi nel 1648).

Passava il tempo nei suoi momenti d’inattività (inverni o ammalato) a fare corone di nocciole, di ossa d’olive, crocette di legno, distribuite ai poveri. Ma ha una vita spirituale intensa, passa molto tempo in meditazione e il suo involucro carnale è sottomesso a ogni tipo di astinenze.

Nell’ultima parte della vita (ultimi tre anni) sente gli ‘Angeli parlare e cantare intorno a lui’. Fu sul tema anche lungamente interrogato dal padre Luca da Cremona, tutta l’intervista fu segnata e le sue affermazioni, prese sul serio, non erano considerate parole senili d’un uomo anziano.

Riceverà la visita del principe Leopoldo arciduca d’Austria, fratello dell’Imperatore Ferdinando e Il principe don Giorgio Aldobrandini andò visitare Francesco nella sua cella un mese prima della sua morte.

Subito dopo il decesso, fu eseguita un’autopsia dal Sig. Giulio Cesare Magno di Velletri, chirurgo. Nella borsetta del fiele furono trovate 11 pietre, furono distribuite a tutti grandi Signori dell’epoca. Furono fatti numerosi ritratti e il suo viso fu ripreso in cavo con gesso. E per finire, al cimitero gli venne staccata la testa e svuotata del cervello.

 Processo in beatificazione

 Il processo inizia nel 1780, sotto il pontificato di Papa Pio VI, abbiamo estratto i dati essenziali che ritracciano i dieci anni di procedure, riprese nella pubblicazione: Acta et decreta causarum beatificationis et canonizationis OFM Cap. : ex regestis manuscriptis SS. Rituum Congregationis ab anno 1592 ad annum 1964 – Cura et studio di padre Silvini a Nadro – Pubblicato dal Centro Studi Cappuccini Lombardi – 1964 – pp.630-634[12].

Non è il caso analizzare la procedura, le cause studiate dalla Sacra Congregazione dei Riti sono sempre lunghe e complesse e spesso fuori di portata del comune studioso, però come non interrogarci sul perché della non sbloccatura della faccenda: la domanda di beatificazione si è fermata.

Dalla lettura degli atti, emerge un interrogativo: una procedura come può andare avanti quando i “giudici”, “procuratori” e “avvocati” cambiano sempre e costantemente?

Il Prefetto della Congregazione: Cardinale Giovanni Archinto lascia il posto nel 1785, si succedano tre Segretari: Carlo Airoldi, nel 1784, lascia il posto a Giulio Maria della Somaglia, e questi, a sua volta, lascia, nel 1787, a Domenico Coppola.

Incaricato dell’inchiesta il Cardinale Scipione Borghese muore nel 1782, sostituito dal Cardinale Giovanni Carlo Boschi, quest’ultimo deceduto l’anno 1788 e sostituito dal Cardinale Ludovico Flangini.

Il postulatore padre Bernardino a Prato[13] lascia l’incarico a Bonifacio a Nicea[14].

E infine, come non sottolineare le difficoltà di papa Pio VI che si confrontò, nel 1791, con gravi tensioni con la Francia in piena rivoluzione? Ricordiamo che Pio VI fu imprigionato in Francia dove decederà l’anno 1799.

I dati delle varie sedute:

28 novembre 1781: dissipare i dubbi sulla capacità di apertura del caso, senza l’intervento dei consultori.

La domanda è introdotta dal Padre, frate cappuccino Bernardino a Prato, postulatore della causa di Beatificazione del Servo di Dio frate Francisci a Bergomo.

22 dicembre 1781: Cardinale Borghese

10 settembre 1782: Cardinali Boschi e Borghese

15 gennaio 1783, designazione del Card. Boschi (morte del Card. Borghese)

12 novembre 1784

24 novembre 1784 cancellazione dell’apertura del processo ordinario informativo

24 settembre 1785 introduzione del Decreto (viene introdotta la causa di beatificazione, da quel giorno Francesco diventa Venerabile)

Presenza di Monsignor Cardinale Carlo Erskine promotore della Fede

27 novembre 1790 appare il Padre cappuccino Bonifacio a Nicea come postulatore

9 febbraio 1791 appare il Cardinale  Flangini (morte del Card. Boschi)

28 maggio 1791 – Domanda fatta al vescovo di Bergamo d’indagare:

Die 6 iulii 1791 dantur litterae particulares S.Rituum Congregationis una cum instructione promotoris fidei ad episcopum Bergomensem ad perquisitionem peragendam in coenobio Capuccinorum illius civitatis Bergomi circa quamdam coronam precatoriam qua utebatur venerabilis Dei servus ad quamcumque speciem cultus publici removendam.

24 settembre 1791 Decreto sul non culto

      Exinde nihil amplius actum est in causa. Nullum obstaculum in eadem adest, probabiliter suspensa est ob defectum tastium.

Polemiche bibliografiche

L’abate Angelo Personeni da’ alla stampa, l’anno 1786, il suo manoscritto Notizie genealogiche storiche critiche e litterarie del cardinale Cinzio Personeni da Ca Passero Aldobrandini nipote di Clemente VIII. S.P.: in questa biografia del Cardinale Cinzio Aldobrandini Passeri, opera molto ben documentata, l’autore vuole anche chiarire il legame di parentela tra il cappuccino Francesco Passeri e il porporato Cinzio. Il libro dell’abate scatenerà una polemica con quello che vuole essere il biografo ufficiale del cardinale: il padre Francesco Parisi, bibliotecario di casa Borghese. Quest’ultimo pubblica l’anno seguente (1787) Della Epistolografia di Francesco Parisi. La prima parte del libro tenta di dimostrare una versione diversa sulle origini del cardinale, sostenendo (come altri autori) che padre Francesco e Cinzio erano cugini di primo grado, il secondo punto della “querelle” è il cognome Personeni e non Passeri e, per finire, l’antichità della famiglia “Passeri” in Senigallia e suo grado di nobiltà: l’autore qualifica i documenti presentati dal Personeni, come carte polverose di un compilatore anonimo. La replica non si fa aspettare e, nel 1788, viene pubblicato Osservazioni sopra la epistolografia di Francesco Parisi, opera anonima in difesa ed in confronto delle Notizie del Personeni. Qui l’autore parla dell’abate Angelo in terza persona, sembrerebbe lo scritto di uno amico dell’abate, un intervento a sua difesa, ma per tutti, queste Osservazioni sono scritte dalla mano del Personeni. Settanta pagine che riprendono punto per punto le affermazioni del Parisi ed  evidenziano le approssimazioni del bibliotecario.

Assistiamo, di fatto, al confronto tra un discendente del Personeni, (l’abate, infatti, parlando del cardinale Cinzio, afferma “mio Compatriote ed Agnato”), e la tesi del Parisi, originata da documentazione “romana”. Nel primo caso, l’abate, con le sue radici in Bedulita, la sua posizione in Bergamo, le sue ricerche negli archivi cittadini, la lettura delle antiche carte della valle Imagna, (fonte della memoria valligiana), lascia intravedere un uomo semplice, dritto, i piedi bene radicati nel territorio. L’abbondante documentazione da lui presentata è d’una chiarezza limpida, non si sente la volontà di descrivere una famiglia di lignaggio più elevato della realtà, la sua argomentazione non è ridondante. Il suo discorso non è un tentativo di valorizzare un personaggio, nemmeno retorica caricata da luoghi comuni per abbellire uno della sua stirpe, così come accade spesso in tante biografie.

Per contro, il Parisi appoggia le sue tesi su documentazione “romana”, cavata negli archivi degli eredi Aldobrandini[15] o estratta dagli archivi senigalliesi. Il dibattito sembra quasi una caricatura, l’abate Personeni, rivelando gli uomini nella loro semplicità, la loro fama conquistata per le loro qualità umane. Il bibliotecario, invece, insistendo sui legami di nobile parentela, con valorizzazione dell’aristocrazia marchigiana e romana.

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Ringrazio i responsabili dell’Archivio dei F.M. Cappuccini – Via Vittorio Veneto – Roma

E per il suo aiuto Marcello Imberti

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stemma IR

R.L.I.

Febb. 2016

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[1] La “cattiva compagnia” fu una serva che lo assediava con proposte sconvenienti.

[2] Estratto da: I frati cappuccini : documenti e testimonianze del primo secolo – Costanzo Cargnoni – 1988 – Vol.2, 3 – pagina 5223 e seguente.

[3] Per la prima volta appare il nome del fratello maggiore di Francesco, il detto Flaminio è citato da Costanzo Cargnoni nell’opera sopracitata.

Un certo Flaminio Passeri fu “conservatore”, rappresentante del rione Ponte di Roma l’anno 1607.

[4] Costanzo Cargnoni, idem – p.5225

[5] Gl’inizi dell’Ordine cappuccino e della provincia Romana – Giuseppe Maria da Monterotondo –  1910.

[6] Sulla Regola dei cappuccini all’epoca di Francesco bergamasco: “Incominciano le constitutioni de’frati minori cappuccini di San Francesco corrette, et riformate” (1577), estratti: Si rinuncia “alle cose e ai privilegi” – Si deve obbedienza alla Regola di S. Francesco, al Pontefice ed altri Prelati – Non si ricevono giovani Chierici che non abbiano finito i 17 anni; per i laici si richiedono più di 19 anni. Faranno la “probazione” per un anno e poi la professione; i professi dopo, per tre anni, rimangono sotto la disciplina del loro Maestro. Si dorme sopra le nude tavole, con un po’ di paglia o una tela grossa. Vanno scalzi in segno d’umiltà e di povertà. Si devono usare quasi per forza le cose terrene, “ricci del Tesoro della Santa povertà”. Con solo il mantello, le suole, due fazzoletti e due mutande. La tonsura si fa ogni venti giorni, si porta la barba, rigida, disprezzata e austera.

[7] Un momento difficile fu, nel 1542, quando il vicario generale dell’Ordine, Bernardino Ochino, aderì alla Riforma protestante.

[8] Padre cappuccino Francesco da Genova °1580+1650, nominato Predicatore Apostolico nel 1622 fino al 1638, al governo dell’Ordine nel 1632, rinuncia al Cardinalato nel 1637.

[9] Compendio della vita del Rev. Padre Francesco Bergamasco sacerdote cappuccino della provincia di Roma – Gio. Battista Pinnardi da Collevecchio – Bergamo – 1649 – p.198.

[10]Crogi Passitea (1564-1615), fonda il monastero di S.Chiara nel 1598 – Lodovico Marracci, Giovanni Battista Ramacciotti – 1669. Vita della venerabile madre Passitea Crogi –- p.273, “Ritrovandosi questa Santa Vergine inferma, e talmente attratta, che non poteva muoversi di letto; venne il nuovo Confessore, che era il Padre Fra’ Francesco d’Anagni, persona di grande spirito e bontà.”

[11] Il Padre G.B. da Collevecchio pubblicò la biografia di Francesco nel 1647 a Roma e la seconda edizione a Bergamo nel 1649, ed è lui che inizia la serie degli Annali dei Frati Minori Cappuccini della provincia romana scrivendo i due primi volumi.

[12] Documenti citati estratti dall’Archivio della Sacra Congregazione dei Riti, Decreta in causis Servorum Dei, Vol.23, 1781-1785: pp.53v, 54v, 57r, 57v, 106r, 117r, 117v, 183v, 233v, 234r – Vol.24, 1785-1791: pp.45r, 45v, 354v, 355r, 363v, 364r – Vol.25, 1791-1804: pp.17v, 28v, 31r – Vol.26, 1805-1810: pp.549v, 550v.

[13] Bernardino da Prato ha scritto “Commentario della vita del Ven.” in Roma 1782

[14] commitente del ritratto di Francesco Acc. Carrara – Bergamo

[15] Per il matrimonio di Olimpia Aldobrandini con Paolo Borghese moltissime carte della prima famiglia passeranno nell’archivio della seconda.

 

Gli affreschi esterni della Chiesa di San Siro a Rota Imagna

Giuseppe Ge [email protected]

Gli affreschi  esterni della Chiesa di San Siro a Rota Imagna

La scoperta e il restauro

La tradizione popolare, tramandata a voce da generazioni, affermava l’esistenza di dipinti con volti di santi sulla vecchia facciata della chiesa che si vedevano, almeno fino ai primi del Novecento, sotto l’attuale portico[1]. La conferma si ebbe nell’ autunno 1995, quando durante i lavori di restauro e di ripulitura della facciata si rinvenne, con grande sorpresa, parte del corpo della  vecchia chiesa ricoperta interamente di affreschi che subito apparvero databili tra la fine del 1400 e l’inizio del 1500. Gli affreschi ricoperti da uno spesso strato di polvere e frammentari in più punti, furono restaurati nel Febbraio 1999 dalla ditta DeB Restauri e Decorazioni di Dino De Feudis e Marco Bresciani che provvidero a operazioni di pulitura e di fissaggio dell’intonaco permettendone la conservazione[2]. Confrontando le foto scattate al momento della scoperta nel 1995 e quelle prima del restauro del 1999, si osservano alcune caratteristiche non più visibili dopo il restauro[3] (Figura 2). In primo luogo si notava, nei punti in cui l’intonaco era caduto ed affiorava il muro dell’antica chiesa, come gli affreschi siano stati eseguiti senza il disegno preparatorio, sopra un sottile strato di intonaco steso direttamente sulla parete grezza costruita per lo più a secco con pietre locali appena sbozzate. Si nota poi, come la decorazione affrescata  si interrompe poco al disopra della cornice superiore della Madonna in trono segnando il profilo dello spiovente della copertura originaria. Infine incuriosiscono due strane aperture di forma quadrangolare poste a mezz’ altezza all’interno della scena con i tre santi. Non è chiara la loro funzione ma potrebbero essere i cardini di una porta in legno qui costruita per permettere l’accesso all’altare di San Bernardino che, secondo la descrizione del Vescovo Lippomano, si trovava a destra dell’ingresso sotto il portico.

affreschi 99

Figura 2.  Panoramica degli affreschi prima dell’intervento di restauro del 1999. (Foto gentilmente concessa da Aquilino Rota).

 La descrizione

Se osserviamo frontalmente la parete affrescata (Figura 3), a destra del portale attuale, si nota per prima una sottile linea rossa su fondo bianco che segna il profilo e suddivide lo spazio in cinque riquadri di cui quattro affrescati con figure intere mente il più basso a destra è privo di tracce di affresco. Le immagini si presentano notevolmente diverse tra loro e databili a fasi cronologiche differenti.

La parete si distingue per la presenza dell’architrave in pietra locale con elemento di sostegno a forma semicircolare che regge una piccola lunetta interamente affrescata e seminascosta dalla lesena della facciata settecentesca. Si tratta dell’antico portale rivolto a settentrione della chiesa originaria usato, verosimilmente, come ingresso principale. Partendo dal vertice più alto a sinistra al disopra dell’arco della lunetta del portale si incontrano nell’ordine

annuncazioneScena di annunciazione Un angelo in ginocchio di cui si intravedono le pieghe della veste candida e le ali di colore rosso-bruno, poggia sul pavimento di una stanza fdalle murature  rosa  tenue. Sul lato opposto, si scorge il becco di una colomba, simbolo dello Spirito Santo, che emana sottili raggi color oro e si riconosce Maria, in ginocchio, con le braccia incrociate sul petto e il busto leggermente inclinato in avanti. Per dare maggiore risalto, l’affreschista ha inserito la Vergine tra due mobili visti di scorcio: un alto ed imponente leggio, dove è posato un libro aperto, ed un sedile che anticipa nella forma il trono sul quale viene ritratta la Maestà. I colori dialogano con le figure e  creano contrasti  come il vivace rosso della veste, il viola del manto avvolto sui piedi, il verde tenue del pavimento della stanza, oppure danno vita a sottili rimandi, come le pagine bianche del libro che richiamano il bianco dell’orlo del manto della veste e dei polsi delle maniche.

Decorazione della lunetta La lunetta semicircolare, la cui visione d’insieme è fortemente disturbata dalla lesena della facciata, si compone di due parti pertinenti probabilmente a due divers purtroppo illeggibili, e tre angeli. La Madonna in trono indossa una veste blu cobalto; avvolta in un manto candido profilato di verde chiaro sorregge un Cristo fanciullo completamente nudo. Le corone gemmate sul capo della Madonna e di Cristo, la sproporzione rispetto alle figure degli angeli che appaiono più grandi, le tracce di un disegno che affiorano al disotto di Maria, permettono di collocare la scena in una fase successiva ai tre angeli. Il primo angelo a sinistra, ora semi nascosto dalla lesena, ha ali giallo ocra ed indossa una tunica color rosso bruno, imbraccia una viella, uno strumento musicale ad arco simile al violino, diffuso in molte raffigurazioni di angeli dalla metà del XV secolo alla seconda metà del XVI secolo. Del secondo angelo, posto in alto in asse con la Madonna, si nota il volto caratterizzato da grandi occhi chiari fortemente marcati e da labbra  rosse e carnose. Regge tra le mani uno striscione di cui si intravede ancora chiaramente la  lettera E  rossa  in caratteri  tardo gotici. Il terzo angelo, il più visibile, indossa una tunica marrone rimboccata sulla vita da una cintura che lascia intravedere il bianco dei polsi e del collo della camicia sottostante. Il volto, incorniciato da una folta chioma biondo-rossa, ha i medesimi occhi chiari, grandi e mercati dei precedenti. E’ intento a suonare un liuto di cui si riconosce la sagoma convessa della cassa e il tipico manico ripiegato. Le dita della mano destra stingono un plettro, mentre quelle della sinistra eseguono un accordo. L’intera scena è incorniciata da un motivo floreale che adorna l’interno della ghiera dell’arco e sullo sfondo si riconosce una pianta fortemente stilizzata con fiori a forma di croce bianchi e rossi. Alcune caratteristiche cromatiche ed esecutive fanno pensare che lo sfondo e la decorazione sia stata sovrapposta ad una precedente di cui restano ancora labili tracce sottostanti.

 Mad con bambMadonna in trono col Bambino

Su un fondale verde chiaro chiuso da un muro di cinta in rosa tenue si staglia imponente la figura di Maria  secondo la tipica raffigurazione delle Madonne dell’area Bergamasca di inizio Cinquecento: seduta in trono con Cristo benedicente in posizione eretta[4].

Lo schienale squadrato del trono, impreziosito da pinnacoli di forma geometrica e da un drappo rosso e l’alta predella accentuano le dimensioni e rendono ancora più imponente la figura. Maria indossa una veste  verde che richiama lo sfondo, sopra la quale porta un ricco mantello dorato foderato di rosso e decorato con un motivo a fiori ed arricchito da perline sull’orlo interno; un velo copre parte del capo lasciando trasparire la massa voluminosa dei capelli ricci di un rosso ramato. La mano destra sorregge il figlio mente la sinistra regge tra le dita una rosa bianca stilizzata sinonimo di castità, purezza e virtù. Cristo è ritratto in piedi, in posizione frontale, con la mano destra benedicente  mentre con la sinistra porge una sfera dorata. Tale raffigurazione molto diffusa nel Medioevo, è nota come Cristo salvatore del mondo  dove il piccolo globo tenuto nella mano sinistra rappresenta l’universo di cui è signore. L’abito indossato è quello tipico delle corti nobiliari del XVI secolo con l’orlo finale bianco impreziosito da perline. Il verde della camicia che si intravede sotto la veste e la cintura dorata richiamano i colori dell’abito di Maria, mentre il volto con grandi occhi chiari è simile al volto degli angeli della lunetta. La testa lievemente reclinata della Vergine, i grandi occhi rivolti verso il figlio, la bocca semi aperta, donano alla figura un lato umano e rompono  la frontalità e rigidità della composizione.

santoSanto benedicente Si tratta dell’immagine più enigmatica e suggestiva dell’intero ciclo: i segni del tempo e le  diverse stesure degli intonaci rendono la figura di non semplice lettura, ma ne aumentano il fascino. Il santo si distacca nettamente dallo sfondo rosso accesso, chiuso da un muro di cinta in ocra con le tipiche merlature squadrate guelfe. Due alberi simmetrici, raffigurati con un’ampia doppia chioma alludono ai giardini dell’Eden. Il santo porta il cappuccio della cocolla sul capo, indossa un’ ampia cappa  chiusa sul petto, al disotto della quale si intravedono le maniche e una veste di colore bruno scuro. La mano destra, con l’anulare e il mignolo ripiegati, è nella tipica posa del benedicente mentre la sinistra regge i libri delle sacre scritture. Il volto è il più espressivo dell’intera parete, si notano i grandi occhi dai contorni fortemente marcati, le profonde rughe delle palpebre e della fronte, i peli della barba biondo-grigia e dei capelli all’interno del cappuccio. La stesura del colore sfumato in più punti per dare un effetto di maggiore volume, è indice di una grande capacità ritrattistica, da parte di un pittore in grado di caratterizzare fortemente il suo personaggio. Anche la postura fortemente reclinata del volto che osserva i fedeli all’entrata del portale permette di cogliere una buona tecnica nella realizzazione degli scorci. Malgrado la frammentarietà dovuta ad interventi di restauro eseguiti già in epoche antiche si possono riconoscere alcuni particolari[5]: una corda che avvolge il polso della mano destra, il bordo di un libro posto sotto il braccio, il segno, appena percepibile, sulla spalla sinistra che richiama una croce a forma di T; sono particolari che permettono di identificare il santo ritratto come Sant’Antonio abate, tra i più venerati e diffusi nelle vallate alpine.

Rocco e SebSan Sebastiano, San Rocco e Sant’Antonio abate Un muro bruno con una serie di piccoli merli di tipo guelfo sovrastanti un fregio a “denti di lupo”  fa da  sfondo a tre santi rappresentati nelle loro tradizionali iconografie. Una palma e un alto albero si intravedono dal muro entro una finestra di color rosa tenue allusione ai giardini del Paradiso. I tre santi ritratti vengono spesso invocati come protettori di epidemie e di piaghe e la loro rappresentazione insieme è nota a partire dalla metà del XV secolo.  A sinistra San Sebastiano ha mani e piedi legati, il petto e le gambe mostrano il sangue che sgorga dalle ferite delle dodici frecce che trafiggono il corpo. Al centro San Rocco indossa il caratteristico abito da pellegrino con la mantellina di dimensioni ridotte posta sopra la veste con funzione protettiva del tronco e delle spalle e che da lui ha poi preso il nome di sanrocchino,  in vita si riconosce una cintura da cui pende  una bisaccia. Il santo impugna un bastone con la mano destra mentre con la sinistra mostra lo squarcio dei pantaloni dove si nota una piaga. Malgrado sia andata perduta parte della testa e del volto si possono ancora intuire le falde del tipico cappello da viaggio a larga tesa dei pellegrini. A destra Sant’Antonio abate è ritratto nella tipica iconografia: bastone nella mano destra, saio marrone, campanella stretta con una corda nella mano sinistra e la tipica croce a forma di T sulla spalla sinistra del mantello. Alcuni caratteri esecutivi, come i grandi occhi leggermente allungati, le mani molto grandi e lunghe, i piedi in primo piano, sono sicuramente attribuibili alla mano di pittore meno esperto, rispetto alle raffigurazioni del I e del II settore. Inoltre la presenza, ben visibile di uno strato di intonaco sottostante, permette di datare le immagini in una fase successiva alle precedenti attorno agli anni ’20 del Cinquecento.

 Analisi storico-artistica

 Caratteri e confronti

Il buono stato di conservazione delle figure sopra il portale e della Madonna in trono permettono di osservare alcuni particolari utili per confronti e possibili riscontri. Si nota un’impostazione semplificata e ripetitiva delle figure, in cui i contorni degli occhi e i lineamenti sono nettamente marcati, la resa dei volumi è data dalla sovrapposizione di pennellate scure e chiare sopra un colore base, la decorazione delle vesti, anche le più ripetitive come quella del manto di Maria, sono ottenute tutte a mano libera come si nota da alcune incertezze dei particolari. Si tratta di caratteristiche molto diffuse e comuni nelle raffigurazioni in particolare dell’area brembana. Il confronto più diretto si ha con gli affreschi del presbiterio della chiesa di San Ludovico al Bretto, presso Cornello del Tasso che recano la data Agosto 1504 e la firma D. de Auerara [6] In particolare si nota una stringente affinità nel disegno, nell’impostazione generale delle figure e nell’uso di colori accessi e spesso contrastanti e sorprendenti sono le similitudini tra i volti. Molto simili sono le ali, le vesti e la posizione delle dita degli angeli musicanti di Rota e quelli ritratti al Bretto; simili sono anche le decorazioni e la forma dei manti e delle vesti (Figura 5 ). Sia al Bretto che a Rota si notano i medesimi volti leggermente reclinati verso sinistra dai grandi occhi chiari e le mani grandi con lunghe dita ed impostate sullo stesso modello sono i volti della Madonna col Bambino di Rota e della Madonna del latte di Bretto Per questi motivi è possibile attribuire gli affreschi di San Siro del I e II settore alle medesime maestranze della chiesa di San Ludovico di Bretto[7]. Un gruppo di pittori veloci nell’esecuzioni che seguono la tradizione popolare, ma sanno inserire tocchi di innovazione già rinascimentali in alcuni particolari dei troni e nelle vesti elaborate. In anni di poco successivi, un altro pittore venne chiamato a dipingere o più probabilmente a ridipingere le figure dei santi del III settore e a ritoccare alcune parti del I e dal II. Si tratta di un pittore molto più schematico dei precedenti e con forti semplificazioni nella esecuzione e nella resa delle figure[8].

Autori e  datazione. Un Baschenis a Rota Imagna?

I caratteri descritti  e la firma del misterioso D de Averara di San Ludovico del Bretto fanno propendere, per l’attribuzione degli affreschi sia di Rota sia di Bretto, alla mano di un membro della famiglia Baschenis[9]. Questa dinastia di artisti originari della Valle Brembana, che conta una ventina di pittori, attivi tra la seconda metà del 1400 e per tutto il 1500 soprattutto nelle valli trentine, è stata spesso considerata dalla critica, in passato, come una produzione artigianale e priva di caratterizzazioni e differenze che rendano possibile distinguere i vari membri dei due rami in cui si divide la famiglia Baschenis di Averara[10]. Grazie agli studi condotti sui documenti e sulle opere, in particolare del Trentino, oggi è possibile, non solo ricostruire l’albero genealogico della famiglia, ma anche riconoscere alcuni caratteri esecutivi che distinguono tra loro i singoli artisti[11]. In generale l’arte dei Baschenis si riconosce nel vasto panorama delle pitture devozionali e di linguaggio popolare del bergamasco per il perpetuarsi di una iconografia ancorata allo stile miniaturistico tardogotico arricchito da elementi “moderni” specie nelle ricche vesti damascate e nell’uso di particolari e di elementi di grande naturalismo (venature del legno delle croci, gusto per il dettaglio delle vesti e della decorazione dei troni e per particolari “macabri” come il sangue delle ferite). Lo stile dei Baschenis è stato definito  un’arte legata alla cultura della Biblia pauperum: un’arte per la devozione popolare e di grande emotività e di immediata comprensione, uno stile nato e creato per le genti di montagna e che ne  rispecchia  la loro anima devozionale. Gli affreschi di Rota, come quelli di Bretto, presentano tutte queste caratteristiche, inoltre alcuni particolari tecnici prima descritti permettono di restringere il campo a soli tre membri della famiglia  Baschenis che dai documenti, sappiamo essere presenti nell’area bergamasca nei primi anni del XVI secolo. Si tratta dei fratelli Simone (deceduto, forse, prima del 1505)  e Dioniso, e del figlio di Simone, Cristoforo II[12]. In particolare gli affreschi del Bretto, più completi di quelli di Rota, mostrano soluzioni e particolari esecutivi che richiamano, a mio avviso, le opere note o attribuite alla mano di Dioniso Baschenis, coadiuvate, forse dall’intervento del fratello Simone. A Dioniso, e più in generale all’ambito della “stirpe” di Cristoforo I Baschenis, padre di Dioniso e Simone, rimandano i grandi occhi chiari  i larghi volti, le grandi dita delle mani e gli ampi orli delle vesti, che ritroviamo nelle scene della vita di sant’Antonio dipinte da Dionisio, all’esterno della chiesa di Sant’Antonio a Pelugo in provincia di Trento e nel San Cristoforo della facciata[13] . La decorazione all’interno sulla ghiera dell’arco della lunetta di Rota con motivi floreali ricorda molto da vicino l’analogo motivo decorativo sulla cornice del San Cristoforo unica opera firmata da Dionisio e datata 9 Ottobre 1493 . Anche la figura del Santo benedicente sembra mostrare alcuni particolari che lo avvicinano alla produzione dei Baschenis, ma più prossimi ai membri  facenti parte del “ramo di Lanfranco”, con elementi appartenenti  ad una generazione di pittori precedente a Dioniso e Cristoforo Baschenis. In particolare  il volto  può  avvicinarsi alle figure di evangelisti eseguite da Angelo Baschenis sulla volta della sacrestia di Ornica. datate 1485. Gli alberi dalla caratteristica doppia chioma si ritrovano sia a Rota ad Ornica[14].

4 visi

Figura 5 Confronti tra gli affreschi di Bretto a sinistra. e gli affreschi di Rota a destra.

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Note

[1]Ringrazio Aquilino Rota per la preziosa testimonianza frutto di ricordi personali  tramandati negli anni.

[2]Nell’Archivio Parrocchiale si trova la relazione dei restauratori corredata dalle fotografie scattate nel 1999.

[3]Ringrazio Aquilino Rota per avermi messo a disposizione le foto scattate pochi giorni prima del restauro del 1995.

[4] L’iconografia della Madonna col Bambino ritratto in posizione eretta sembra aver avuto particolare successo dalla seconda metà del 1400  nelle aree vallive della bergamasca dove la raffigurazione delle Madonne in trono era legata a pratiche di ex voto e a forme di esorcismo e di protezione contro malattie per prevenire le mortalità infantili come si evince dalla raffigurazione di Cristo ritratto sempre come un fanciullo già grande, sano e robusto.

[5]I particolari citati sono il frutto dell’osservazione di immagini ad alta risoluzione a colori invertiti.

[6] La chiesa di San Ludovico sorge nella frazione di Bretto nel comune di Camerata Cornello, edificata nella metà del XV secolo per volere di un ramo della famiglia Tasso, venne  grandita durante il XVI e XVII secolo. Durante interventi di restauro nel 2007 si rinvennero, sulla volte e le pareti del presbiterio le tracce di affreschi databili con precisione al 1504.  Per un quadro storico Crf. BOTTANI 2009, pp. 15-20.

[7] Per una lettura generale sulle pitture del Bretto Cfr.  DAFFRA 2009, pp. 89-130. Piccole differenza nella resa delle chiome e dei troni, che appaiono a Rota più ricercate e moderne rispetto al Bretto, e una resa più schematica e corsiva nei dipinti di Rota inducono a datare gli affreschi di San Siro un paio di anni dopo quelli di San Ludovico confermando la data 1506 riportata da Don Pelaratti nel uso manoscritto.

[8] Un elemento prezioso  per datare gli affreschi dei tre santi della guarigione è una data. un tempo visibile, graffita sulla veste del Sant’Antonio recante la scritta Agosto 1575 che permettono di collocare l’esecuzione a qualche decennio precedente a tale date.

[9] Sull’attribuzione degli affreschi della chiesa di Bretto ad un membro della famiglia Baschenis Cfr. CERUTTI 2004, pp.79-82

[10]Per un quadro sintetico sulla storia degli studi dei Baschenis Cfr. MOTTA 2011, pp. 20-22.

[11] Conosciamo due distinti rami di Baschenis originari della frazione Colla nel comune di Santa Brigida. Il ramo detto di Lanfranco di cui conosciamo quattro pittori (Antonio, Angelo e i fratelli Giovanni e Battista) e il ramo, più complesso detto di Cristoforo. Per un quadro generale sui Baschenis Cfr. PASSAMANI 1989, pp. 423-427.

[12] Di Simone Baschenis non conosciamo alcuna opera e solo pochi documenti attestano la sua attività di pittore a Bergamo (specie di stemmi)  alla fine del 1400, da un atto notarile  risulta  già defunto nel 1505 .Di Dioniso conosciamo solo un’opera data e firmata  9 ottobre 1493 sulla facciata della Chiesa di Sant’Antonio Abate a Pelugo (Tn). Di Cristoforo nato nel 1477, invece, conosciamo numerose opere e documenti  nell’area trentina e sappiamo che risedeva a Colla nel 1505. Cfr. PASSAMANI 1989, pp. 495-504.

[13]Sant’Antonio di Pelugo è una piccola chiesa cimiteriale in Val Rendena  affrescata,  da Cristoforo I, Dionisio e Cristoforo II a distanza di una venti anni  l’uno dall’altro. A Dionisio sono ascrivibili, oltre al gigantesco San Cristoforo sulla facciata , le quindici scene delle trenta originarie, ancora visibili sul fianco meridionale della chiesa con le storie di Sant’Antonio. Le vicende del Santo  sono raffigurate con uno stile rapido e sintetico con figure dall’accesa cromia all’interno di sfondi architettonici e paesaggistici molto schematici. Cfr. PASSAMANI 1989, pp. 499-501.

[14] Per un quadro sullo stile  e sulle opere di  Angelo Baschenis, attestato  anche presso la chiesa di Roncola  nel 1482  cfr. PASSAMANI 1989, pp. 432-435.

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 Bibliografia

BOTTANI T. 2009, Le sorprese di un restauro in Storia di un restauro. La chiesa di San Ludovico al Bretto, a cura di T. BOTTANI e W. MILESI  Bergamo, pp. 15-21,

CERUTI V.  2004, I Baschenis, Bergamo.

DAFFRA E. 2009, Pittori al Bretto. Un primo sguardo di Insieme in Storia di un restauro. La chiesa di San Ludovico al Bretto, a cura di T. BOTTANI e W. MILESI, Bergamo, pp. 89-95.

MOTTA G. 2011, Morti danzanti, martiri, santi e imperatori, in Atlante Bresciano n. 106, pp. 19-26.

PAGNONI L. 1979, Chiese parrocchiali bergamasche: appunti di storia e arte, Bergamo.

PASSAMANI B. 1989, I Baschenis di Averara, in I Pittori Bergamaschi. Il Quattrocento vol. 1,  pp. 423-577, Bergamo.

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Cenni storici sulla chiesa di San Siro

La chiesa di San Siro a Rota d’Imagna nelle fonti storiche

 Giuseppe Ge

 [email protected]

La chiesa di San Siro di Rota Fuori si distingue dalle altre chiese della valle Imagna per la sua posizione. Posta su un alto sperone roccioso controlla, con il suo alto ed inconfondibile campanile notevolmente distaccato dalla chiesa, l’intero paese e buona parte della vallata. L’attuale edificio in stile neoclassico è il frutto della totale ricostruzione, voluta da Don Giovanni Quarenghi, nel 1724 e terminata, come indica la lapide sulla facciata nel 1765[1], mentre l’elegante e caratteristico portico, originale nella forma e soluzione architettonica, fu completato solo alla fine del XVIII secolo[2]. Della chiesa più antica non conosciamo l’anno di fondazione e neppure l’anno di istituzione della parrocchia. I documenti più antichi, finora noti, risalenti al XIV secolo, riguardanti le chiese della valle Imagna, non menzionano l’esistenza della parrocchia nè la presenza di una chiesa[3]. E’ probabile che la parrocchia di San Siro e di San Gottardo sia stata istituita nel corso della prima metà del XV secolo quando i vescovi di Bergamo Aregazzi, Foscari e Barozzi fondarono più di venti parrocchie nelle aree della valle Brembana e Imagna[4]. Il primo parroco di cui si ha notizia è Nicola di Rota, ricordato in una lettera del Vicario generale del Vescovo al console e abitanti di Rota datata 1524[5]. Malgrado il silenzio della fonti scritte, l’esistenza di un edificio religioso di modeste dimensioni, o di una cappella almeno dalla metà del Trecento è documentata dalla data, incisa su una pietra di rimpiego murata capovolta, posta sopra il portale orientale della sacrestia[6]. Sulla superficie della pietra, nonostante la forte abrasione, all’interno di una semplice cornice si distinguono chiaramente la lettere MCCC LIII incise con la tipica forma tondeggiante del periodo tardo gotico indicanti l’anno 1353 (Figura 1). Malgrado non sia nota l’originaria posizione e non sia possibile stabilirne la funzione, risulta certa la provenienza dalle mura dell’antica chiesa. La lapide rimane il più antico reperto e, unita agli affreschi e ad una piccola statua in pietra, anche l’unica testimonianza materiale ancora visibile, del precedente edifico.

lapide

 

 

Figura 1. Lapide murata sul portale orientale della chiesa di San Siro proveniente del vecchio edificio. L’iscrizione, girata, riporta in caratteri gotici le lettere CC e la data MCCCLIII.

 

Dato l’esiguo numero dei dati materiali, sono le fonti scritte i documenti più preziosi per ritrovare informazioni sulla vecchia chiesa. Le più antiche descrizioni della parrocchia di San Siro sono contenute nelle visite pastorali del XVI secolo effettuate dal Vescovo Pietro Lippomano[7] e dal Cardinale Carlo Borromeo[8]. Pietro Lippomano definisce la chiesa “satis pulchra” e San Carlo aggiunge che era “sufficientemente ampia per il numero della popolazione, decorata, ricca di pitture e con cinque altari”. Dalla lettura delle due visite pastorali possiamo ricostruire, in linea di massima, l’aspetto della chiesa di San Siro che si presentava ben diversa da come appare oggi. L’edificio sorgeva, come l’attuale, in cima ad un’altura in un’area nota con il toponimo di Castello notevolmente distaccata dal campanile[9], ed era orientato con l’altare rivolto a Est e la facciata ad Ovest[10]. L’ingresso principale avveniva da un grande portale posto sul fianco della chiesa rivolto a settentrione, ancora oggi visibile, ed era preceduto, come in molte chiese delle valli bergamasche, da un portico. Dalla descrizione del Vescovo Lippomano, possiamo apprendere che l’interno della chiesa era piuttosto grande, adatto ad un numero di fedeli attorno alle quattrocento persone e si presentava nella tipica forma delle chiese costruite tra XIV e XV secolo: ad aula unica con l’altare maggiore nel presbiterio coperto da un’ampia volta. Vi erano altri quattro altari e lungo le pareti si aprivano due cappelle: la più piccola dedicata a Sant’Antonio Abate, la più grande conteneva un’icona composta da diverse figure in legno dorate tra cui si riconosceva al centro San Siro. L’architettura, molto semplice, era arricchita, come in molte chiese coeve, da affreschi che ricoprivano la volta del presbiterio e le pareti della cappella di San Siro. Anche il portico esterno era arricchito, come si vede ancora oggi, da affreschi. Un manoscritto inedito, recentemente ritrovato da Aquilino Rota presso l’Archivio Parrocchiale, datato 1748 opera di Don Domenico Pelaratti si è rivelata la fonte più ricca di particolari per ricostruire la storia della parrocchia[11]. Il testo intitolato Memorie antiche della Parochia di Rota in poche righe sintetiche e schematiche, ci fornisce informazioni preziose e sconosciute sulla storia dell’edifico[12]. Tre sono i dati più interessanti che si ricavano dal testo. In primo luogo si ricorda come l’edificio originario sia stato ingrandito e decorato nel 1470 con affreschi eseguiti da Giovanni Marinoni pittore originario di Desenzano frazione di Albino di cui Don Pelaratti riporta l’iscrizione posta sopra la porta della sacrestia: 1470 Die 20 Mensis Septembris. Ego Joannej filius magistri Antonii de Marinonibus de Desenzano pinxi hoc opus. Questa preziosa testimonianza, non solo permette di colmare un vuoto nell’attività di Giovanni Marinoni tra il 1465 e il 1473, ma è l’unica traccia di una sua attività in Valle Imagna e risulta la prima firma, finora nota, del maestro albinese[13]. I motivi che spinsero il giovane pittore Giovanni a decorare l’interno della chiesa di Rota non sono ricostruibili, ma certamente derivano dai forti legami che in quegli anni Albino aveva con la valle Imagna come ampiamente dimostrato dalla presenza di numerose famiglie di origine valdimagnina nel capoluogo seriano[14]. Purtroppo gli affreschi andarono perduti nella ricostruzione dell’edifico e possiamo solo ipotizzare che decorassero l’intera volta della cappella grande e l’arco santo, secondo un modello iconografico diffuso in area bergamasca durante il XV secolo[15]. Don Pelaratti prosegue la sua memoria ricordando gli affreschi esterni della facciata dove leggeva, sopra la figura, non più visibile, di San Cristoforo la seguendo iscrizione: Anno Dni Chr. 1506 Die 7 mensis Maij. Data che potrebbe ben raccordarsi con gli affreschi ancora visibili del fianco nord della chiesa. Don Domenico ci ricorda, inoltre, l’anno della consacrazione della chiesa, il 10 Giugno 1511, e la presenza alla cerimonia dell’allora Vescovo di Capodistria il bergamasco Bartolomeo Assonica[16].

 chiesa S

Particolare dell’affresco di Antonio Sibella all’interno della chiesa che raffigura la chiesa di San Siro come appariva prima degli interventi di ricostruzione del piazzale nel Novecento.

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[1] La presenza di una seconda lapide, posta sopra il portale a oriente recante l’incisione MCCDL, permette di datare al 1750 il completamento del corpo dell’edifico e di porre quindici anni dopo la realizzazione della facciata. Durante il XVIII secolo si assiste in tutte le valli bergamasche, alla ricostruzione o al restauro di quasi tutti gli edifici sacri. Ogni comunità ricercò architetti e materiali pregiati, impegnandosi in lunghe e costose opere di ricostruzione che a volte, come accade anche per Rota Fuori, durarono diversi decenni.

[2] L’epoca di datazione del portico si ricava dalla lettura della relazione curata dal parroco Don Gaspare Mazzoleni, in occasione della visita pastorale del Vescovo Gian Paolo Dolfin nel 1779, nella quale si accenna all’inizio di lavori per la costruzione di un portico al fine di riparare la facciata della chiesa. ASCVBg, Atti visita Dolfin, vol. 101, c. 98.

[3] La particolare dedicazione a San Siro, primo vescovo di Pavia, il cui culto fu promosso durante il regno longobardo tra VII e VIII, per sostenere la piena conversione alla chiesa cattolica, ha fatto ipotizzare, in passato, una fondazione risalente all’altomedioevo, tuttavia la chiesa non è presente nell’elenco delle duocentotredici chiese parrocchiali citate nella Nota Ecclesiarum Civitatis et Episcopatus Bergomi, attendibile quadro della diocesi di Bergamo del 1360. Mentre un atto notarile, inedito, datato 14 Settembre del 1355, citando un documento precedente del 1347, riporta la giurisdizione, sotto  la  parrocchia della chiesa di San Omobono delle contrade  de rotha, de zipino, de bedolitha, de gromanzano, de valsicha et de locatello. ASBg, Atti Simone Pilis, 14 settembre 1355, f. 171. Cfr. CHIODI, BOLIS 1957, p. 70; MANZONI 1988, p. 109.

[4] MANZONI 2006,  pp. 119-124. Per un quadro generale sulla evoluzione delle istituzioni ecclesiastiche nella bergamasca  cfr. PESENTI 2003.

[5] APR,carteggio.

[6]La storia del ritrovamento di questa lapide incisa è interessante.  Tra il 1741 e il 1769, durante i lavori di ampliamento della chiesa di San Siro, l’allora parroco Don Domenico Pelaratti scrisse una lettera al conte Paolo Vimercati Sozzi, noto culture di storia del territorio bergamasco, per segnalare il rinvenimento di una lapide nei muri dell’antico edificio recante l’anno di fondazione della chiesa di San Siro. Nella Biblioteca Angelo Mai è conservata la nota autografa del Conte Vimercati Sozzi che riporta  la trascrizione di  Don Pelaratti,  che, forse a causa del cattivo stato di conservazione dell’iscrizione, trascrisse e ricopiò il testo al rovescio interpretandone i caratteri, non senza difficoltà, come I IND DCCIII I.N.D. con il significato di Prima Inditione 703 ad Incarnationis Domini. BCBg, Miscellanee Vimercati Sozzi, I, G, 4249. Nel Dicembre del 2003, in occasione di un convegno di studi su San Siro, Aquilino Rota ha correttamente osservato che la lapide fu murata capovolta, proponendo la data 1353. APR, le dedicazioni romaniche a San Siro; Crf. Anche MANZONI 2006, p. 80.

[7]ASCVBg, Atti visita Lippomano, vol 5, c.180 r-v. Pietro Lippomano, vescovo di Bergamo, visitò la chiesa di San Siro il 10 Ottobre 1538. Si tratta della più antica e completa descrizione della chiesa di San Siro e riporta il nome di Antonio de Scordelis, parroco di San Siro dal 1538 al 1550. Ringrazio Giampiero Tiraboschi per la trascrizione e traduzione dell’originale.

[8]San Carlo non visitò la chiesa di San Siro di persona, ma fu l’Abate Ottavio Forrerio a recarsi a Rota Fuori il 14 Ottobre 1575.  Esistono due traduzioni della visita: una prima, più sintetica, a cura di Angelo Giuseppe Roncalli, il futuro Papa Giovanni XXIII; una seconda più dettagliata ed inedita tradotta da Don Giacomo Locatelli nel 1974. Cfr, Atti Visita Borromeo, vol. VII, p. 809; APR, Visita Pastorale Cardinale Borromeo, materiale per la storia della Parrocchia.

[9]In un atto notarile del 1732, la località posta sotto il campanile, anticamente casa del curato, è detta Castello. Osservando come il campanile, sopraelevato nell’ Ottocento, sia posto in posizione più elevata delle chiesa, si può ipotizzare che possa sorgere sui resti di un’antica torre di controllo. Ringrazio Robert Invernizzi per l’interessante segnalazione.

[10]Nell’affresco di Antonio Sibella all’interno dell’attuale edificio che rappresenta la presentazione della chiesa di San Siro alla Vergine, datato 1882 si nota chiaramente la conformazione orografica del monte su cui sorge la chiesa e i grandi archi artificiali che ne sostengono la struttura.

[11]APR, Memorie antiche, materiale per la storia della Parrocchia.

[12] Il testo presenta due facciate, la prima scritta dal parroco Pelaratti in cui in modo schematico anno per anno viene riassunta la storia della chiesa, nella seconda si trova la sequenza dei parroci a partire dal 1563 al 1881. Si riconosco oltre alla grafia di Don Domenico quella dei successori, Don Pietro Bugada e Don Pietro Finazzi. Nell’archivio parrocchiale è custodita anche una trascrizione del manoscritto  datata 1969 ad opera di Don Todeschini.

[13] Gli affreschi di Rota precedono di tre anni  il ciclo eseguito per la chiesa di San Giacomo di Somendenna in Valle Brembana, considerato  fino ad ora, il primo intervento pittorico noto dell’artista, e del quale rimangono solo fonti scritte. ROSSI 1989, p. 383. Su Giovanni Marinoni e sull’attività della sua bottega, tra le più importanti ed attive nella bergamasca tra anni ‘50 e ‘90 del XV secolo, cfr. PARATICO 2008.

[14] Ad Albino nel 1476 risiedevano due famiglie di mercanti di lana originarie di  Locatello, l’una facente capo ad Antonio detto Zuchino figlio di Alberto Bruno, l’altra ad Antonio di Giovanni figlio di Tonino Tuffi che risultano essere le più ricche del paese, con beni sparsi in tutta la Bergamasca e con forti crediti che fanno pensare alla pratica del prestito su interesse. Devo la preziosa segnalazione a Franco Innocenti e a Giampiero Tiraboschi autore della trascrizione dell’Estimo del 1476. BCA, Estimo di Albino 1476, pp. 143-148.

[15] A titolo di esempio ricordo la decorazione perduta dell’abside della chiesa di san Giacomo di Somendenna, eseguita da Giovanni Marinoni pochi anni dopo quella di Rota, nel 1473. Essa comprendeva le figure di Dio Padre, dei Dottori della chiesa e degli Evangelisti; sulla volta e sulla fonte dell’arco vi era una Annunciazione con  le aureole dei santi in oro. Cfr. PARATICO 2009, p. 20.

[16]1511 die x junii consacrata fuit Ecclesia S Syru per B.D.A. Epus Justinopolitana.. L’anno era già noto a Luigi Pagnoni, il quale lo riporta correntemente ma non conoscendo l’originale, riporta l’errore di trascrizione di Don Todeschini, il quale, confondendo il nome della diocesi di Capodistria, anticamente detta Giustinopolitana, cita un inesistente vescovo Giustino Politano presente alla cerimonia. Cfr. PAGNONI 1979, p. 308.

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Elenco abbreviazioni

ASBg, Archivio di Stato di Bergamo

ASCVBg, Archivio Storico Curia Vescovile di Bergamo

APR, Archivio Parrocchiale di Rota Imagna

BCA, Biblioteca Comunale di Albino

BCBg, Biblioteca Civica Angelo Mai di Bergamo

 

Fonti Inedite

ANGELINI G. B., Delle Parrochie e de Parrochi della città e Diocesi de Bergomo, BCBg.

Atti Simone Pilis, Atti fondo notarile Simone Pilis fu Pietro 1353-1360, ASBg, Notarile, n. 75.

Atti visita Dolfin, Atti della visita del vescovo Giovanni Paolo Dolfin, 1778-1781, ASCVBg, Visite pastorali, voll. 76-108.

Atti visita Lippomano, Atti della visita del vescovo Pietro Lippomano, 1535-1538, , ASCVBg,Visite pastorali, voll. 2-6.

Estimo di Albino 1476, Estimo veneto del Comune di Albino: anno 1476, trascrizione a cura di Giampiero Tiraboschi, BCA.

Le dedicazioni romaniche a San Siro, Le dedicazioni romaniche a San Siro. Atti del Convegno di Studio  6 Dicembre 2003, a cura di A. Rota, APR, Fondo storia, Cronicon 1, materiale per la storia della Parrocchia.

Memorie antiche, Memorie antiche della Parochia di Rota estratte da me Domenico Pelaratti da diversi manoscritti e stampe, APR, Fondo storia, Cronicon 1, materiale per la storia della Parrocchia.

Miscellanee Vimercati Sozzi, Miscellanee varie, archivio conte Paolo Vimercati Sozzi, BCBg, Archivio  famiglia Vimercati Sozzi.

Visita Pastorale Cardinale Borromeo, Relazione visita apostolica  di Carlo Borromeo alle chiese della pieve di Almenno Chiesa parrocchiale di San Siro Rota Fuori 14 Ottobre 1575, APR, materiale per la storia della Parrocchia.

 

Fonti Edite

Atti visita Borromeo, Gli atti della visita apostolica di S. Carlo Borromeo a Bergamo 1575 a cura di A.G. Roncalli, Firenze.

CHIODI L., BOLIS A. 1957, Nota Ecclesiarum Civitatis et Episcopatus Bergomi 1360, in Bergomum: bollettino della civica biblioteca, a. 51, n.1, Bergamo, pp. 39-89

MANZONI P. 1988, Lemine dalle origini al XVII secolo, Almenno San Bartolomeo (Bg).

MANZONI P. 2006, Madonna del Castello. La Pieve, Almenno San Bartolomeo (Bg).

PAGNONI L. 1979, Chiese parrocchiali bergamasche: appunti di storia e arte, Bergamo.

PARATICO C. 2008, La bottega Marinoni : XV-XVI secolo, Azzano San Paolo (Bg).

PESENTI A. 2003, L’organizzazione diocesana in Le fasi antiche del territorio. La Lombardia Orientale tra Adda e Oglio, a cura di P.M. DE MARCHI e L. PAGANI, Bergamo, pp. 45-51.

ROSSI F. 1989, Giovanni Marinoni e la sua bottega, in I Pittori Bergamaschi. Il Quattrocento vol. 1, pp. 383-409,  Bergamo.

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Il lungo cammino

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Il lungo cammino

 

 Prima di salire nelle barche, quelli che partivano davano un ultimo arrivederci a  parenti e amici venuti ad accompagnarli. Si piangeva, ci si scambiava auguri, ci si prometteva, senza troppo  crederci, di           ritrovarsi in seguito; ci si abbracciava un’ ultima volta, famiglie fin’allora unite si separavano per sempre.                            G.Medzadourian - Les exilés de la paix  (1975) Paris, Entente

 << Fa so fagòt  >>

 Pezzi di vita, uniti l’uno con l´altro, corti brani di esistenze scomparse, questo racconto vuole essere un segno, un’ impronta, un marchio indelebile per ricordare il lungo cammino dell’emigrazione. Queste righe sono scritte come altri  farebbero un nodo al fazzoletto  e  devono servire di promemoria per coloro che sono inclini  a dimenticare il passato, un  piccolo segnalibro nel gran manoscritto delle migrazioni italiane.

Da secoli le montagne orobiche hanno visto tanti, troppi uomini, lasciare le loro case, la loro valle natale, andarsene come l’ebreo errante, dai monti verso la pianura, dal freddo delle alture verso le sponde rischiarate del Po, da una regione, da un paese al l’altro, allontanarsi dalle loro famiglie per garantire loro la sopravvivenza.

Eroine loro malgrado, Caterina, Ines, Lidia e tutte le altre, attrici di primo piano, un tempo rimaste al paese lottando ogni giorno, risparmiando ogni mollica, mettendo tutte le loro forze nel divenire di quelli rimasti a casa, aspettando il marito, il padre o il fratello. Le migrazioni stagionali sono diventate più lunghe, il marito non sopporta più la solitudine all’estero (1), stufo delle “cantine”, delle esitazioni… i mesi diventano anni e la famiglia intera stacca gli ormeggi. Caterina, anche lei come altre, lascia dietro di sé i nonni. Cariche di fagotti, di pesanti valigie di legno o di cartone, qualche volte di bauli, i bambini mocciosi attaccati alla gonna partono per l’ignoto.

Tra Italia e Francia, quante andate e ritorno tutte queste famiglie avranno fatto? Stabiliti un tempo all’estero per guadagnare un modesto gruzzolo oppure definitivamente staccati della madre patria. Nomi, luoghi, percorsi diversi, verso Parigi, il Doubs o la Lorena, tutti hanno chiuso delle valigie, girato la chiave, un groppo enorme nella gola, lo stomaco annodato. Sono partiti.

 

 << Enda ‘n Calicut >>

 Sopravvivere

Nel corso delle mie diverse ricerche sulla storia della Valle Imagna ho trovato molti esempi che provano la mobilità dei valdimagnini, dal ‘5oo conosciamo il loro bisogno, l’assoluta necessità, d’andare fuori dalla valle a cercare altre attività per guadagnarsi il pane nel migliore dei casi, ma soltanto per sopravvivere per tanti altri.

In un’epoca descritta come “valle della fame“, da tempi remoti l’Imagna, e per tanti secoli , non ce la faceva a nutrire i suoi abitanti, i nostri contadini, fagotti sulla spalla, andavano a scoprire altri orizzonti. Altri, maestri in attività artigianale andavano a vendere la loro produzione di vari oggetti per lo più di legno ed altre varie merci. I più agiati anche loro, per altre ragioni, lasciavano la valle.

I valdimagnini già all’inizio del ’500 sono citati nel libro di Giovanni Silini: ”Bergamo 1512”, Narrazione degli avvenimenti politici e militari di un anno drammatico. Dal patrizio veneziano Marco Antonio Michiel (1484-1532).

<<…quelli di valle Imagna, fabbricano bacili ed altri simili recipienti in Liguria, nella Gallia Narbonense, nella vicina Spagna, in Lazio, Campania e Sicilia utilizzando il legname che cresce nei boschi di quei luoghi.>>

Descritti anche i valligiani della Brembana, Seriana, Cavallina, obligati anche loro ad uno schema identico. <<…Si può dire in generale dei Bergamaschi che sono una schiatta di uomini duri ed industriosi, che eccellono in ciò cui dedicano il loro ingegno…>>

Giovanni da Lezze nella sua descrizione del territorio bergamasco nel 1596 parla delle scarse raccolte e della povertà della gente in Valle Imagna, in qualche modo giustificando  le attività secondarie da lui esposte: <<…la maggior parte di queste genti vanno per il mondo…in negocii di mercantie….come Roma, Fiorenza, Romagna e Marca […] massime in Ancona, che delle quattro parte le tre sono le botteghe di quella valle…>>

Parlando di Rota: <<Di questa gente ce ne sono a Venetia a far arti perchè il paese è sterile, non si raccolie grano se non pochisimo formento et farro…>>

Parlando di Fuipiano: << Quel paese non produce altro che feno et percio è povera gente […] la maggior parte delle persone è fuori, chè ve ne sono da cento in su come a Roma, Bologna, Venetia et a Bergomo>>

Parlando di Mazzoleni: <<Il comun non ha altro che alcuni pochi boschi et pascoli inutili, le persone povere, molti de quali si ritrovano fuori…>>

Cepino: << Questa gente è tutta povera…>> Corna: << Gente povera…gran parte di loro vanno fori dil paese facendo l’arte del legname et ritornano a casa per due mesi dell’anno…>>. Selino: <<Tutta la gente povera, li huomini la maggior parte per la sterilità del paese vanno altrove lavorando di legname chè questa è sua propria arte…>> Stessa descrizione per Blello, Roncola, Strozza, Capizzone, quelli di Berbenno negoziano in merci nelle Marche e Romagna. Quelli di Locatello si ritrovano a Venezia, Friuli, Ravenna e anche in Francia. Gli abitanti di Bedulita sono tutti poveri <<bracenti et parte di loro a Venetia…>>.

Anche l’Abate G.B. Angelini nella sua descrizione della valle (1720) su cinque pagine per 4 volte segnala il fatto, parlando di Selino: <<… Si fila stame, a procacciarsi ‘l pane, va parte de gl’abitatori altrove: La fame i lupi caccia delle tane …>>. Per Valsecca: << … Gl’abitator d’altrove gir l’usanza seguono antica…>>. <<Cacciano fuori l’infeconde valli da sé gl’abitator, che altrove vanno a studi, all’armi, all’arti, e sorte dalli.[…] I fabri vanno in esteri paesi con queste merci, e vivon con tal’arte lungi da tutti lor parecchi mesi.>> (2)

Altre fonti per dare qualche esempio sulla popolazione di Rota:

Antonio Posta fu a Roma nel 1612, i fratelli Tondini nel 1774 ebbero un negozio nel Cremonese. Il Galeotti si trova nel Piacentino nel 1751. Giuseppe Tondini vive a Brescia nel 1758. Antonio Paglia risulta deceduto nel territorio Veronese nel 1692. Altri fratelli Paglia hanno un negozio in Valle Camonica (1764). Alessandro figlio di Giuseppe Moscheni nel 1791 vive a Soresina territorio cremonese, Paolo figlio di Giuseppe Gritti nel 1795 abitante Venezia, ecc …..

Per confermare tutti questi spostamenti, il rapporto tra nascite e morti degli abitanti di Rota Fuori, nel periodo 1613-1770:  ben il 30%  risulta morto fuori del loro villaggio di nascita.

Il censimento del 1802 indica che 29 famiglie, di Rota Fuori, vivevano della vendita dei prodotti di legno e d’altre merci “per il mondo“.

Maironi del Ponte nel 1820 descrive gli abitanti di Rota Dentro: <<…la maggiore parte delle quali, compiute essattamente le faccende di campagna si dedica alla negoziazione di poche merci, e col carico di esse va girando quasi in tutte le parti del regno Lombardo Veneto…>>

In un Registro degli Stati d’anime (1774-1783) della parrocchia di Berbenno  uno dei parroci, probabilmente nel corso dell’700, scrive l’abbozzo d’una lettera per domandare un aiuto a un notabile sconosciuto, il tema di questa supplica (3) è proprio la grande miseria degli abitanti di Berbenno.

Dall’archivio parrocchiale di Berbenno, non mancano gli esempi di persone, famiglie, stabilitesi a Verona nel ‘700. Sempre degli archivi di Berbenno : 129 famiglie tra 1899 e 1934 hanno lasciato il comune, tra i quali 74 per la Francia e 4 per la Svizzera (4).

Nel censimento del 1931 del comune di Fuipiano risultano assenti per lavoro 358 residenti su 635, tra i quali un centinaio emigrati all’estero a fare i muratori (5).

Si potrebbero moltiplicare gli esempi, dati ed altre tristi e faticose vicende della nostra gente, ma il fenomeno è conosciuto da tempo, ancora oggi la miseria passata e l’emigrazione sono ben presenti nella mente dei valdimagnini.

 

(1) << nei casi più favorevoli vi è la malattia dell’anima: presto l’emigrato si avvede di essere solo, e il solo è un miserabile, un disgraziato, un reietto. Il ricordo della famiglia, degli amici, del paese natio è l’incubo o il vampiro dell’anima sua: il cuore si tormenta del sentirsi vuoto, e il vuoto del cuore è la più opprimente delle infirmità… Presto i sogni della felicità s’infrango nella realtà di crudeli desillusioni, si accumulano tutte le angoscie dell’esilio e il rammarico della patria lontana>>  Ernesto Comucci – 1885 “Della emigrazione e del pauperismo”
(2) G.B.Angelini – Per darti le notizie del paese – Vincento Marchetti, Ateneo di Bergamo 2002
(3) << Attesa non dico la grande ma l’estrema miseria che nella maggior parte delle Famiglie regna come può capire in questa comune, Lui solo a preferenza di molti altri è quell’unico soggetto che può per qualche tempo trovar modo di sollevarle; questo lo dico io e lo dicon tutti questi membri di carità che accompagnano la mia lettera; uniti vengono appunto da lui, lo pregano e in lui confidano e da lui son sicuri che saranno ben accolti. … procuri e si impegni prima per il decreto di quella … necessaria che giudica bene in tali critiche circostanze, poi per l’effettuar d’esso decreto in sostegno di questi miserabili si può dir disperati ed in procinto di mancare sicuro che oltre una soddisfacente gratitudine merito avrà appressio Dio: quid uni … fecistis mihi fecistis. Queste parole le riceva come dette di persona e novamente lo prego di tale assistenza. Mi scusi se mi mostro importuno e … >>.
Gianfranco Ferrari – Trascrizione degli archivi parrocchiali- L’illustra famiglia dei conti Petrobelli di Bergamo, grande proprietario terrieri in Berbenno potrebbe essere la destinataria di questa lettera.
(4) Gianfranco Ferrari – Trascrizione degli archivi parrocchiali – “Manoscritto anonimo che si trova in una cartelletta considerata Chronicon”
(5) Diego Gavazzeni – Tesi: “La transumanza, Fuipiano anni 1900-1940”
 
 

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<< ...e dopo es riat fò ‘l Colombo… con zét del Portogal e de la Spagna, ai ghè curicc incontra a domandaga: “come ala sö gliò ‘nval d’Imagna?”. >> - Bortolo Belotti

 

Sulla strada

Cosa pensava il giovane bergamasco sbarcando a Castel Garden (stazione di arrivo a New York, prima dell’apertura nel 1892 di Ellis Island)? Una lettera scritta con un gessetto dal medico (1) sul vestito, determinava la buona fortuna o meno per l’avventura nord americana.

Nello stesso momento un valdimagnino, che ancora più lontano, appoggiato al impavesata d’una nave, arriva nella profonda insenatura del Rio della Plata e scopre il  porto di Buenos Aires. Cosi discosto della sua valle nativa, sognerà a una vita migliore, o ha già la nostalgia del paese lasciato?

Anche con l’idea di ritornare, la partenza che sia per l’America o qualsiasi altro paese d’Europa, fu sempre una ferita dolorosa, caricata di speranza.

Passando le frontiere, non sempre legalmente, superando le montagne, percorrendo aride pianure assolate, camminando per tutti tempi,  hanno attraversato l’Europa, lavorato in tutti paesi, imbarcati a Genova o spesso al porto del Havre in Francia. Giovani migranti, alcuni celibi, assetati d’avventura con il bisogno d’andare a vedere quello che succede dietro l’orizzonte. Ma per la gran parte erano responsabili d’una famiglia a volte rimasta nel paese a volte che li accompagnava, e sono partiti, spesso per l’ignoto. Ma tutti con la speranza di guadagnare qualche piccola cosa in più, un pò di superfluo, il gradino al disopra della sopravvivenza: la dignità. Nessuno di loro vede il proprio avvenire all’estero, dovrebbe essere soltanto per un periodo, il tempo di risparmiare, fino a che le cose non vadano meglio in Italia, forse si potrà comprare un pezzo di terra… Modesto sogno per potere tirare avanti.

Nel 1868 un deputato milanese manifestò la sua preoccupazione davanti al parlamento:

<<…non è confortante né è buono per la causa politica del nuovo regno d’Italia il fenomeno a cui tristemente assistiamo di moltissimi cittadini costretti dalle fame ad emigrare o che sia per vaghezza di far fortuna se questa gente espatria. Questa gente se ne va piangendo e maledicendo ai signori e al governo. Sono terribili imprecazioni che contristano chiunque le oda>>

Purtroppo, col tempo le campagne si svuotano ancora di più, i monti bergamaschi si fanno deserti, fenomeno incontenibile e irreversibile. Nel corso di quaranta anni 14 milioni d’italiani espatriano.

All’epoca dell’unificazione e dell’indipendenza dell’Italia il paese era veramente arretrato: analfabetismo, mortalità infantile raggiungono dei tassi incredibilmente elevati, carestie ed epidemie erano ancora presenti. Famiglie troppo numerose in una popolazione eminentemente agricola che subirà in pieno una gravissima crisi agraria, cui s’aggiunge una punta demografica sproporzionata alle risorse economiche, ed ecco gli elementi che provocheranno un esodo massiccio. L’emigrazione fu anche una forma di protesta contro la legge del giovane stato italiano sulla leva militare obbligatoria che teneva troppo tempo i giovani sotto le armi.

Si possono datare al 1871 le prime emigrazione di massa, nonostante la preoccupazione del nuovo stato italiano, che tenterà invano di fermarle. Inizia allora il fenomeno migratorio  più importante nella storia dell’umanità, non si è mai visto uno spostamento di popolazione simile.

(1) “B” per problemi di schiena, “C” significava congiuntivite, “S” senilità ecc…

 

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Verso la Francia

L’emigrazione italiana verso la Francia è una vecchia storia, la presenza di uomini d’affari italiani è segnalata nel XIII secolo nelle grandi fiere commerciali francesi, negozianti di tessuti e spezie. Dal XV s. si nota, presso i sovrani e i nobili, la presenza d’artigiani, artisti, architetti di grande competenza, sappiamo tutti delle “elite”:

Un certo Francesco Petrarca è ad Avignone nel 1312, Leonardo de Vinci arriva in Francia nel 1515, Caterina de Medici nel 1533. Uomini politici che un tempo vivevano in Francia: Giuseppe Mazzini, Francesco Crispi, lo scrittore Gabriele D’Annunzio, il pittore Amedeo Modigliani. Altri italiani: intellettuali che combattono a Parigi con gli insorti della Comune nel 1871 e subito dopo i rivoluzionari, libertari, anarchici del l’inizio ‘900.

Possiamo rilevare i simboli superati oggi ma realtà di ieri: musicisti di strada, saltimbanchi ed ammaestratori di orsi che adesso fanno parte d’una triste visione pittoresca e folcloristica o quelli che potrebbero fare sorridere altri: il figaro meridionale, i venditori ambulanti, gli spazzacamini savoiardi o i lucidatori napoletani. Sembra incredibile, ma non è un mito: i bambini soffiatori di vetro alla periferia parigina, migranti involontari, vittime di schiavisti tanto italiani che francesi.

Niente potrà nascondere la grande massa dell’immigrazione laboriosa, conosciuta da secoli, sempre migrazioni della miseria, fuga dalla povertà. Coorte di lavoratori stagionali, operai agricoli, muratori, sterratori, intonacatori, vetrai, arrotini, spesso sfruttati o vittime d’una xenofobia latente, ostracismo dell’ ignoranza.

Ci sono due strade principali per l’emigrazione italiana verso la Francia, la prima, la più antica e la più nota: quella mediterranea, imbarcati a Napoli o a piedi da Genova si arriva a Marsiglia, da là, la strada del nord passando per la valle del Rodano, da Lione verso Parigi,  oppure la strada per la regione Lorena.

Ma il percorso più facile per i migranti lombardi fu quello della Svizzera, territori di lavoro molto ambito, da secoli, dai lavoratori bergamaschi, prima delle diverse destinazioni francesi. Migrazione stagionale facilitata dal traforo della galleria del San-Gottardo (1872-1882) e dalle nuove costruzioni ferroviarie. La cita di Basilea in Svizzera è una “rotatoria” importante sia al nord per la Germania o all’ovest per la Francia.

La maggior parte dei migranti oltrepassa le Alpi attraverso il S.Gottardo o il monte Cenis (galleria ferroviaria inaugurata nel 1871), più tardi dal Simplon, le frontiere-stazione sono Chiasso e Domodossola.

Nel 1881, la Francia accoglie più della metà dei migranti italiani installati in Europa cioè 38% de l’emigrazione italiana mondiale.

 

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personaggi lungo cammino

 

Due foto

Il pittore di una tela bianca immortala il suo soggetto, tratteggia  la sua visione di una persona viva. Il pennello scorre sul quadro tentando di descrivere un individuo, un temperamento, dei sentimenti, vuole dare vita a un insieme di tratti e di colori.

Anni, secoli dopo, rimarrà un’opera diversamente interpretata, secondo quello che guarda, il dipinto riflette la personalità dello scomparso. La scelta di un colore o la pennellata definisce un tratto di carattere, e dietro  tutto quello, possiamo dire, che appare la marca dell’artista, come in filigrana si distingue la silhouette del pittore, la sua personalità.

Da due foto il narratore tenta di percorrere la strada inversa, vuole descrivere la vita e lo stato d’animo di due visi rappresi su un cartoncino, prova a schizzare qualche cenno di un’esistenza, abbozza la sua visione e lascia correre la sua immaginazione per ridare vita ai personaggi scomparsi. Forse la sua fantasia va aldilà della realtà, vorrebbe un dipinto, un testo, conforme alla verità, ma come il pittore, anche lui si lascia prendere in un vortice di sentimenti incontrollabili e lascia intravedere le sue emozioni.

Il narratore ha conosciuto Ines, piccola donna fragile, attempata mela grinzosa, sdentata faccia, nonostante tutto imbellita da questi penetranti occhi blu. Nella sua casa alla Torre di Rota Fuori camminando con difficoltà, dal camino all’orto dal negozio del Cencio al Prapelitone tirando avanti la sua vecchiaia.

Il narratore, allora cosi piccolo, ha visto Ines, che era ancora mamma, chiamare “Pepino” il suo primogenito con questa voce sfumata dall’accento tipico della valle Imagna, il bambino, di cinquanta anni e più, subito obbediva. Quarantacinque anni dopo, questa inimitabile voce risuona ancora.

Caterina e sua figlia Ines sono veramente esistiti, i luoghi, dati, eventi sono reali. Sono andate sul Lungo Cammino dell’emigrazione, hanno conosciuto le difficoltà descritte. Piccole erbe trapiantate di un paese all’altro, le due donne lasciano, in queste due foto, l’impressione di una grande forza.

L’istinto di sopravvivenza, l’avventura dell’espatrio, le paure, i bisogni dei migranti rimangono un grande mistero per tanti. La determinazione di uno sguardo su una foto basterà a portare avanti un progetto, Caterina e Ines hanno intimato al narratore di non lasciare nell’oblio la vicissitudine di queste avventure umane.

 

Caterina
(1863-1942) – figlia di Pietro Angiolini, moglie di Giuseppe Paglia.

 

 

(Narratore) Rota Fuori – 1900

Tutte le donne del casato Paglia sono lì: Caterina Quarenghi, la piccola ma robusta nonna di 63 anni. La nuora, un’altra Caterina con le sue tre figlie, tutte sedute al sole davanti la trecentenaria casa del Prapelitone, a filare, la mattinata è stata dedicata al lavoro nell’orto.

In questa fine di pomeriggio, nelle loro occupazioni quotidiane, i due uomini, padre e figlio Paglia sono affaccendati all’essiccazione del fieno, falciato il giorno precedente. La donne lavorano la lana, la nonna insegna alle nipotine i gesti tramandati di generazione in generazione. La trasformazione della lana tra le dita usate, i semplici strumenti maneggiati da madre a figlie, esperte della rocca, l’arnese scorre tra le mani usate, il pelo dell’animale ritorto si affina, lo stame si arrotola sul fuso.

Le domande una dietro l’altra non si fermano, Ines vuole sapere tutto, l’adolescente interroga la madre in questa calda giornata di maggio 1900.

Caterina Angiolini i capelli trattenuti sotto un fisciù bianco annodato dietro la nuca ha poco delle contadine della valle. In questa bella primavera del nuovo secolo la donna di 37 anni non ha ancora l’atteggiamento comune alle donne della sua età, rotte dal lavoro, piegate sotto il peso delle privazioni. Caterina, il busto altezzoso, lo sguardo determinato, conosce il lavoro della terra, sa pulire le sue pertiche di campo, seminare o trapiantare nell’orto; porta la gerla, maneggia il falcetto, insomma lavora come le altre. La differenza viene dal fatto che lei vuole salvaguardare la sua dignità di donna, non accetta di essere soltanto un animale tra i tanti, che lotta per la sopravvivenza della sua progenie.

Ha cura di lei, dalle sue diverse esperienze ha capito, a modo suo, che un essere umano la sua floridezza se la deve costruire, la fatalità non è inamovibile. Dunque la donna è sempre pulita, i capelli accuratamente pettinati, s’ingegna a dare ai vecchi abiti rappezzati un pò d’eleganza. Prepotenza secondo le sue vicine, lei non se dà pena.

La madre risponde a Ines,la primogenita:

– Un mese dopo la tua nascita, don Giuseppe, il nostro parroco in quest’epoca era il reverendo Giuseppe Gentili, era stato contattato da gente milanese, conoscenze dei Cardinetti di Mazzoleni, il vecchio marchese Gerolamo Sommi-Picenardi e sua moglie Paolina venuti qui, alle fonti. La loro nuora stava per partorire, Maria Anna moglie del signor Gherardo, era il suo terzo figlio e volevano una balia per il neonato. L’offerta era buona, i soldi servivano – Caterina si sente obbligata a giustificare:

– Castagne e polenta non bastano per vivere! E tuo padre stava per partire per la  Francia. Non volevo lasciarti, ma mia cugina, la Maria Chiara, aveva appena partorito anche lei. Tutti mi hanno convinto ad andare, anche tuo padre fiducioso in Maria Chiara che ti ha allattata. Il dottor Cardinetti, quello delle fonti, mi ha visitata e sono partita con loro a Milano per incontrare i signori Gherardo e Maria Anna. Arrivata lì sono rimasta stupita, il grande palazzo, i mobili, c’era una cameriera, una cuoca ed anche una dama di compagnia. Ho fatto un’altra visita con un medico che ha provato anche il mio latte!

Ho ricevuto due vestiti sontuosi con due cuffie ricamate e dovevo portare degli orecchini e una collana in corallo per proteggere il latte buono e abbondante. Mangiavo tre volte al giorno! Carne, zuppe di verdure, pane bianco e latte con miele a non finire!

Ero trattata bene, la signora Maria Anna molto timida parlava poco, ma era una brava persona con me. Il padrone di casa, il signor Gherardo lui era più esigente, lavorava per tenersi occupato, ma non ne aveva bisogno, erano cosi ricchi…

Sono rimasta a Milano un anno, una volta nel mese di giugno, mi ricordo, tuo padre di ritorno dalla Francia, si è fermato per vedermi a Milano – La madre smette di parlare, per spiegare ad Ines che suo marito ha ingoiato una scodella di minestra,  a in presenza della coppia e della dama di compagnia. E dopo una mezzoretta, il povero Giuseppe è quasi stato cacciato fuori della dimora. La relazione tra uomo e donna, era proibita in questo momento, poteva alterare il latte e tutte le attenzioni relative alla balia aveva un solo scopo: il benessere del bimbo allattato. Pudica, Caterina, riprende il suo racconto.

– A Natale del 1888 potevo di nuovo occuparmi di te, qualche settimana dopo tuo padre mi scrisse che potevamo raggiungerlo in Francia, aveva trovato una casa per noi! Mi ricordo bene del 12 febbraio 1889, la partenza per l’interminabile viaggio, l’inferno!

-La valigia in una mano, tu nel altro braccio, camminavi  difficilmente, avevi quindici mesi, dovevo sempre portarti in braccio..

Caterina diventa febbrile rammentandosi il faticoso trasferimento, ritornando 11 anni indietro, i suoi pensieri si affollano.

Non può rifiutare l’aiuto del suocero, Giovanni Battista Paglia, uomo vigoroso di 59 anni, che aveva la piena responsabilità della giovane nuora, in assenza del figlio si doveva  prendere in carica la sua piccola famiglia. In più il povero Pietro Angiolini di Capiatone, padre della nuora, fu  suo compagno di lavoro ( un tempo hanno fatto la legna insieme). Caterina non aveva conosciuto il padre, deceduto qualche mese dopo la sua nascita nel 1864.

Fino a Bergamo, il percorso si faceva in biroccio, il carro scoperto, trainato da due mule, andava piano ma fortunatamente non pioveva e non faceva neanche tanto freddo per febbraio. Il tragitto tra Bergamo e Milano, con il treno,  Caterina l’aveva già fatto da sola di ritorno dai Sommi-Picenardi, oggi si faceva nell’altro senso.

Il suocero di Caterina, era un personaggio, a Rota imponeva il rispetto, già dalla impressionante larghezza delle  spalle, una montagna di muscoli l’uomo aveva due lunghi baffi neri che contrastavano con i capelli bianchi, sempre coperti da un copricapo di feltro a larghi bordi. Tra tutti i Paglia del Prapelitone, era l’unico con questo aspetto di lottatore di fiera, con due occhi blu d’una freddezza ombrosa. Infatti, la sua apparenza fuori del comune, nascondeva un tranquillo e calmo contadino che divideva il suo tempo, secondo le stagioni, tra le sue due attività  quella di boscaiolo e il lavoro delle sue terre.

Nonostante avesse perso una giornata di lavoro, ma d’altronde c’era poco da fare in questa stagione, per accompagnare la nuora, per lui significava l’opportunità di vedere questo treno che corre su una strada ferrata! Dal 1857 che passava il treno in città, e lui non l’aveva mai visto. O nei boschi o nei campi, la sua visione del mondo si limitava alla Valsassina o il val Taleggio, Battista fuori della valle Imagna non aveva niente da fare. Non andava quasi mai nel capoluogo della provincia. In tutta la sua vita, sarà sceso soltanto 3 o 4 volte per recarsi in città alta, ma non conosceva la parte bassa di Bergamo.

Arrivata a Milano alla fine del pomeriggio, Caterina deve aspettare le cinque della mattina seguente la partenza del treno per la Francia.

La stazione centrale è un formicaio, gente dappertutto, i rumori sotto questa altissima tettoia vetrata fanno eco, i fischi delle locomotive risuonano. I sei binari tutti occupati da convogli in partenza, i quattro con i marciapiedi accolgono passeggeri di tutta Italia.

La povera Caterina, un attimo si sente persa, stringendo Ines contro il suo petto, cerca di aprirsi una strada. Intorno a lei un vortice di dialetti sconosciuti, famiglie rumorose, bambini che piangono, carrelli di merci, facchini piegati sotto pesanti bauli, uomini di forza che spingono delle carriole.

Caterina esce del binario ingombrato per arrivare nel largo viale perpendicolare dove i diversi marciapiedi si svuotano. Una marea umana sembra spostarsi in tutti sensi, persone di tutte età, tanti migranti male vestiti, la valdimagnina più di tutto sente l’apprensione di questi uomini, fazzoletto intorno il collo, meridionali con la pelle cosi scura e lo sguardo di fuoco. In mezzo a  questa confusione Caterina, spostandosi da destra a sinistra, evitando pacchi, valigie rovesciate, superando tutti gli ostacoli, arriva nella parte centrale, l’anima della stazione, il gigantesco atrio alto più di 20 metri.

La giovane madre non può impedirsi di fermarsi, rimane a bocca aperta davanti a questa cattedrale! Ma subito si fa spingere dalla folla che arriva dietro di lei. Ines, gli occhi spaventati, stringe la cappa della madre, le braccia  protettrici non bastano a rassicurarla!

Come lei sono decine, soprattutto giovani uomini, ma anche numerose famiglie in questo parapiglia, indescrivibile disordine di cose e di persone.

Finalmente Caterina arriva in una sala di attesa, ovviamente piena, ma oltre il rumore assordante una calmo relativa tranquillizza la giovane donna. Lo smarrimento di Caterina e il panico della bambina nelle sue braccia impietosisce una madre seduta su una panchina di legno. Mollando uno schiaffo al figlio che non obbedisce abbastanza velocemente, la matrona tira il ragazzo d’una diecina d’anni per il braccio e libera il posto per Caterina, che  è già esaurita dal corto ma allucinante percorso, la valdimagnina non si fa pregare.

La sua vicina di panchina è una donna dalla pelle dorata, occhi verdi, lunghi capelli neri scoperti ma legati sulla nuca in una strana crocchia complicata. La straniera del sud, vestita d’una lunga gonna d’un pesante panno nero, un bustino ugualmente nero e le spalle ricoperte d’un scialle di lana, inizia un difficile dialogo con lei.

Lo strano dialetto meridionale sembrava incomprensibile a Caterina, ma probabilmente lo era ben di più per l’altra, che ascoltava il parlare dell’Imagna! Mano mano le due donne finiscono per capirsi, la meridionale più anziana della bergamasca veniva d’un paesino vicino Caserta, con i suoi tre bambini doveva raggiungere il figlio maggior e il marito anche loro in Francia. La difficoltà di vivere nel napoletano assomigliava molto alla miseria orobica, senza lavoro anche la gente del sud  espatriava.

Nella sala d’attesa illuminata da candelabri a gas, le due donne si organizzano. Nella corta notte milanese, impaurite dai movimenti incessanti dei viaggiatori in transito, una dopo l’altra vegliano. Dalle otto di sera la stazione si è svuotata un pò, qualche panchina si è liberata, i bambini estenuati appoggiati uno sull’altro dormono.

Intorno a loro intere famiglie si riposano, il lungo cammino per l’espatrio domanda la sua pausa, un momento d’indugio. Miscela di villani veneziani, cafoni del meridione, campagnoli umbri, uomini e donne affiancati in una sosta dolorosa, triste affiatamento silenzioso, uniti nella loro povertà. La mesta corte, rappresentanti di tutte le province, assemblea eteroclita d’indigenza e di disgrazia, riprende fiato. Le magre borse, fagotti composti d’un telo con i quattro angoli annodati insieme, riempiti da poveri cenci, servano da improvvisati cuscini. Sentori d’uomini, odori imbrattati, i profumi del bisogno si fondano con olezzi d’aglio emiliano, di formaggio padovano, di cipolle abruzzese, resti d’un scarno banchetto.

Incubo d’una notte senza fine, il sonno di Caterina assomiglia di più a una lunga camminata, alternanza di corti momenti d’assopimento e veglie in sussulto.

 Caterina Angiolini

Caterina Angiolini

 

Superato il confine e le montagne, la campagna francese sembra molto bella agli occhi sonnacchiosi di Caterina. Sono ore che il treno corre tra monti e pianure, le cime delle Alpi coperte di neve  hanno lasciato il posto a colline verdeggianti, prati e campi deserti per la stagione si succedono. Il cambiamento di convoglio a Lione viene fatto agevolmente, è lì che la napoletana, compagna della notte e del viaggio è scesa, una nuova esperienza positiva per Caterina: i meridionali sono come lei.

Il dondolamento della carrozza provoca un dolce sopore alla viaggiatrice, Caterina è spossata. La dura panchina di legno indolenzisce tutti suoi muscoli, Ines innervosita dal lunghissimo viaggio non le lascia un attimo di riposo. Il convoglio si ferma in numerose stazioni, per fortuna diversi italiani come lei, viaggiatori agguerriti, spiegano agli altri le tappe della spedizione.

Portiere e finestrini chiusi, l’odore del carbone s’insinua dappertutto, più di 24 ore di viaggio e Caterina si sente sporca. Quando la velocità diminuisce le volute del fumo della locomotiva vengono a leccare i vagoni, la gente tossisce, i vestiti impregnati dalle esalazioni sono sporchi di bruscoli di carbone.

Il lungo fischio della locomotiva spesso annuncia la traversata d’una galleria e Caterina, con un  gesto protettore, copre la bocca della bimba, l’ effluvio ancora più forte lascia nelle carrozze una leggera foschia disperante.

Le ore passano, il viaggio non finisce più, Caterina ha terminato le sue provviste, finiti il formaggio e il pezzo di polenta portati con lei. Rimane una mela, istinto da tempi remoti, dietro di lei generazioni di spiantati le hanno insegnato a conservare sempre qualcosa per tempi ancora più brutti.

Ines sporca dai piedi al capo gioca per terra, Caterina non tenta neanche più di farla alzare, si muore di sete. Già una volta ha fatto riempire sul binario d’una stazione la sua bottiglia di vetro, non vuole scendere troppo spesso …ha paura che il treno riparta senza di lei! Comincia a preoccuparsi, Giuseppe sarà alla stazione di Parigi? Avrà ricevuto la sua lettera?

Di notte, Caterina distrutta non si rende neanche conto dell’arrivo nella capitale francese, soltanto il cigolio dei freni arriva a fare uscire Caterina del suo torpore. Freneticamente si alza, svegliando Ines addormentata tra le sue braccia, già i passeggeri fanno la coda nel corridoio centrale.

Stava lì! Giuseppe il suo capello nero in testa, vestito e camicia bianca della domenica aspettava sul binario. Caterina si getta tra le sue braccia, in silenzio piange, esausta. Abbracciata tra i due adulti Ines anche lei piange, non riconosce quell’uomo che le mette i baffi umidi nel collo!

Epilogo:

Dalla gare de Lyon (Parigi) a Vitry sur Seine ci sono 9 chilometri che si fanno con il tramvai tirato da cavalli, Giuseppe ha trovato nella via principale di Vitry un piccolo appartamento al n°21 del boulevard Lamouroux. Un viale largo e bello  dove passa il tramvai, la strada fiancheggiata da due spaziosi marciapiedi pieni di alberi, le case sono tutte di uno o due piani.

E’ quasi un anno che Giuseppe lavora a Parigi come giornaliero, in questo febbraio del 1889 Caterina con la sua piccola famiglia inizia una nuova vita.

Per più di due anni, prima di ritornare a Rota, i Paglia rimarranno nella periferia della capitale francese in piena trasformazione, 1889 anno del Esposizione Universale, con l’inaugurazione della Torre Eiffel, Parigi vuole essere la capitale mondiale del modernismo.

La seconda figlia, Maria, nascerà lì nel dicembre 1889.

Amici di Rota della coppia Paglia: Francesco Pizzagalli e la moglie Lucia Paglia di Caguarinone, abitano al n°15 del bd.Lamouroux. La loro figlia Rachele, bambinella di 5 anni, due mesi prima dell’ arrivo di Caterina era deceduta a Vitry, un’altra Rachele nascerà lì nel dicembre 1890.

Anche questa Rachele, si sposerà con un Paglia e nel 1913 sarà con  suo marito di nuovo a Vitry sur Seine!

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Lorena

Regione amministrativa e storica del nord-est della Francia, la Lorena confina  al nord col Belgio e il Lussemburgo, a nord-est con la Germania;  è suddivisa nei dipartimenti di Meurthe-et-Moselle, Meuse, Moselle e Vosges.

Il Pays Haut (Paese alto), nella parte alta del dipartimento della Meurthe e Moselle, è composto da elementi: il bacino di Longwy a nord e quello di Briey a sud (dove nasce il grande Michel Platini, suo nonno fu minatore).

La Francia nel 1870 ha subito dall´Impero germanico una dolorosa disfatta militare: due regioni confinanti: Alsazia e una parte della Lorena vengono annesse, la Moselle una delle province lorene,  cede la sua industria e il suo carbone alla Germania. Un po’ più a ovest il Pays Haut non è interessante per il vincitore, il minerale di ferro è troppo ricco di fosforo,  l’acciaio prodotto troppo fragile.

Il Pays Haut diventerà dunque la nuova frontiera con il nemico e avrà l’incarico di produrre il ferro mancante dovuto all’amputazione della Lorena. Avrà, per raggiungere quest’obiettivo, l’obbligo di accogliere migliaia d’immigrati.

Già prima della crescita dell´industria siderurgica lorena numerosi operai italiani lavoravano come sterratori e muratori nell´edilizia, generalmente impiegati nei lavori i più penosi. La sconfitta del 1870 genererà, nella regione est, un grande bisogno di manodopera per la costruzione di nuove strutture militari, lo sviluppo delle ferrovie e lo sfruttamento delle miniere. L’industrializzazione e l’urbanizzazione delle città francesi alla fine del XIX secolo provocò un’enorme richiesta di manodopera straniera, amplificata da un declino demografico ancora più forte in Lorena che da secoli era regione traversata dalle invasioni.

Nello stesso periodo le leggi sociali impediscono ai bambini minori di 12 anni e anche alle donne di scendere nelle miniere, due fattori in più che favoriscono i primi reclutamenti di manodopera straniera, presso i belgi, lussemburghesi, tedeschi, olandesi, ma rapidamente anche in questi paesi si sviluppa l’industria.

Il minerale di ferro loreno è comunemente chiamato minette, diminutivo della parole mine (miniera) dovuto alla su debole tenore di ferro (una media di 30%). Il territorio ferrifero soltanto di Longwy, il più piccolo in Lorena, rapresenta 8000 ettari. L’estrazione, in questa zona, in genere si faceva a cielo aperto, ma rapidamente si passò alla tecnica evoluta con lo scavo di gallerie alte e larghe dal fianco della collina. Il minerale di ferro estratto nelle miniere lorene, ha la particolarità di essere fortemente ricco di fosforo (2%) specificità che rende l’uso dell’acciaio prodotto molto limitato.

Dall´alto forno esce la ghisa, metallo duro ma che si spezza facilmente, difficile da lavorare. All’inizio XIX secolo, per ottenere l’acciaio la ghisa riscaldata a 1300°, pastosa, era martellata (puddellaggio) metodo che permetteva una defosforazione “naturale”. Dal 1858 l’acciaio sarà prodotto maggiormente dal processo Bessemer ma inefficace con le ghise fosforose.

La scoperta del processo Thomas nel 1879 permetterà la defosforazione della minette lorena. Questa invenzione fu una rivoluzione per la produzione d’acciaio loreno, che permetterà il passaggio dallo stadio di artigianato all’industria siderurgica.

Sidney Thomas è un giovane inglese che lavora come commesso in un tribunale londinese, la sua passione per la scienza lo conduce verso la metallurgia, scoprirà un nuovo modo di rivestire i forni, con mattoni refrattari resistenti ad alte temperature.

aciéries de Longwy

Acciaieria di Longwy, inizio ‘900

Oltre a  produrre un acciaio malleabile, il forno Thomas genera delle scorie con alto contenuto in fosforo che diventerà un ottimo fertilizzante per le terre troppo sabbiose, risultato molto importante per Thomas, generoso filantropo. Il brevetto entrò nel dominio pubblico nel 1895.

Il giacimento minerario loreno fu considerato uno dei più importanti del pianeta, il dipartimento della Meurthe et Moselle produrrà il 90% del ferro francese nel 1910 e la ghisa  meno cara del mondo.

Nel 1905 ci sono più di 32000 italiani nella Lorena tedesca e 15900 nella Lorena francese.

La gran parte dei migranti italiani sono veneti, piemontesi, lombardi, marchigiani ed umbri, spinti oltre che dalle motivazioni economiche anche dalla paura del fascismo:  dopo il 1920 infatti si accentua la venuta d’italiani.

Prima del 1914 l’immigrazione italiana in Lorena si concentra nel centro nord della regione, nei due dipartimenti di Meurthe et Moselle e Moselle. I primi italiani sono segnalati nelle miniere nel 1882, difficile quantificare, infatti soltanto dal 1893 in Meurthe et Moselle, gli stranieri hanno l’obbligo di farsi registrare nei comuni.

La miniera, fu il primo posto di lavoro per i migranti, prima del 1914 più della meta dei minatori del ferro sono italiani nel Pays Haut. Attività molto pericolosa, le condizioni di lavoro sono deplorevoli, la roccia viene frantumata con un esplosivo, i blocchi di minerale caricati su dei carrelli tirati da cavalli o spinti dal l’uomo, non c’è ancora la meccanizzazione, tutto si fa a mano. Le miniere di ferro lorene furono per molto tempo senza investimenti per la sicurezza. Incidenti (1) causati dal distacco di blocchi, crollo di gallerie, polvere di roccia o i fumi degli esplosivi provocavano malattie dei polmoni, l’umidità, la sorte del minatore è poco invidiabile. Le buste paghe, non erano mai in conformità a quello che l’operaio si aspettava, premi, ritenute (per gli attrezzi, la polvere, la miccia, il carburo, ecc…), le multe, inoltre il minatore era retribuito a cottimo e la quantità di minerale uscito non corrispondeva mai alla quantità pesata fuori. Tra le richieste (sciopero del 1905) i minatori volevano un controllore nominato da loro per verificare il peso. E sembrava cosi ingiusto pagare i contributi per una pensione che loro non toccheranno perchè  volevano ritornare nel loro paese…

Alla fine del XIX°secolo, il francese lascerà il suo posto nella miniera all’italiano per andare negli stabilimenti siderurgici. Dopo la prima guerra mondiale, l’italiano a sua volta  lascerà la miniera ai nuovi arrivati, tra gli altri i polacchi, per concentrarsi nei lavori della produzione e la trasformazione dell’acciaio, l’edilizia ed anche il commercio.

 

(1) Tra le due guerre, un minatore di ferro su due è vittima di un incidente sul lavoro determinando la necessità di una sosta superiore a quattro giorni. Ogni anno, su 1000 operai di una miniera di ferro lorena, 4 o 5 rimangono uccisi e 37 rimarrano invalidi per la vita. – Gérard Noiriel “Les Ouvriers sidérurgistes et les mineurs de fer dans le bassin de Longwy-Villerupt” (1919-1939), tesi di storia, Università Paris VIII – 1982.

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Ines
(1887-1976) – Figlia di Giuseppe Paglia e Caterina Angiolini, moglie di Antonio Invernizzi

 

(Narratore) Rota Fuori-1910

Infine, un po’ di tranquillità, Pepino nella sua culla si è assopito, i suoceri sono andanti a letto, Ines gira la rotella della lampada a petrolio per fare uscire lo stoppino e  l’accende. Una timida fiamma illumina la stanza, il fragile tubo di vetro rimesso al suo posto e la camera rallegrata dalla luce lascia vedere i due bellissimi comò a quattro cassetti, la parte superiore, il piano, squisitamente decorata da un mazzetto di rose dipinto, l’occhio delle serrature attorniato da una piastra di metallo finemente cesellata, il letto matrimoniale di noce assortito affiancato da due comodini, tutti mobili nuovi fabbricati da poco dal falegname Manzoni. Una buona parte del risparmio fatto da Antonio nel corso del suo primo viaggio in Francia fu speso nei primi mobili della giovane coppia. Questa stanza da letto è la fierezza di Antonio. Poco più di un anno che con Ines si sono sposati e lei questa sera è sola e non ce la fa a godere pienamente di questi belli arredi.

Davanti alla specchiera, regalo di suo padre, Ines si passa la mano nei capelli, cercando le spille, le ritira, la sua abbondante capigliatura liberata cade sulle sue spalle. Ad Antonio piace cosi tanto vedere i suoi capelli corvini, è vero che con i suoi occhi blu cosi chiari, il contrasto è sorprendente, Ines non ha tutte le caratteristiche di una bella donna, ma ha questo fascino indefinito di un viso aperto dai tratti semplici.

Seduta sul bordo del letto esce della sua tasca la lettera ricevuta oggi, la prima di una lunga seria che Antonio le scriverà. Un brivido le traversa la schiena, si rialza, il suo scialle è nel secondo cassetto del comò, si copre le spalle, il freddo è caduto in

un colpo in questa fine di novembre. Di nuovo Ines spiega la lettera, una scrittura maldestra le svela qualche cenno di una vita lontana e laboriosa:

Cara moglie,

Sono arrivato a Longwy, il viaggio è lungo ma è andato bene, la Svizzera già è coperta di neve. Il capo che aveva l’anno passato subito mi ha ripreso nella sua squadra, il Bartolomeo Pelaratti se n è andato nell’acciaieria e l’Arrigoni, lo Sperandio, ha trovato un posto alla fonderia, si guadagna di più. Ho dovuto trovare un’altra cantina, non c’era più posto dal Dinasi, sempre a Herserange ma un po’ più lontano dal lusine (1). Il lavoro va bene, c’è molte ore da fare, anche la domenica. Spero che il piccolo Peppino stia bene, saluta il tata e tutta la famiglia.  Tuo marito, Antonio – 6 novembre 1910.

Ines ripone il foglietto, piegato nella sua busta, nel secondo cassetto del comò, la dove si mettono le carte. Pensosa, non ce la  fa a immaginare Antonio cosi lontano, una cantina? lusine? Per lei parole sconosciute, cantina: sì, si mangia, bene, ma dove dorme? Lusine, Antonio prende piacere a mischiare parole straniere al parlare della valle, già le ha spiegato di questa fabbrica, dove si lavora il minerale per fare il ferro, sarebbe come la filanda? Più grande?

E’ tardi, domani si dovrà lavorare, a letto.

 Ines et Pepino

Ines Paglia con Pepino, 1911

 

In un attimo Ines si cambia, indossa la sua camicia di notte, s’inclina sulla culla, Peppino respira con calma, tranquillo nel suo sono. S’infila tra i freddi e ruvidi lenzuoli di lino, è lei che ha tessuto i pezzi di panni, li ha assemblati e ne ha cuciti tre paia per il suo corredo.

Appena nel letto non riesce  a impedire ai suoi pensieri  di vagare nella lontana Francia, il suo Antonio, questa regione al confine con la Germania.

Non si ricorda niente, era cosi piccola, fanciulla di due anni quando lei, con i genitori, nel 1890 ha vissuto a Parigi, qualche volte nella sua mente si mischiano il vissuto raccontato dalla madre con quello che le sembra di  riccordare, il treno, la folla nelle vie della capitale francese, non, è soltanto la sua fantasia. Ines ha la testa bene a posto, conosce la  realtà, sono i racconti di sua madre, Caterina,  a cui piace  narrarle i due anni passati in Francia, sono questi racconti che fanno lavorare l’immaginazione di Ines.

No, no si ricorda di niente, la città di Vitry sur Seine, paese attaccato a Parigi. Caterina l’estate lavorava da un ortolano o faceva le pulizie dai Signori Roccard, Giuseppe il suo papà era sterratore. Pensieri che vagabondano, Antonio, la Francia…, dopo questa giornata bene riempita, Ines non tarda ad addormentarsi, una leggere bruma ovattata la fa scivolare nei sogni riempiti di viaggi, di luoghi lontani.

Il pomeriggio seguente uscendo dalla filanda, Ines passa in fretta alla farmacia gestita dai  Signori Daina  per i quali Ines lavora dall’età di quattordici anni per comprare la medicina per la sua suocera. La filanda  è in contrada Torre ed è la principale per non dire l’unica fonte di lavoro, Dal suo matrimonio vive in casa della famiglia di Antonio a Cagguacio, sotto la chiesa, le piaceva di più la grande casa dei suoi genitori al Prapelitone, adesso quasi vuota. Suo suocero Giuseppe Maria Invernizzi è un bravo uomo oltre a  lavorare la sua terra fa anche il sacrestano alla chiesa di Rota Fuori, ha rivoluzionato la sua casa per lasciare una stanza al suo primogenito e alla sua piccola famiglia. Non era nemmeno immaginabile che suo figlio andasse ad abitare  in un altro posto, in più Antonio non avrebbe neanche l’idea di contraddire suo padre. Le sorelle di Antonio: Livia e Rosa di 20 e 15 anni, si sono spostate in una cameretta sistemata nella piccola mansarda al secondo piano per lasciare la loro stanza alla coppia.

Ogni tanto Ines  fa un salto al Prapelitone  a salutare i genitori, ma soprattutto vuole ritrovare la sorellina Orsolina, adesso sola dopo la partenza in pochi mesi, delle sue due sorelle Ines e Maria, quest’ultima entrata nel convento di Santa Grata in Bergamo.

Orsola anche lei fra poco partirà, ha trovato un posto di serva a Milano. Benché siamo in novembre, tempo del ritorno, Rota sempre si svuota, c’è sempre qualcuno che parte..

 

(1) Lusine : l’usine = la fabbrica, stabilimento industriale

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amici di Rota

 Amici di Rota, Longwy 1910: da sinistra: Masnada, Francesco Pelaratti, Giovanni Cortinovis, Luigi Pelaratti, Sperandio Arrigoni, Giovanni Pelaratti

 

 Francia-Herserange 1914

Quasi due anni sono passati da quando Ines con tutta la sua famiglia ha raggiunto Antonio in Francia, un secondo figlio è nato a Rota nell’aprile 1912 e  tre mesi dopo: la partenza. L’arrivo in questa lontana regione di Francia fu caricato d’emozioni, ritrovare suo marito: Antonio da mesi non visto, di più in Lorena si trova Maria, la sorella di Antonio, moglie di Giovanni Quarenghi e tutti quelli di Rota, tutti operai in questa fabbrica gigante. Ines rimane impressionata dalla quantità d’uomini che l’officina sembra mangiare al cambiamento di posto, per centinaia s’imbocca nelle diverse porte, poco dopo nell’altro senso escono quelli che hanno finito il loro turno, la maggior parte di corsa, tutti sono sporchi, tanti si fermano nei bar, anche qui il vino è diventato una piaga. Ogni passo, ogni cosa nuova che vede Ines ne resta stupita, in questa valle c’è sempre del rumore, la fabbrica non si ferma mai. Anche di notte si sente lo spostamento dei vagoncini, cigolamenti dei freni, le siviere di metallo in fusione o di loppa d’alto forno si spostano e si svuotano, vapore d’acqua, i bagliori delle colate di ghisa illuminano la notte, il caricamento dei forni provoca delle nuvole di fumo, arancione o grigio secondo i prodotti.

Ines aiuta la sua cognata Maria che  gestisce una cantina, dove ci sono quattro operai che dormono lì in permanenza, ma a mangiare sono di più, Ines lava e stira i panni dei pensionati e  di altri, con la carriola, caricata di un canestro va alla fontana-lavatoio a lavare i vestiti, la principale via del vieux village (paese vecchio) ha mantenuto il suo aspetto antico, benché a qualche centinaio di metri dalla fabbrica, questa parte di Herserange sembra ancora, per il momento, un tranquillo paesino di campagna e come in tutti paesini loreni i mucchi di letame sono posti davanti casa, in mezzo sulla strada. L’odore e il liquido che cola non sembra disturbare la gente, è vero che per i contadini francesi il letame è un modo di fare vedere la ricchezza, più il mucchio è grosso più ci sono mucche…

Nell’agosto 1914, gli italiani devono partire, il conflitto che sta per scoppiare, fa paura a tutti, la frontiera tocca Longwy. L’amministrazione provinciale teme di ritrovarsi con migliaia di straneri senza lavoro e gli operai italiani pensano con inquietudine di essere arruolati a forza nell’esercito tedesco, la Germania è alleata dell’Italia.

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Un’altra donna della valle Imagna si occupava degli operai: Caterina Sibella, nata nel 1899 a Valsecca, detta Galette, moglie Mazzucotelli (di Rota F.). Nel 1922 si occupava della pensione per celibi, proprietà della fabbrica, a Landrivaux (contrada di Herserange).

Il ragazzino Giuseppe (il piccolo Pepino figlio d’Ines) solo con suo padre Antonio Invernizzi andrà  a vivere in questa pensione, ancora bambino: 12 anni! Dopo le giornate di lavoro nel lusine, troverà lì un po’ di calore umano, la tenerezza di Caterina, lui non la dimenticherà mai, mezzo secolo dopo la vecchia Sibella lo chiamava: “Pepino” è lui sorrideva…come un bambino.

 Longwy 1931

Longwy 1931

 Italiani in Longwy
 XIX°secolo.

Longwy e i suoi dintorni sono una successione di strette valli e colline boscose, il minerale di ferro è dappertutto, a fior di terra. Dal paesino di Moulaine scorre il ruscello omonimo che prende  il suo nome dai numerosi mulini scaglionati sulle sue sponde. Le sue acque colano rapidamente per arrivare in pochi chilometri al luogo detto Senelle (Senel deriverebbe della parola germanica “snell” che significa veloce) sul comune di Herserange e di là arriva a Longwy.

Da tempi antichi, la metallurgia nella contrada di Moulaine ha lasciato tracce, il minerale d’origine per lo più alluvionale era trattato con il carbone di legno, numerose fucine fabbricavano armi e attrezzi. Nel 1828 la famiglia d’Huart possedeva una fucina nel luogo, ma le fucine lasceranno il posto ad alti forni, se ne conoscono tre nel 1850.

Il ruscello Moulaine si butta nel fiume Chiers a Longwy,  lungo  tutto i due corsi d’acqua tra 1880 e 1914 s’ingaggia una frenetica corsa alla produzione d’acciaio . Diverse società impiantano degli stabilimenti sempre più grandi, tutta la catena di produzione dall’estrazione della materia primaria al prodotto finito esce da terra. Nelle strette valli tutto in lunghezza si erigono cokerie, alti forni, fonderie, acciaierie, laminatoi ecc…

Parliamo soltanto del bacino di Longwy, ma questo fenomeno locale è da moltiplicare per 5 o per 10, tutta una regione si sveglia, gli alti forni si moltiplicano, i record di produzione ogni anno sono vinti. La battaglia dell’acciaio è lanciata!

Mancano  soltanto le braccia… un irrefrenabile bisogno di manodopera si fa sempre sentire. L’Italia diviene rapidamente il principale fornitore di minatori e operai.

I maitres de forges mandano dei reclutatori in diverse regioni d’Italia, modo di operare che favorisce il raggruppamento d’operai della stessa regione o degli stessi paesini, la legge Crispi del 1888, legittimerà il ruolo di questi agenti reclutatori. Dal 1911 il comitato degli imprenditori della siderurgia Lorena crea a Chiasso un ufficio per centralizzare i reclutamenti, si apre anche a Milano un ufficio per l’immigrazione verso la Francia, la Svizzera e la Germania. Saranno migliaia contadini e operai a lasciarsi sedurre dallo specchietto per le allodole.

Alla fine del XIX secolo la localizzazione delle province di partenza, per la Lorena, vede al primo posto Novara, Varese, seguito di Bergamo, giovani operai di un’età media di 25 anni, pochissime donne. L’80% di quelli che iniziano in una fabbrica, escono prima di aver lavorato un anno. Uno studio realizzato sui registri del personale d’una miniera Lorena rileva, nel periodo 1906-1945, 28000 cognomi diversi inscritti come dipendenti, quando il numero dei minatori non ha mai superato 1800 persone. (M.C.Harbulot – 1977).

Senelle 1928

Stabilimento di Herserange, 1928

 

Si potrebbe spiegare questo turn-over dal fatto che la maggioranza dei migranti italiani è di famiglie contadine e quelli consideravano il lavoro in fabbrica come un complemento di quello agricolo e non uno scopo finale.

Sappiamo in più, nel caso della Valle Imagna, che la necessità di migrare è un fenomeno conosciuto da secoli, per una grandissima parte  le migrazioni furono stagionali da marzo a ottobre, questo modo di vita si perpetua di generazione in generazione, forse possiamo dire che il bisogno, nei secoli, è anche diventato una tradizione?

Sul comune di Herserange un primo alto forno fu costruito nel 1847 da Henri-Joseph d’Huart sul luogo dove in precedenza c’erano i mulini di Senelle. Nel 1883 i figli d’Huart fondano, in collaborazione con una società del nord della Francia, la Société metallurgique de Senelle Maubeuge. La produzione d’acciaio rimarrà modesta fino al gennaio del 1910, quando entra in produzione l’acciaieria Thomas.

Prima del 1919 c’erano due squadre di 12 ore, per 6 giorni di lavoro.

I tedeschi tra 1914 e 1918, occupano la regione, i due primi anni, le fabbriche possono lavorare, ma dopo la situazione cambia e l’occupante organizza il sacco dell’industria e spoglieranno gli stabilimenti siderurgici di Longwy. I tedeschi per colmare la mancanza d’operai nelle miniere devono impiegare migliaia di prigionieri russi. Nonostante tutto subito dopo la capitolazione tedesca, tutti: imprenditori e operai, si mettono al lavoro e già nel giugno 1919 i primi alti forni sono riaccesi.

Tra 1919 e 1936 si lavorano 56 ore settimanali. Nel 1930 a Senelle, un operaio guadagnava da 26 a 30 franchi al giorno. Nel 1929 nello stabilimento di Senelle si trovavano: 1120 francesi, 730 italiani, 250 polacchi, 400 belgi-lussemburghesi, 86 slavi e 466 “altri”. Tra 1900 e 1930 Longwy fornirà il 30% della produzione nazionale d’acciaio.

I diversi stabilimenti siderurgici hanno dovuto costruire degli alloggi (cités) per le loro maestranze, solitamente isolate dagli autoctoni e all’esterno del centro del paese, abitate secondo la nazionalità, ma anche secondo la classe sociale. Le cités (1) sono uno schieramento monotono di case tristi e senza anima, ma per l’epoca rappresentava un progresso, dopo le catapecchie, baracche, pensioni, l’immigrante fu felice di trovare una casa con l’elettricità, il gas, l’acqua corrente, un giardinetto. Le grandi fabbriche avevano a disposizione del loro personale un gran negozio per la vendita di generi alimentari e tanti altri prodotti per la casa. La società Senelle Maubeuge nel 1924 fece anche costruire la chiesa di Herserange.

La presenza italiana nel comune di Herserange è notevole, nel 1924, due bar su venti sono  gestiti da italiani, nel 1931 sono 13 su 30 esistenti.

A Longwy, s’impianta il fascismo, negli anni 1920 l’agenzia consolare italiana aiuta allo sviluppo di diverse associazioni culturali o sportive, ma l’ideologia fascista è li…Anche attraverso e con l’aiuto dell’Opera Bonomelli e della Missione Cattolica Italiana, il governo italiano estende la dottrina fascista, ma numerosi preti italiani hanno saputo distaccarsi delle teorie mussoliniane. Per contro si crea nel 1929 la “Liga Italiana dei Diritti dell’Uomo” e diverse associazioni antifasciste comuniste e socialiste. Il confronto tra le due frazioni sul suolo francese dispiace molto alla popolazione francese.

La crisi economica degli anni trenta provoca la partenza di 23000 stranieri del Pays Haut. Il 6 maggio 1932 il presidente della Repubblica Paul Doumer è ucciso da Pavel Gorguloff, un profugo russo. La stampa si scatena contro gli stranieri e si sviluppa un antisemitismo spaventoso. Fu un clima di alta tensione, la Francia era circondata da paesi fascisti, Germania, Italia, Spagna, ma nel 1936 la sinistra si impadronirà del potere.

 

(1) Nel bacino ferrifero si parla di “cités”, per le regioni, dove si sono le miniere di carbone, gli alloggi operai si chiamano “corons”.

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 Italiani nei conflitti francese

Si potrebbe fare una macabra contabilità per rilevare i soldati francesi caduti in terra italiana e i combattenti italiani deceduti oltralpi, ma non è lo scopo di questo lavoro e non avrebbe senso. Voglio trattenermi, solamente un attimo, sugli uomini italiani  che volontariamente (è quello l’importante) hanno combattuto per amore d’una terra che non li ha visti nascere,  o che, soltanto per un bisogno d’avventura,  sono venuti a difendere la  Francia.

Come Giuseppe Garibaldi, accanitamente attaccato alla sua seconda Patria (come lui  dice) affezionato al valore di liberta e di democrazia, numerosi sono gli italiani innamorati della terra di Francia venuti  a combattere l’egemonia germanica.

Possiamo ricordare la presenza, nel corso della guerra del 1870 contro la Prussia,  del mitico eroe dell’indipendenza arrivato in Francia nel mese di ottobre con i figli Menotti e Ricciotti. Radunerà qualche centinaia di combattenti italiani raggruppati con altri volontari di tutte le nazionalità, assaliranno le truppe prussiane, nel novembre 1870 ci saranno due violenti combattimenti nell’ est della Francia. L’aiuto garibaldino non cambierà il corso della storia, ma ridarà un po’ di onore alle autorità francesi.

Quaranta anni dopo la storia si ripete, agosto 1914, inizio della Grande Guerra, migliaia di volontari stranieri si arruolano accanto ai soldati francesi, gli italiani saranno i più numerosi. I sei figli di Ricciotti Garibaldi sono li, nell’autunno 1914 Peppino Garibaldi sarà alla testa d’un battaglione di circa 2000 volontari, il 4°reggimento di marcia del 1°straniero (legionari). Vestiti con la camicia rossa, saranno ingaggiati alla fine del dicembre 1914 in Argonne, nella battaglia di Bolante, il 26 dicembre Bruno Garibaldi cade sotto il fuoco nemico. Un altro fratello, Costante, trova la morte il 5 gennaio 1915 nel combattimento della valle di Courte Chausse, lo stesso giorno in questo luogo il soldato Bartolomeo Rota originario di Corna in Valle Imagna scompare.

Arriviamo nel 1918, tra aprile e novembre il II° Corpo d’Armata italiano comandato dal tenente generale Alberico Albricci avrà un ruolo decisivo nell’ultima parte del conflitto.

Sono 4581 i soldati italiani sepolti in Francia, caduti tra 1914 e 1918. Possiamo aggiungere a questo macabro conto i 184 soldati italiani sepolti in Lorena , morti in cattività, censiti da M.Louise Antenucci.

In più del sopracitato soldato Bartolomeo Rota (1880-1915), hanno perso la vita in Francia, nativi della Valle Imagna, i soldati: Battista Manzoni (1890-1915) nato a Berbenno; Bartolomeo Salvi (1884-1914) nato a Rota Fuori; Paolo Mazzoleni (1890-1918) nato a Selino.

 Il 12 marzo 2008 ha visto la scomparsa d’un uomo eccezionale e voglio fermarmi sul destino unico d’una persona che illustra perfettamente il cammino percoso per cambiare una vita. Eccezionale per la sua longevità: avrà vissuto 111 anni, eccezionale per il fatto di essere l’ultimo combattente francese del primo conflitto mondiale.

 Lazzaro Ponticelli è nato a Groppo Ducale al sud di Piacenza nel 1897, l’estrema miseria spinge  sua madre ad emigrare in Francia con i tre figli  più grandi. Lazzaro, (4 anni) rimane al paese con il padre che morirà poco dopo. Il bambino deve lavorare per sopravvivere, il suo unico pensiero risparmiare per pagare un biglietto di treno, vuole raggiungere i fratelli a Parigi.

Fanciullo di 9 anni quando arriva, da solo, nella capitale francese, analfabeta farà tutti  i mestieri fino al 1914 quando arriva la guerra, mentendo sulla sua età si arruola nella Legione straniera e combatterà nell’Argonne. Nelle sue memorie racconta la vita nelle trincee, episodio commovente:

Dal suo rifugio sente i gemiti d’un soldato rimasto ferito tra le due linee nemiche preso nei fili spinati: «I barellieri non osavano uscire. Io non ne potevo più. Ci sono andato con una pinza. Sono subito caduto su un ferito tedesco. Mi ha fatto due con le dita. Ho capito che aveva due figli. L’ho preso e portato verso le linee tedesche. Quando loro si sono messi a sparare, ha gridato di smetterla. L’ho lasciato vicino alla sua trincea. Mi ha ringraziato. Sono tornato indietro, verso il ferito francese. Stringeva i denti. L’ho trascinato fino alle nostre linee con la sua gamba di traverso. Mi ha abbracciato e mi ha detto: ‘Grazie per i miei quattro bambini’.»

Nel 1915 fu chiamato alle armi dal governo italiano, andrà a combattere nel Tirolo con il terzo reggimento alpino, sarà smolbilizzato nel 1916 dopo essere stato ferito.

Il ritorno per la Francia si farà nel 1921, naturalizzato francese, nel 1939 allo scoppio della guerra di nuovo si arruola e participerà alla Resistenza contro l’occupazione tedesca.

Con i suoi fratelli fonderà un’ impresa, oggi diventata di livello internazionale, specializzata nelle perforazioni petrolifere.

Come altri ultimi sopravissuti della Grande Guerra, Ponticelli (nel 2005) rifiuterà i funerali di Stato: «Rifiuto questi funerali di stato. Non è giusto che spettino solo all’ultimo sopravvissuto facendo un affronto a tutti gli altri morti senza avere gli onori che meritavano …»

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 La cronologia di questo racconto lascia il posto alla famiglia di Lidia, fu lei ad aprire gli occhi del narratore su le “due foto”. Lidia fu la nuora di Ines, donne diverse nelle loro culture, nelle loro carattere, tante cose le separano, ma non hanno altra scelta che unirsi sotto la piuma del narratore.

Un giorno si scopre un agenda riempita d’una scrittura maldestra, Lidia vecchia donna, affrancata per la sua vedovanza, da libero corso al suo bisogno di raccontare la sua giovinezza, infanzia troppo corta. Testimonianza commovente sulla vita d’una ragazzina che deve aiutare la madre sola, il padre in Francia. Testimonianza sulle vite di donne che portano, a mezza vita, una famiglia.

Anche loro, le marchigiane, prenderanno il lungo cammino. L’immaginazione del narratore avrà poco da fare, Lidia e anche due delle sue sorelle hanno bisogno di esprimersi, di raccontare. Tanti anni dopo, Lidia, Elia e Mafalda rubano al narratore il piacere di ricreare questi pezzi di vita, le vecchie donne con un certo talento, fanno un ritorno in dietro.

Come le sorelle Bronte, le tre Alesi, scrittrici dilettanti, descrivono la loro vita in provincia di Ancona, le bambine degli anni’30 si preparano per il grande viaggio e scoprono l’Eden. Visione idilliaca, invidie semplici, un pezzo di cioccolata o l’acqua corrente in casa bastano per vedere un mondo più bello.

Lasciamo un piccolo posto anche al padre: Ernesto, anche lui un personaggio particolare. Un figlio nella Regia Marina italiana morto in guerra, colpito dagli inglesi;  la sua coscienza di padre percosso, due anni dopo, lo porta a dare rifugio ad aviatori inglesi nonostante la triste sorte del figlio e la minaccia tedesca.

 

 Aloisio Domenico “Luigi” Alesi (1829-1908)

 (Narratore) – Nelle Marche.

Una detonazione strappa il silenzio della notte, un’ombra furtiva sembra scivolare tra gli alberi, un gemito e un uomo cade.

A cento passi della sua casa Domenico è allungato nell’erba umida, le mani sulla pancia, grida: << aiuto >> ma nessun suono esce della sua bocca, il sangue scorre abbondantemente dalla sua ferita.

Una mattina smorta sta per alzarsi, la freddolosa giornata di novembre comincia male per la famiglia Alesi, Luigi ha sentito lo sparo, ha capito subito, esce di corsa è quasi subito trova il fratello, le sue gambe si flettono, le sue ginocchia  urtano il suolo, urla:

Maledetti Conti! Vi odio!

Una macchia scura si stende sulla camicia bianca di Domenico. Portato a casa dal fratello, morirà mezz’ ora dopo sul tavolo della cucina familiare. Teresa, la madre dei due fratelli, benchè da tempo abituata di vedere la morte avvicinarsi: ha visto partire gia 7 dei suoi 14 figli per l’altro mondo, anche suo marito morto nel 1854, isterica, piangendo si strappa i capelli. Vedendo Luigi staccare il fucile sospeso al muro balza sul figlio e deve fare un sforzo incredibile per agguantare il collo del primogenito per trattenerlo. Prima gridando, la sua voce si fa più calma e spiega che non si può, è lui l’unico che rimane per sostenere la famiglia, basta i morti, la vendetta non è possibile. Madre e figlio abbracciati piangono in silenzio, solo le lacrime laveranno il sangue versato.

In casa dei Conti i carabinieri di Arcevia non troveranno nè il fucile nè Giovanni uno dei figli, la brutta storia cominciata da tempo tra le due famiglie, troverà infine una  apparente pace con la morte di Domenico.

Le terre confinanti delle due famiglie in contrada Torre furono  sempre il motivo dei vari conflitti,  una quercia caduta sul terreno dell’altra famiglia, il Roccolo, terreno controverso, area di caccia dei due fratelli Alesi,  provocherà parole troppo alte, insulti, minacce. La prepotenza degli Alesi, i ricchi di S. Apollinare, prestiti, cambiali, vendite oscure di terre, il tutto va infiammare il giovane Conti, tragedia comune, ‘invidia e cupidigia.

All’epoca di questo triste evento del 1880 Luigi ha 51 anni e non è sposato, la scomparsa del fratello, anche lui celibe, lascia intravedere  cattivi auspici per la famiglia Alesi. Teresa, la madre uscita dal letargo dovuto al lutto si da un gran da fare per trovare moglie al figlio. Lei che lo voleva prete!

La famiglia benestante, doveva la sua agiatezza all’ alleanza con i Santini, borghesi del Palazzo di Arcevia, per il matrimonio del nonno di Luigi: altro Domenico con Anna Santini.

Dal loro unione nascerà Sante che diventerà prete ed il padre di Luigi: Paolo, lui dopo avere studiato troverà un posto di segretario comunale a Poggio San Marcello dove si trasferirà.

Don Sante lui rimasto alla Torre fu in carica della parrocchia di S. Apollinare e farà costruire nel 1828 un’ imponente casa, la “Villa”. La dimora padronale aveva sul tetto una torretta dove era collocata una campana, cosi il prete non doveva uscire per suonare la messa. La chiesetta di San Salvatore era a qualche passo. La casa con le terre e tutti beni degli Alesi andranno a Luigi.  Anche lui, Luigi, aveva vestito la tonaca,  ricevuto la tonsura ed era pronto a rinunciare al mondo, il seminario però gli aveva aperto gli occhi e prima di arrivare al sacerdozio aveva capito che la vita del clero non era per lui, la sua fede gli sembrava forte ma lui era uomo della terra e amava i piccoli piaceri quotidiani, i giochi della domenica con suoi amici. Si vedeva spesso a caccia sulle sue terre il signorotto di campagna, vestito di velluto con stivali e fucile a tracolla, o al roccolo a tendere le grande rete per prendere gli uccelletti.

Infatti i piccoli piaceri col tempo diventeranno più grandi, la scomparsa dello zio prete seguita da quella del padre, lascia i fratelli Alesi troppo giovani, con dei bisogni troppo alti! E cosi il patrimonio familiare s’assottiglia, le dote per le figlie che si sposano, incassi che non si fanno, pezzi di terre venduti, raccolti scarsi, la guerra con l’arrivo di Napoleone III,  le tasse.

Tutti questi pensieri girano nella mente di Teresa, cercando la donna che darà stabilità al figlio rimasto.

Ma la ricerca non fu semplice, in campagna tutto si sa, l’omicidio di Domenico, la condotta di Luigi, ci vorranno 2 anni per trovare Rosa Baldoni la brava moglie, che scomparirà anche lei, lasciando vedovo Luigi con 3 fanciulli. Avrà 62 anni quando nel 1891 Luigi si sposò di nuovo con una bella vedova di 28 anni! L’anziano seminarista non perderà tempo per fare 3 figli di più.

Il felice padre prendeva piacere a portare con lui i figli a caccia, lo svelto Ernesto si ricorderà bene delle sue corse, quando il padre sparava, per raccogliere la preda, facendo a gara con il cane.

 

Ernesto (1892-1983) – figlio di Luigi, marito di Albina

 

(Mafalda) – A casa, lui bambino,  c’era il pane bianco, dietro la cucina c’era una stanza con il forno. Allora soltanto le famiglie benestanti mangiavano pane bianco, mentre i contadini quello nero, fatto con la farina di ghiande. A mio padre piaceva, ogni tanto, scambiare con un suo amico la sua bella fetta di pane bianco con una pagnottella nera.

(narratore) – Il suo fratellastro, il primogenito Paolo, morirà in Francia nel 1908 a 21 anni, lavorando nella miniera di ferro di Bouligny in Lorena. Poco dopo, lo stesso anno, Luigi, il padre, scompare colpito da un infarto.

Ernesto si ritrova dunque all’età di 16 anni a capo della famiglia, la situazione familiare è pessima, si sono accumulati molti debiti,  sono stati costretti a vendere dei terreni per dare la dote alle sorelle. Ernesto aveva imparato presto a lavorare, sapeva potare le viti e riuscì a tirare avanti la famiglia.

Prima del 1914, è costretto anche lui a emigrare per  sostenere la sua famiglia, andrà in Lorena, ma nella parte annessa ai Tedeschi.

La guerra inizia nel 1914, di ritorno al paese Ernesto si sposò con Albina Conti, l’Italia a suo turno entra nel conflitto e il giovane sposo fu chiamato alle armi il primo giugno 1915 e partì con la 7a.Compagnia di Sussistenza in Albania. Ospedalizzato per malaria a Matelica, fu congedato per riforma nell’ ottobre del 1916.

Al la fine delle ostilità comincia per Ernesto una lunga seria di viaggi per la Francia.

 Ernesto moulin scories

Ernesto Alesi: il terzo dalla destra, stabilimento di Senelle “molino a scorie”

 

(Mafalda) – Avevo poco più di un anno quando mio padre, assieme al suo amico Guido, decise di emigrare di nuovo in Francia. Dopo la fine della guerra le frontiere erano chiuse, soltanto qualche clandestini riusciva ad entrare. Con un mezzo fortune arrivarono a Senigallia, poi con il treno a San Remo. Si diressero a piedi verso Limone, poichè avvicinandosi al confine i treni erano controllati. Era stato detto loro che ci fossero delle guide che in cambio di denaro, li avrebbe accompagnati oltre la frontiera. Una breve ricerca e trovarano un tale che li prese in consegna e li fece nascondere in un fienile, dove erano altri uomini in attesa. Si caricarono sul fieno per riposarsi, prima dell’alba arrivò la guide, furtivamente e in gran silenzio li fece uscire. Furono assaliti da un vento gelido, la neve gelata scricchiolave sotto i loro piedi, una lieve caligine copriva ogni cosa come un velo. Gli uomini cercavano di stare uniti, camminavano svelti, erano quasi tutti molto giovani, abituati a tutte le fatiche, ma questo tragitto su delle mulattiere scivolose dal gelo superava ogni resistenza. A volte qualcuno cadeva, doveva rialzarsi subito se non voleva rimanere indietro, il freddo era intenso. All’improvviso la guida vide tremolare una lucetta nel buio, intimò un alt sottovoce, poi rivolgendosi agli uomini angosciati disse: <Ci sono i doganieri, la frontiera è vicina.> Indicò loro la direzione <Scappate e corette, io devo tornare indietro> Detto ciò, si allontanò correndo e li abbandonò al loro destino. Gli uomini terrorizzati si sparpagliarono in tutte le direzioni. Mio padre prese la corsa, andando nella direzione giusta, vide le luci di un villaggio, pensò di averla scampata. Invece un doganiere che l’aveva inseguito lo fermò, mio padre parlava francese, cosi potè communicare; il doganiere vuole sapere perchè ci teneva tanto ad entrare in Francia, allora lui le disse della guerra che aveva portato tanta miserie, della moglie e dei figli che aveva lasciato in casa nel bisogno, lui voleva lavorare per mandare loro del denaro. Il doganiere che era una brava persona, gli diede buoni consigli e gli indicò la via da seguire per non essere preso, poi lo lasciò andare. Giunto a destinazione trovò subito del lavoro e persone che gli fecero avere subito il permesso di soggiorno. Seppe che il suo amico era stato rimandato indietro con il foglio di via.

(narratore) – Ernesto lavorava ad Esch sur Alzette (Lussemburgo) a pochi chilometri da Longwy, lascia questa città per andare nell’ aprile 1924 in Francia, nei laminatoi dello stabilimento di Senelle in Herserange, nel mese di giugno passa al servizio del mulino a scorie a cucire i sacchi per l’imballo del prodotto da spedire. Seguono numerose andata e ritorno per l’Italia:

Uscita il 21 gennaio 1925, ritorno il 9 marzo 1925.

Uscita il 2 ottobre 1925, ritorno il 20 gennaio 1926.

Uscita il 7 giugno 1926, ritorno il 29 luglio 1926.

Partenza il 10 febbraio 1927, lavorerà per un po’ nello stabilimento siderurgico di Homecourt (aprile 1931) a sud di Longwy. Dal suo passaporto sappiamo che passa la frontiera a Basilea il 10 settembre 1931 rimarrà in Italia fino al 6 novembre 1931, per ritornare di nuovo nella sua precedente fabbrica di Senelle. Ritornerà un tempo in Italia il 2 agosto 1937.

Paura all’annuncio della dichiarazione di guerra con la Germania, tutta la famiglia parte per Italia il 28 settembre 1938. Ma la situazione sembra stabile dunque tutta la famiglia ritorna in Francia il 22 novembre 1938. Ernesto ritrova il suo posto di lavoro al mulino a scoria di Senelle, ma per poco tempo, la situazione politica lascia prevedere la guerra, la famiglia riprende la strada per l’Italia, passando la frontiera il 1 aprile 1939. Quello sarà l’ultimo viaggio, eccetto Lidia ormai sposata, tutta la famiglia Alesi rimarrà definitivamente in Italia.

Ernesto andrà a  lavorare nella miniera di zolfo a Cabernardi, fino  a quando nel 1941 Minchinello, il contadino a mezzadria sulle sue terre, trovò da lavorare in un altro podere.

Nelle pagine seguenti si potrà leggere la scomparsa di suo figlio Luigi, marinaio al servizio della sua patria che morirà nel 1941, quando la sua nave viene colpita dalla marina inglese.

Nel 1944, un aero inglese è abbattuto nelle Marche, i partigiani nasconderanno ai tedeschi gli aviatori sopravvissuti, cambiando spesso  rifugio. Un giorno arriveranno in casa di Ernesto, che li ospiterà, uno di loro fu J.A.Pretty tenante della Royal Air Force.

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 Condizioni di vita

Il bisogno, manifesto, di manodopera prima del 1914 fu ampiamente aggravato all’uscita della Prima Guerra Mondiale. La quantità dei giovani uomini francesi deceduti (1,3 milione di morti) provoca di nuovo un appello di lavoratori stranieri, la Lorena regione devastata ha perso  il12% della sua popolazione.

Nel censimento del 1921, gli italiani presenti in Francia sono 451000, in pratica quasi un terzo della popolazione straniera.

Per la posizione italiana accanto agli alleati nel 1915, la visione dei francesi si è modificata, la comunità italiana appare culturalmente più vicina che le nuove migrazioni che arrivano dall’Est.

Nel 1926 la presenza italiana in Lorena, ripresenta il 43% della popolazione straniera.

A Auboué nel 1930 si sono 50 bar, dai quali 45 tenuti da italiani. In Mosella alla fine degli anni ’30,  l’85% degli italiani attivi lavorano nelle miniere o nell’industria siderurgica.

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I primi migranti arrivati vivono in cantine, pensioni, baracche di legno, senza luce, ne acqua, quasi nessun mobile, letti sopraposti, lo stesso letto per diversi operai che fanno i turni, promiscuità spaventosa, in una camera fatta per 2 letti sono accumulate 8 persone. Baccani italiani o francesi, non tutti, ma numerosi a sfruttare lo smarrimento degli spaesati.

In tutta la Francia, tra 1880 e 1890 vedono giorno gravi conflitti tra operai francesi e italiani.  Il gravissimo caso di Aigues Mortes nel 1893, i lavoratori stranieri affluiscono ogni anno per la raccolta del sale, un alterco tra autoctoni e italiani degenera, si affrontano e ci saranno ufficialmente, 8 morti e 50 feriti italiani (altra fonte: Times: 50 morti). Il flusso massico è male accolto, sono “stranieri che rubano il lavoro degli operai francesi“…ma sono anche i primi ad essere licenziati in caso di difficoltà. Il presidente della Repubblica Francese: Sadi Carnot fu assassinato nel 1894 dall’anarchico italiano Caserio, fatto che non migliorerà la situazione.

Problemi amplificati poichè l’italia fu alleata alla Germania (1882), il nemico ereditario della Francia. Il migrante fu spesso il capro espiatorio d’una situazione politica difficile o nel periodo di crisi economica.

Pierre, contadino loreno, racconta nel 1892:

Questi lavoratori, italiani per la maggior parte, vivono in tale condizioni che molti altri già si sarebbe rivoltati. Sono ammassati in delle cantine, occupano in 6 una piccola camera che dovrebbe, in principio, servire per un celibe. Dormono dove si può, i poveri, quasi sempre sul suolo, in un locale mai riscaldato, sotto una sola coperta. I bagni sono all’esterno, nel fondo del cortile e non si deve riguardare loro stato di pulizia per usarli. In inverno, per avere più caldo, questi poveri tipacci si stringono uno contro l’altro come gli animali nelle stalle. Per comporre il loro pasto, queste cantine lì non arretrano dinanzi a niente. Per dire vero, è da la loro installazione che tutti gatti del settore hanno scomparsi! (…) Si può pensare che questa gente ha una robusta costituzione, un giornalista ha scritto: << nei dintorni, le bestie morte di malattia non sono seppellite è trovano la loro sepoltura nello stomaco degli italiani…>>

italiens Herserange 1934

Italiani di Herserange per il Triduo Pasquale del 1934, con Mons.Babini vescovo italiano.

 

Non avevano neanche il soccorso della chiesa, le leggi del 1881 imponevano la scuola laica e nel 1905 è ufficializzata la separazione della Chiesa e dello Stato, in questo periodo che corrisponde all’arrivo massiccio dei migranti italiani, la Chiesa francese è in posizione debole, i preti francesi si disinteressano di questi nuovi arrivati, la barriera della lingua, le tradizioni diverse lasciano un vuoto che il vescovo di Cremona Monsignor Bonomelli, nel corso del suo viaggio in Lorena nel 1912, non mancherà di rilevare.

Sulla fine del XIX secolo il sindacalismo francese, nazionalista e xenofobo, rifiuta gli stranieri, le leggi segregazioniste impediscono allo straniero di avere responsabilità sindacale (1884), l’assistenza medica gratuita è riservata ai soli francesi (1893). In caso d’incidente sul  lavoro alla famiglia dello straniero, che non risiede in Francia, non tocca la pensione d’invalidità prevista. Si dovranno  aspettare i trattati bilaterali (1904-1906) tra Italia e Francia per vedere qualche miglioramento.

Il primo sciopero notevole avrà luogo nel Pays Haut nella miniera di Hussigny nel 1903 seguita del’espulsione di diecine d’italiani. I minatori italiani, con l’aiuto di compatrioti venuti dall’Italia, portano avanti le loro rivendicazioni. Oriundo di Genova, Tullio Cavalazzi, militante dell’Umanitaria partecipa nel 1905 al organizzazione dei primi scioperi importanti a Longwy tra il 29 giugno e il 17 agosto. Rivolte represse dai “Dragons” (cacciatore a cavallo) ci sarà un morto, un operaio belga, Nicola Huart, gli agitatori licenziati e espulsi. Ci saranno 4000 soldati  di stanza a Longwy.

La stampa e l’opinione pubblica non tollerano questi stranieri che si ribellano, oltre a  venire a “mangiare il pane dei francesi” vogliono delle condizione di vita dignitose!

Un manifesto nel maggio 1910 fu incollato nelle vie di Villerupt, cosi tradotto:

<< … Un orso nero, scappato d’un serraglio di Milano ruggisce nelle vie di Villerupt, vivendo di pigrizia sul conto di operai ignoranti, protetto dai senza patria, quest’orso di Tullo bandito Cavallazzi. Tocca a  voi, signor Sindaco … di fare fuggire il vampiro briccone…>>

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 Lidia

figlia di Ernesto Alesi, moglie di Giuseppe Invernizzi

 

Il mio nome e mio padre che la scelto, Alesi Ernesto nato il 22 maggio 1892 a Torre di Arcevia, mia mamma Conti Albina nata il 15 marzo 1896 Arcevia.

Mia nonna paterna viveva con noi, Catanza Anna, nata al Montale di Arcevia, nata nel 1861. Mio nonno Alesi Luigi nato nel 1828 S.Donnino, morto nel 1908 Arcevia.

Il giorno della mia nascità avevano finito di vendemmiare e arrivata mia nonna la sera e lei che a fatto da levatrice, nonna materna, Palmira Conti, nata Bartoletti, 1870. Dopo qualche giorno mi hanno portato battezzare, madrina mia nonna Palmira, padrino don Pasquale, prete della parrocchia di S.Apollinare. Prete che o bene conoscuito, in questa parrocchia che mi sono cresmata, fatta la prima comunione verso i 10 anni.

 Penso che la prima infanzia sia passata bene, ero la prima nepotina dei miei nonni e zii.

Il 4 marzo 1919 è nato mio fratello Alesi Luigi.

Il 4 settembre è nata mia sorella Alesi Zena (Dina) 1920.

Il 5 marzo 1922 mia sorella Mafalda.

Il 21 luglio 1924 mia sorella Elia.

Il 27 febbraio 1928, Esilde.

Il 12 giugno 1932 mio fratello René, Francia, Longwy.

Ricordo bene la nascita di Esilde, la malattia di Elia al l’orecchio e mamma che non aveva il latte per Mafalda. Devo dire che già allora avevo la responsabilità delle sorelline e fratello prima dei 7 anni. Andavo a prendere l’acqua alla fonte (con l’orcio in testa), il latte per Mafalda dal contadino. Per fare dormire i bambini ero una specialista, cantando ritornelli e dicendo: Fai la nanna, se la figlia viene come la mamma papa buona può venire. Fai la nana cocca di mamma … canto imparato da nonna.

 Il matrimonio di mio zio Domenico, fratello di mio padre, con la sorella di mia madre, zia Stella, ma lasciato un ricordo dei cavalli, che ne ho ancora paura, il giorno delle loro nozze, erano sciolti nel cortile.

Ricordo il mio primo giorno di scuola a Palazzo con la maestra Odetta, prima elementare 1923.

Con questa maestra sono andata 2 anni, prima e seconda elementare, restavo con lei tutto il giorno e m’insegnava cucire e fare la calza. mi voleva bene e sua mamma mi regalava un bel paniere di …….. e per la prima volta, ma fatto delle fette del pane con il burro, come erano buone, a casa nostra latte e burro non c’erano. C’era più pane e vino.

Il ricordo dei primi sette anni è questo.

 Zio Domenico e zia Stella sono in Francia, nel frattempo  i muratori, si prepara la casa a mia nonna, per mia zia che ritorna dalla Francia. Mio zio lui si era imbarcato per li America e fine del 1923. Io sembra che non ero contenta che veniva mia zia Stella, eravamo già tanti a mangiare e nel 1924 avevo 7 anni, eravamo 5 figli e ora vivevamo da soli cosi ero già una piccola mamma. Mamma era sempre nei campi, mio padre ora era in Francia e quando era a casa era un gran lavoratore e faceva tutti lavori, dal falegname, contadino, boscaiolo, calzolaio.

Nel 1925 hanno aperto una scuola per i contadini, cosi la terza lo fatta alla Torre, dentro casa, era una coppia di maestri e come esperienza hanno fatto scuola 3 mesi di estate, cosi a 9 anni fatta la quarta elementare avevo finito. La quarta elementare lo fatta al Palazzo e la quinta era in Arcevia ma non era per le femmine (mio fratello lui la messo in Arcevia)

 Dai 7 ai 14

Ormai ero grande, mia nonna mi portava con lei al Montale a vedere sua sorella Letizzia, mi portava alla Madona del Cerro. Nonna mi imparato tante cose, imparato lavorare, andavo con lei raccogliere l’erba, lei era una grande filatrice di canapa, con quella conocchia sputava tutto il giorno. Quando era la neve, ma con il sole, lei si metteva contro un muro e filava delle ore e risparmiava la legna, nel suo camino che faceva il fumo.

A nonna ci piaceva ballare, la musica, il profumo, la domenica si metteva nel 31 e andava forse a messa, ma fare un giretto vedere le sue amiche. Zia e mamma che la criticava, non erano contente che la suocera andava a spasso un ora.

E morta nel 1945 a 84 anni, era una donna pulita che lavava molto e con il suo lavoro a allevato una nepote, fatta grande e sposarla, con tanto corredo, Francesca la mia cugina.

 1925, la quarta elementare lo fatta al Palazzo con la maestra Elisa. Finito l’anno scolastico mia madre mia a imparato tante cose, andavo con lei, al fiume lavare i panni, come era dura quella pietra, si lavava in ginocchio e la canestra si portava alla testa. Si andava prendere l’acqua con l’orcio e un vecchio asciugamano serviva per fare una spece di corona per mettere sulla testa.

Non era difficile e infine ero un esperta per correre con questo orcio senza tenerlo, nel fianco pure ero brava, ma forse lo risento ancora alla parte sinistra. Come una grande curavo i miei fratelli e sorelle, restavo seduta con loro delle ore per farli dormire e cantare. Facevo bene la pasta, ma come trovavo lungo farla e fare il sugo era un grosso problema. Mi piaceva giocare e spesso il lardo bruciava e quanto gridava quando mia mamma arrivava vicino mezzo giorno, era tanto stanca, bruciata dal sole, ma io ero una bambina, come le altre.

 Mio padre era speso in Francia e veniva ogni anno, per esempio per le vendemmie, con una grossa valigia, piena di regali, ma molti vestiti per lui, io lo trovavo bello e molto elegante, povera mamma!

Quando mio padre riprendeva il treno a mia mamma il lasciava un bel grosso regalo: aspettava ancora un bimbo, quante volte cosi? Forse tre o più.

Mia mamma lavorava molto, ma forse di più delle sue forze, voleva fare come sua sorella, ma lei aveva solo due bambini. Un pò di gelosia in famiglia, nei Conti c’era, anzi erano una famiglia con tanta ambizzioni, tutti, mio zio Giulio e le mie zie Adele, Gemma, Teresa, Stella. Ce n’era uno che non aveva nessuna ambizzione, era nonno Serafino, amava il buon vino, il letto, poco lavoro e morto il 28 ottobre 1931.

 Il 28 ottobre 1931, tutto era pronto per partire in Francia. ma in quest’occasione venne dalla Francia due delle mie zie per le funerale, cosi mio padre fatto il funerale, riparti solo per la Francia. Alla porta del cimitero, come era l’abitudine, mio padre distriburra l’elemosina (cosi si diceva) ma dato 2 lire, che bello avere due lire, ero grande, avevo portato la candela e avevo pregato, avevamo detto lo rosario.

La pratica religiosa per me era importante e seguivo sempre le più grandi (qui da piccolina) amavo molto i canti, le processioni. Nelle campagne si portava la Comunione ai vecchi, si seguiva il prete con tutti suoi ornamenti. E una processione, non ricordo bene, se è il corpo S.Domini, mettevamo i petali di fiori per terra, era gli insaccati, i prete con un grande ombrello. Era una ceremonia particolare, per avere il buon tempo bello nelle campagne, credo per allontanare la grandina, il temporale. Il canto era in latino, devo dire che non conoscevo il significato, ma era bello quel canto, in cuore con le amiche e seguiva la più grandi

Dai 7 anni ai 14, seconda tappa della vita, per una nata nel 1917, dove in quella epoca i bambini lavorava e molto. Penso di avere imparato tutto per una futura vita di donna. Dato la situazione di casa nostra dico imparato (e non lavorato) per esempio mi piaceva fare il pane con mia mamma, che festa quando si batteva il grano, che corre, dare bere la gente, fare da mangiare. Tutta una festa era l’uccisione del maiale, fare tutto la salata, mangiare tanti pezzetti di carne, una vera festa mangiare, polenta, grassi, sangue, tutta roba del maiale.

L’inverno eravamo vicino al fuoco nel camino e imparavo fare la calza con un lumignolo a petrolio. Era una festa quando c’era mezzo chilo di castagne, quando mio padre era a casa c’era più abbondanza. E dimentico il carnavale, era la festa, le cresciole, castagnole e vicino si ballava e dicevamo: “oggi e carnavale ogni burla vale”.

Nelle serate d’inverno, nonna raccontava, che lei vedova a 28 anni (era la serva di un prete). Un giorno il disce: vole sposarti Anna, un mio amico vedovo con tre figli, a tanto bisogno di una donna, ma cia 62 anni, tu saresti adatta! e poi è ricco, cia una bella casa, la terra, olio d’oliva, il buon vino e i proscuitti e fano il pane bianco.

Si sposò nel 1891 e mio padre è nato nel 1892. Il 22 maggio 1894 mia zia Ersilia, nel 1897 mio zio Domenico. Capisco ora perchè amico del prete! A suo tempo erano entrati in seminario assieme. Solo nonno Luigi era uscito dal seminario poco prima di dire la prima messa, ma di questo fatto aveva una certa cultura.

Il primo matrimonio era avenuto a 52 anni, erano nati 3 figli, Paolo morto in Francia, Colomba e Emilia. La casa dove abitavamo la lasciata un suo zio prete (zio Sante) e lui che la fatta costruire verso il 1789, 200 anni! Sempre cosi bella, a me tanto cara…

I primi 14 anni ma marcato per la vita.

 Mamma spesso ascolta e poì capisco, non è contenta che parliamo con mia nonna, che l’ascoltiamo, si può dire. Nonna racconta che gli Alesi non vanno d’accordo con i Conti, infatti hanno avuto qualche problema fra loro.

In particolare hanno dovuto cede un pezzo di terreno ai Conti e nonna Alesi non li perdona. Gli anni passa e un giorno mio padre incontra mia madre, la sera dice a mia nonna (a sua mamma): “non è mica male quella Conti, è intignata ma simpatica”. Nonna dice: “A no! Tutto il male che cia fatto!”. Il tempo passa e nonna dice: “La sposi a condizione che ci ridà la nostra terra”. E cosi fu fatto, si sono sposati nel maggio 1914 e nel 1922, zio, fratello di mio padre, sposò la sorella di mia madre e cia ristituito tutta la terra, il campo dello Roccolo. I Conti sono diventati molto amici degli Alesi. Ma ogni tanto hanno avuto di problemi per i terreni, sempre risolti.

 Il 27 settembre, 14 anni. mio padre è venuto dalla Francia quell’anno, per la vendemmia, ma era pure amante dl buon vino. E in casa erano i preparativi, la sarta faceva i vestiti. Il calzolaio ma preso la misura per le scarpe (era Cirillo) me la fatte largue la forma del piede, di vacchetta, erano dure, ma doveva durare. E morto nonno cosi siamo partiti con le due zie venute dalla Francia in quello occasione (zia Adele, Gemma e figli).

In quella mattina del 14 novembre 1931 avemo salutati i parenti e amici, lasciato la nostra terra e casa dove sono nata. Tutti gridavano a Senigallia, il mare, quanta acqua! Il treno, non potevo pensare, che sarebbe corso per le campagne, città, montagne fino in Francia.

Era una giornata di sole, mi sono seduta davanti la libreria Pieron. Intanto lì era l’incontro con gli zii, hanno deciso che c’era chi andava dormire da una zia, chi da un’altra. Io sono andata da mia cugina Iolanda al village di Herserange nel lettino di Fulvio, era corto, ero lunga, ero stanca, e o dormito. Che bello, buono il croccante alle nocciole.

 Penso che due giorni dopo tutta la famiglia riunita Cité de la Fontaine, n°3 Longwy. Babbo aveva preparato delle vecchie masserizie, c’era da dormire per tutti. Trovavo strano il colore della terra (nera). Il fumo di tutti (quei forni, penso) che usciva della faiencerie e d’usine, era freddo, gelato. Le mie sorelle e fratello sono andati a scuola e per me hanno deciso che imparassi la sarta, ma qui la mentalità era che si doveva lavorare, cosi a gennaio 1932 sono andata lavorare alla faiencerie, ero svelta e mi piaceva lavorare.

Mamma era sempre che non stava bene e infine ho capito, mio fratello è nato il 12 giugno 1932. Ricordo che la sera lavavo i panni, mio padre li faceva bollire e io li dovevo resiaquare, con quella lessive bollente, avevo le mane rosse, mezze brusciate. Mio padre faceva la pastasciuta tanta buona, ma era un uomo pazziente, ci faceva sempre ridere.

 Ce un fatto che lo ricordo sempre, aveva comprato un vecchio buffè lorain, riempito di tutto, un giorno quel buffè è caduto. Esilde era per terra, ma si è ritenuto nel tavolo, cosi lei si è salvata, ma per terra c’era pasta, riso, vino, olio, cafè, via di tutto. Mamma era disperata, senza soldi, con i figli. Ma detto: “tu sei la più grande, vai dalla signora Monti (l’épicière) dirci se ti segna su libretto e cosi siamo andati avanti, ma facevamo sempre i conti e ben presto avemo ripagato contanti. Davanti casa nostra cera sempre tante bambine, ma erano brave a scuola sempre le prime, e non ce stata difficoltà per la lingua hanno subito parlato bene, io un pò meno, ma già lavoravo bene da sarta e a 14 anni mi facevano fare dei vestiti. Le mie sorelle le o vestite sempre io e non solo una camicia, mutande, sottoveste e pantaloni, ero specialista per i calzetti, la maestra Odetta mi aveva imparato.

 Prima della fine del 1932 eravamo a Herserange, la Croix S.Jean, la casa era più bella, spazziosa, c’era il giardino, li si stava meglio.

Una amica mi a detto perchè non vieni lavorare con me? Cosi fece e cambiai lavoro, facevamo le camicie da uomo. Pure li un giorno ce ne capitata una, mamma non riusciva accendere la stufa, è cosi fa: mette nela stufa della benzina, cosi a preso il fuoco, a esploso la bottiglia e noi contro il muro terrorizzate, è venuto un uomo con un sacco a smarciato il fuoco, povera cucina, era tutta nera, ma noi tutti bene. Il terzo disastro, mamma a messo i fagioli nelle bottiglie e un giorno volendola aprire a esploso, lei è stata ferita al naso, e povero plafond, ancora la cucina sporca. Sono stata in Francia 7 anni, mamma era felice, ma babbo pensava sempre alla sua terra, a la sua vigna, al suo vino. Non voleva morire in Francia, lo diceva sempre.

 Cominciavo essere una bella signorina, 15 anni!

Il lavoro cucire a macchina mi piaceva molto e guadagnavo bene, mi volevano bene anche la capa. Il francese non parlavo bene, cosi il mio amico era italiano, e lui era come me, non sapeva parlare. Ero tutta felice quando lo vedevo, ma si vede che era una amicizia e niente altro e poi ogni tanto ero cortegiata. Ma un giorno è arrivato le prince charmant è ne ero inamorata è facile sposarsi a 16 anni e mezzo, non si conosce niente della vita, ma che follia! non capisco i genitori che ti fa sposare! Senza spiegarti, ogni paese ce una mentalità, altre abitudine, è duro abituarsi ad un altra vita.

Se fosse oggi direi a mia madre resta al tuo paese, farli sposare li le tue figlie, non cerca soldi. La vita dell’immigrante è troppo dura e dopo 50 anni non sono ancora abituata, sono felice i 2 mesi che passo a casa mia d’estate.

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 Partenza

 

 Nelle Marche

(Mafalda) – Preparato il passaporto tutto fu in regola e finalmente si decise la data della partenza. Quella mattina mamma controllò che fossimo pulite, ci fece vestire, la biancheria intima pulita, il vestito e il cappotto nuovo che una sarta venuta in casa ci aveva cucito a noi tutte, bambine.

Con noi erano zia Gemma con i figli Ilva e Bruno (una peste!) e zia Adele. Arrivammo a Senigallia, ci dissero che il nostro treno sarebbe partito nel pomeriggio inoltrato. Cosi la sala d’aspetto divenne un campo di battaglia, fagotti e fagottini a non finire. Noi bambine e mio fratello Luigi eravamo silenziosi e timidi, ma Bruno ne faceva di tutti  i colori! Zia Adele stava lontana da noi, tutta riccia e incipriata, con il cappellino, guanti e borsa, un contegno aristocratico, faceva finta di non conoscerci.

Il viaggio fu lungo ma piacevole, tutto il nuovo destava in noi curiosità. Finalmente arrivammo a destinazione, babbo ci aspettava e ci condusse a casa.

(Elia) – Un giorno venne alla Torre un fotografo, che avvenimento! Mamma ci fece mettere in posa. Il fotografo piazzò il suo treppiede, poi dopo numerose raccomandazioni: <<non vi muovete, sorridete> mise la testa sotto quel drappo nero per vedere se eravamo tutti nel mirino e scattò la fotografia che doveva servire per il passaporto.

Era stata la maestra a scegliere per noi un bel cappottino bianco ed io senza di lei non mi sarei mai sognato un cappottino cosi bello.

Nei primi di novembre lasciammo la Torre per andare in Francia. Era ancora buio quando mamma ci svegliò, eravamo tutti ansiosi di partire. Fatte di corsa le scale, in cucina c’era il fuoco acceso, il lumicino a petrolio la rischiarava appena. I bagagli a dire il vero erano fagotti, erano già pronti, non avevamo valigie noi.

Si doveva andare a prendere la corriera per Senigallia a molti chilometri di distanza, al passo del Piticchio. Per l’occasione un amico di babbo, il mugnaio, ci aveva prestato  il suo carretto. Mamma sempre agitata portava tutto sul carro, non ci si doveva scordare niente, tutti fagotti e bambini. Ricorderò sempre la fontanella alla fermata della corriera.

Non eravamo mai saliti su di un treno e mai visto il mare, eravamo tutti svegli per vedere tutte queste cose nuove.

Alla frontiera abbiamo avuto una sosta di qualche ora, vennero i doganieri è non fu roba da poco per controllare il passaporto con i nomi di tutti noi. Per i bagagli poi fu un impresa non facile, mamma si era portata via il caldaio tutto nero di fuliggine in un sacco poi la macchina da cucire, era a mano senza pedale. Previdente come era con tutti quei bambini sapeva che per cucire camiciole e mutandine era indispensabile.

Noi eravamo curiosi di vedere tutto quell’andirivieni, treni che arrivavano sbuffando,gente che scendeva, non avevamo mai visto niente di simile, il fischietto del capo stazione, dei locomotori. Mamma era agitatissima, ci chiamava, ci contava, ci raccomandava di non allontanarci, di stare vicino a lei. Finalmente salimmoi anche noi e il viaggio  proseguì bene.

Dopo molte ore di viaggio, stanchi e infreddoliti siamo arrivati a Longwy.

 Arrivo a Longwy

(novembre 1931)

 

 Longwy, cité la Fontaine

(Mafalda) – In questa nuova vita ci piaceva tutto, il pane aveva un sapore squisito, le persone d’una grande gentilezza. Le prime parole di francese ce le insegna mio padre, ci diceva, se qualcuno per strada vi dice qualche cosa, dovete rispondere:”Je ne comprends pas le français“. Io e Dina andammo subito a scuola, le insegnanti erano tanto care; le bambine nell’ora di ricreazione facevano cerchio e c’insegnavano a parlare francese, ci facevano mangiare i loro biscotti, la cioccolata. Nel giro di due mesi parlavamo correttamente la lingua e in classe io ero la prima, ossia la più brava.

(Elia) – Siccome non erano ancora pronti i letti per tutti io sono andata con zia Gemma a casa sua a Landrivaux, lei era già in Francia da parecchi anni, infatti Bruno è nato là, aveva la mia età. Le meraviglie per me non erano finite, aveva una casetta cosi carina. In cucina c’era una stufa accesa, con il carbone, i cerchi erano rossi, si stava bene. Zia mi ha preparato una tazza di caffè latte, non ne avevo mai bevuto, il pane francese trempè  è una delizia. Poi zia aveva sempre a portata di mano una tavoletta di chocolat.

Io che alla Torre avevo solo pane fatto in casa, spesso duro, il pane francese mi pareva biscotto. Alla Torre il latte non ce l’avevamo mai. I contadini te ne davano un bicchiere solo se si stava molto male, nessun avrebbe privato il vitello del suo latte.

Herserange

(Mafalda) – Il 1 guigno 1932 arrivò l’ultimo fratellino René, ora l’appartamento era troppo piccolo cosi ci trasferimmo a Herserange in Rue de la Croix Saint Jean.

Delle casette a schiera, davanti alla porta c’era la strada, sul retro e su un lato c’era un piccolo giardino, che babbo coltivava a orto e in un angolo una pianta di lillà e una di uva spina. Dal giardino sul retro si arrivava al bosco. A volte, nella radure mio fratello Luigi legava una corda sui rami più robusti, per farci l’altalena.

Quando arrivava la primavera con le sorelle, andavamo al bosco a cercare le fragoline rosse, molto saporite, e le more. Raccoglievamo anche mazzolini di violette, ogni tanto vedevamo qualche scoiatolo, con la lunga e soffice coda, saltare da un ramo all’altro. Alle nostre gridi gioiose in un attimo scompariva. Una volta nel folto del bosco ci trovammo di fronte un cerbiatto, ci guardò con un sguardo dolce e tenero, poi scappò.

(Elia) – Nell’ agosto siamo andati ad abitare a Herserange, Landrivaux. Abbiamo avuto una casa popolare alla Croix St.Jean, e di Senelle la società in cui lavorava Babbo.

Ci è molto piaciuta, c’erano 3 camere, la cucina con il gas, la cave per il carbone poi il grenier. C’è pure il giardino, ho letto che le case di questa via erano destinate ai chef dell’usine poi l’hanno date pure a noi stranieri. Però le famiglie dell’altra parte della via erano tutte francesi, tutte un pò più chic.

Dalla parte nostra c’erano polacchi, portoghesi, famiglie d’italiani di regioni diverse  perciò diverse anche nel modo di vivere, anche più povere perchè molti come babbo non avendo un mestiere guadagnavano meno.

La nostra era una famiglia numerosa, allora babbo per tirare avanti coltivava il giardino. Aveva preso dei lotti di terra che appartenevano a Senelle e che la direzione metteva a disposizione di chi voleva coltivarli. Cosi babbo piantava patate, carote, cipolle, aglio, insalata, insomma tutta la verdura per casa. Avevamo galline, conigli, anatre.

Dietro casa c’era un gran bosco, c’era un prato dell’erba, cosi la mia famiglia tirava avanti bene. Certo è che le francesi a scuola vestivano meglio, mamma voleva sempre risparmiare. Avevamo il vestito per la festa, ma si metteva solo la domenica per andare alla messa.

Come dicevo mamma si era comprata una macchina da cucire Singer. Disse di averla comperata con i soldi del sussidio che riceveva quando babbo era in Albania. Poche sapevano  cucire a quei tempi , per lei era indispensabile, era stata previdente  poichè ebbe molti bambini e cosi la macchina da cucire si rivelò molto utile per cucire camiciole e mutandine e forse qualche vestitino per casa. Allora non si conosceva la confezione. Per le mutandine non c’era l’elastico ma fettucce, quando ero piccola se si faceva un nodo con le fettucce ci voleva la pazienza di mamma per scioglierlo. Noi eravamo nell’entroterra (Arcevia) perciò non posso sapere se nelle maggiori città attorno c’era da vendere l’elastico, mamma lo scopri solo quando eravamo in Francia. Io fino al 1945 ho sempre portato camicie cucite in casa. Da giovanetta, le mie sorelle ed io avevamo imparato a ricamare così eravamo più graziose e i sceglievano tessuti più fini, a colori lievi, insomma più civettuoli.

Avevo un amica a Herserange alla quale delle volte vedevo delle magliette intime di flanella già confezionate, la madre era francese, lavorava, anche il padre guadagnava bene, vestiva bene le figlie. Ma a parte che penso che mamma ignorasse perfino l’esistenza di questo tipo di biancheria intima credo che non si sarebbe potuta permettere questa spesa. Lavorava solo babbo e mandare avanti una famiglia numerosa è difficile, poi teneva molto al risparmio.

Scuola

(Mafalda) –  Quando iniziò l’anno scolastico rimasi delusa e un pochino incuriosita nel vedere la mia nuova scuola. Erano tre costruzioni in legno con un grande cortile e una tettoia per riparaci nell’ora di ricreazione quando pioveva o si voleva stare all’ombra.

Ogni baracca aveva soltanto una grande aula, era bella, con due grandi lavagne, la cattedra e i tavoli con banchetti per noi scolari. Alle pareti vi erano grande carte geografiche, vi erano quattro finestre che davano un grande luce.

Per noi andare a scuola era una gioia, amavamo molto lo studio, dovevamo fare i compiti da sole poichè i nostri genitori non erano in grado di aiutarci. Le nostre insegnanti erano orgogliose di noi.

A 14 anni feci le mia prima Comunione nella chiesa di Herserange, nello stesso anno finivo la scuola dell’obbligo, andai a dare gli esami a Longwy-Bas. Ottenni “le Certificat d’Etudes”, in seguito andai dalle suore a L’Ouvroir, dove le suore insegnavano tante belle cose, c’era l’ora del cucito, dello stiro, della cucina ecc… Poi lezioni su come dirigere una casa.

(Elia) – A scuola le maestre sono state molto gentili con noi, abbiamo imparato con rapidità la lingua francese, c’era pure la refezione, ma noi eravamo abituati alla cucina italiana. Mafalda più di tutti si rifiutava di mangiare le loro minestre, per fortuna c’era tanta frutta, le arance, le banane, tutte cose nuove per noi.

Era molto più freddo, alla Torre avevamo la scuola in casa cosi non prendevamo freddo, ma là bisognava camminare, mamma ci copriva bene.

Prima Mafalda poi io abbiamo avuto la stessa maestra, io l’ho avuta fino a 14 anni. Con lei ho preso le Certificat d’Etudes poi “le Premier Ordre”, era un diploma che usava solo nella Lorraine.

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 Luigi – “Gigetto”

(1919-1941) – figlio di Ernesto Alesi

 

(Elia) – parlando del suo fratello Luigi, anni 1928/1929 – C’erano due ragazzi: Gigetto e Elio Caldarigi d’Alesi, erano molti amici, giocavano sempre insieme. Si arrampicavano sul pino che sta vicino alla casa (Torre), fumavano (sambuco) di nascosto come fanno tutti ragazzi. Facevano tanti progetti, sognavano l’America, dicevano: “andremo a raccogliere l’oro a palate”. Il padre di Elio, zio Caldarigi si trovava già là, ma la realtà era molto diversa di come ce l’immaginavamo. Lavorava in una miniera di carbone in Pensilvania, poi non so come, ebbe un grave incidente è rimase su  una carrozzella. Quando zio tornò in Italia, ormai si era rimesso e camminava (anche se un pò rigido)  così venne a trovarci a Herserange,  sbarcando a Le Havre. Sua moglie, zia Emilia era sorellastra del babbo.

Purtroppo Gigetto e Elio ebbero un brutto destino, il fato si  accanì su di loro, Gigetto  fu disperso in mare nel 1941 e Elio morirà nel 1942 per una malattia contratta quando era soldato, e stette male per  tanti mesi (tuberculosi).

(Narratore) – Arrivato in Francia con la sua famiglia nella fine dell’anno 1931, Luigi ragazzo di 12 anni fece un anno di scuola a Longwy,  dolce sognatore, farà l’apprendista calzolaio, riparerà le biciclette, farà il muratore, ma non   troverà il suo posto. L’epoca non era buona, la disoccupazione toccave anche la Lorena, con qualche piccolo lavoro Gigetto aiuta la famiglia ma i mesi passano è non riesce a trovare un lavoro stabile, non si rilasciavano  più i libretti di lavoro.

Ha voglia di spazio, l’Africa coloniale lo fa sognare, l’Etiopia, la Libia, le conquiste del Duce. Si lascia sedurre dall’ideologia fascista, con fierezza  indossa la camicia nera e concretizza la sua volontà di ritornare in patria at traverso la vita militare.

Lascia Longwy il 6 febbraio 1936, passando la frontiera per la galleria del Frejus raggiunge Pola dove farà la sua prima formazione militare nella Regia Marina fino al maggio del ’37. All’uscita ritorna in Francia per raggiungere i suoi parenti a Longwy, dove rimarrà qualche mese, nonostante le opposizioni della madre. Ernesto, il padre, teme le avventure mussoliniane ma capisce il figlio.

La sua scelta è fatta, Luigi nel novembre 1937 lascia la Francia definitivamente, varca la frontiera a Modane per imbarcarsi sul caccia torpediniere “Lampo”.

Spesso scrive ai suoi genitori, che nel frattempo sono ritornati in Italia, molto attaccato alla sorella Dina, scambia con lei commoventi lettere.

Tra 1938 e 1941 il marinaio marchigiano navigherà in Mediterraneo: da Venezia passando per Pola a Taranto, da porto Mahòn nelle Baleari a Barcelona, da Brindisi a Senigallia, da Durazzo in Albania a Rimini, da Napoli a Tripoli.

Le  avventure del sotto capo cannoniere Alesi  termineranno nel golfo di Gabes in Tunisia il 16 aprile 1941.

Il Lampo scortava un convoglio di cinque piroscafi tedeschi quando fu, nel buio delle due di mattina, colpito e incendiato dal nemico inglese. Il Lampo, feretro zoppicante, unico superstite dello scontro fu portato sulle secche di Kerkenah, la nave si adagiò sul fondo. Rimase arenata oltre due mesi nel golfo tunisino, bara provvisoria di Luigi e compagni.

Un giorno arrivò la nave ospedale Epomeo per rendere gli ultimi onori a queste vite strappate. Un testimonio descriverà:

“Il vento del deserto aveva cosparso il Lampo di sabbia, i piovaschi l’avevano battuto lavando la patina rossigna; il mare polverizzato dai frangenti … aveva imbevuto di salmastro quei corpi di marinai aggrappati ai cannoni ed alle mitragliatrici; il sole li aveva prosciugati; l’acre salsedine della Piccola Sirte … e l’alito del mare avevano preservato quelle membra giovani come in un sonno letargico …. Quei corpi di marinai sembravano ancora vivi quando, alle prime luci dell’alba, l’Epomeo venne ad ancorarsi più vicino e gli sguardi si fissarono su quella nave affascinante. I cannoni erano puntati ancora verso il largo, com’erano rimasti dopo l’ultima salva; nella torretta di poppa sei cannonieri stavano ancora uniti in un gruppo serrato; sull’alto della plancia un biondo ricciuto, dal viso intatto, stringeva la canna della sua mitragliatrice; un sergente e tre siluristi erano accanto ai tubi di lancio. Sparsi dovunque i resti di corpi straziati e mutilati.

Una squadra d’infermieri e marinai e un ufficiale medico trasbordarono sul Lampo. Ispezionarono il ponte di coperta, le plance ed i locali interni; salutarono commossi quelle salme rimaste ai loro posti, tra le lamiere squarciate e i rottami dispersi, e iniziarono l’opera pietosa, cercando di radunare quel che rimaneva dei corpi dilaniati e confusi dalla violenza del combattimento. Poi le salme vennero rimosse ed allineate in coperta per il riconoscimento; qualcuna fece resistenza come se volesse stare ancora la suo posto; alcuni corpi aderivano sulle lamiere come se vi fossero saldati e confusi in una comunione ostinata; furono quasi staccati per forza dal ferro della nave.

Tutta la giornata passò prima che l’ultimo fosse allineato sotto il cielo a fianco degli altri. Al tramonto i sacchi furono chiusi; ognuno ebbe un peso perché affondasse rapidamente e così vennero portati al largo per la immersione con gli onori militari e con un breve rito religioso.

Allora il Lampo rimase solo e deserto sulla secca di Kerkenah. Oramai non era più che un relitto di nave. Il suo equipaggio errava nel cimitero azzurro dove tanti altri marinai riposavano già, lontani dalle frenetiche competizioni, nella quiete profonda dove la vita si rinnova in creature meravigliose…. La pace è con loro e con tutti gli altri, alleati ed avversari, di ogni stirpe e d’ogni lingua, d’ogni fede e d’ogni bandiera”.

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 Il ritorno

 (Elia) – 1938

Si parla molto di guerra, in settembre erano state fatte delle prove per l’oscuramento. Un giorno Maria Bill la mia compagna preferita mi disse che le nostre scuole erano state occupate da soldati senegalesi, perciò le ragazze ne avevano paura e stavano chiuse in casa. Io in quei giorni avevo l’influenza ero stata a letto con la febbre e cosi non li ho visti. Siamo alla frontiera, la gente ha paura. Si vedono passare macchine che portano via dalle loro case le cose preziose.

Babbo decide di venire in Italia, Gigetto e imbarcato, se si dichiara la guerra noi siamo nemici per la Francia.

Arriviamo alla Torre, io non ricordavo quasi niente di come era nel 1931. Siamo stati due mesi, per noi è stata come una vacanza, c’era molta uva, fichi, frutta. In Francia l’uva era molto cara e cosi non si poteva quasi comprare, perciò qui ne abbiamo mangiata a sufficienza. Poi c’era il paesaggio cosi bello, l’autunno dai mille colori, per me era una vacanza.

Passato il pericolo siamo ritornati a Herserange, ma per tutto l’inverno non si fece che parlare che la guerra non era stata scongiurata del tutto solo rimandata. E cosi alla fine di marzo tutta la famiglia è tornata alla Torre, non ci restava altro da fare per il bene della famiglia, a malincuore abbiamo lasciato la nostra casa.

Nei mesi che seguirono mi sono resa conto della differenza che c’era, da come ero abituata fino allora al modo di pensare della gente di qui.

Poi non c’era la luce, nè la radio, non c’era l’acqua, il gas, il carbone, ma per fare da mangiare solo legna. Ero giovane poi babbo e mamma pensavano a tutto loro, cosi il cambiamento avvenne poco a poco.

Le notizie che arrivavano non erano buone, infatti Lidia e Gilbert sono arrivati in settembre, noi eravamo tornati ad aprile, cosi non abbiamo avuto il tempo di rimpiangere il cambiamento.

Il primo anno abbiamo diviso la cucina con il contadino che ci lavorava la terra. Babbo andò a lavorare a Cabernardi ma non in miniera, in superfice come manovale. Era una vita faticosa perche doveva fare tutta quella strada un pò in bicicletta poi tutto il resto a piedi. Cabernardi era lontana ci volevano 2 ore ad andare e 2 ore per tornare, d’inverno nel fango, l’estate sotto un sole cocente. Poi allora si guadagnava poco, il salario era basso, cosi per la nostra famiglia sono incominciati i disagi con pochi soldi.

bergamaschi Herserange 1933

 Bergamaschi di Longwy – 1933

 

Assimilazione ed integrazione

La grande maggioranza degli italiani migranti è d’origine contadina e il passaggio da un mondo rurale arretrato a una vita industriale è difficile, tutte cose complicate oltre alla barriera della lingua. Il modo di mangiare è diverso, negli primi tempi non si trovano i prodotti italiani. Benchè cattolici come i francesi,  anche il modo di praticare la  religione è  differente.

Gli anni passano, numerosi italiani del primo flusso migratorio sono ritornati in Italia, ma molti sono rimasti e sempre ci sono nuovi arrivi. I figli vanno a scuola e lì le differenze cominciano a cancellarsi, la scuola della repubblica, accanitamente attaccata alla sua laicità, mette tutti i suoi figli sulla stessa banchina, i bambini sono il legame tra le diverse comunità. Mano  a mano, ogni famiglia trova il suo posto, alcuni costruiscono la loro casa, nelle fabbriche i più talentuosi occupano posti di responsabilità. Certo le condizioni di vita rimangono difficili e gli stipendi bassi, ma la volontà d’andare avanti dei migranti italiani è riconosciuta da tutti, la loro capacità di lavoro è esemplare.

I figli si sposano, innanzitutto tra italiani, i matrimoni misti rischiavano di “alterare la razza” francese. Ma anche queste idee piano piano si smorzano, le nuove generazioni, i figli che escono della scuola sono uguali, solo la consonanza d’un nome oltre alpi fa capire la differenza. Scuole, associazioni sportive o culturali, vita professionale, il percorso degli italiani diventa uguale a quello dei francesi, con il tempo la distanza culturale, che sembrava insormontabile, scompare.

Basta vedere il numero delle naturalizzazioni per capire la volontà d’integrazione degli italiani:

Per gli anni 1919/1923: 4685 naturalizzazioni nei quali 1601 italiani (34%)

1931/1935: 51592 nei quali 28480 italiani (55%).

Il noto autore Pierre Milza rileva i morti (sui monumenti) della prima guerra mondiale: tutti sono cognomi francesi e dopo il secondo conflitto mondiale appaiono  molti patronimici italiani, numerosi sono  partecipano con la resistenza all’occupazione tedesca. La guerra d’Indocina e quella d’Algeria avranno la loro parte di caduti d’origine italiane.

Sul piano politico, nel 1959 nel dipartimento della Meurthe e Moselle ci sono 163 eletti d’origine italiana nei quali 79 comunisti.

La vita difficile nella siderurgia lorena ha sviluppato un fermento sociale, coniugato con la forte tradizione rivendicativa francese ha lasciato libero corso al sindacalismo e alla politica, questo lembo del nord della Lorena è diventato tra 1950 e 1990 un feudo della sinistra.

L’importante da ritenere è che l’impegno politico o sindacale è un segno che marca l’integrazione nella nuova società.

 L’altra generazione

Hanno sofferto! Nonni e genitori, tra 1880 e la seconda guerra mondiale non l’hanno sempre passata bene l’integrazione! Ma le generazioni sono passate, i tempi sono cambiati, il migrante ha lasciato il suo posto a discendenti nati e stabiliti nel nuovo paese.

Frutto di questa infinita transumanza, quello che scrive queste righe, vuole anche spiegare il ribollire di quelli che, come lui, hanno in loro due culture. Quello vivo oggi nato oltralpe, ha senza dubbio, l’anima francese, nel più profondo  si sente francese.

La Francia, invidiata da troppi italiani, la detta sorella latina qualche volte odiata da quelli che non la conoscono, tra realtà e immaginario ha accolto milioni d’italiani. I figli d’italiani nati in Francia sono, sempre più,francesi come  tutti  gli altri. La istintiva  volontà d’integrazione dei genitori italiani ha dotato i figli nati in Francia di un bisogno di riconoscersi sotto una bandiera, impregnati d’una cultura forte, d’una educazione e di valori riconosciuti da tutti.

Quello si doveva dire, ma sarebbe troppo semplice fermarsi là, le cose sono molto più complicate.

A quelli nati all’estero da genitori italiani arriva per tanti un giorno in cui la doppia cultura provoca molte domande. Un fenomeno, che probabilmente solo psicologo o etnologo potrebbero spiegare in  modo razionale. Una persona dopo 30, 40 o 50 anni di vita si fa la domanda cruciale… e le mie radici? Dove sono? Domanda ancora più forte quando i genitori sono scomparsi.

Recentemente un servizio televisivo parlava della comunità nera dei Stati Uniti, anche alcuni di loro sono alla ricerca delle loro origini, con le nuove scoperte del DNA gli Afro-americani, discendenti di schiavi, possono ritrovare la regione africana da dove venivano  i loro antenati e anche scoprire la tribu’ di appartenenza . Questa parentesi per sottolineare che le radici d’un essere sono un elemento fondamentale per la stabilità e il benessere della persona. Ma di quello pochi dei nostri migranti ci sono impensieriti, le preoccupazioni erano altre: lavorare, nutrire, vestire, educare la famiglia, costruire e arredare la casa.

Tanti di loro hanno anche completamente cancellato la loro vita anteriore, quanti non sono mai più ritornati nella loro valle natale? Profonde ferite hanno provocato il bisogno di chiudere gli occhi sul  passato, meglio dimenticare che soffrire in permanenza…

La terra di accoglienza, benchè qualche volte ingrata, è malgrado tutto la nuova patria.

I figli devono lavorare bene a scuola ” per avere una vita diversa dalla loro“, tutti si devono comportare bene per  non farsi notare “non siamo a casa nostra“,  per paura dell’espulsione.

Allora la nuova generazione deve fare fronte a problemi imprevisti dai migranti.

Conflitti di certi figli che si ribellano per la troppa sottomissione. Sentimento d’inferiorità dei figli: sentirsi straniero, inferiorità economica, il cognome male pronunciato dal maestro o in qualsiasi amministrazione, provoca l’angoscia davanti l’ilarità degli altri. Nel tentativo di francesizzare il nome del padre, Giuseppe diventa Joseph. Vergogna d’una madre che parla male francese e che troppo spesso domanda ed insiste per ottenere uno sconto dal commerciante. Non c’è cimitero dove si possono visitare i nonni, non si possono vantare i fatti di guerra dello zio…era dell’ altro fronte. Non c’è tradizione secolare che rinforza il sentimento rassicurante di appartenere a una comunità.

Niente n’è tutto nero neanche tutto bianco, il grigio dei sentimenti della maggiore parte di questa seconda generazione doveva essere evidenziata.

Nei luoghi dove gli italiani sono molto numerosi, per non dire anche in maggioranza, la cultura italiana esce di più. A qualche chilometri di Longwy, in una città nominata Villerupt i figli d’italiani, per lo più originari delle Marche e Umbria, hanno creato un festival del film italiano, d’un alto livello, dove illustri personaggi del cinema internazionale ci ricordano le nostre origini.

Don Camillo e il Remi di Senza famiglia hanno lasciato il posto a Fellini e Begnini.

 

In un altro paesino -S.Charles- quelli della Valle Imagna ci sono raggruppati e hanno costruito case, ma la loro presenza è rimasta sempre discreta. In tutti i paesi  che circondano Longwy non si contano  più le famiglie originarie della Valle Imagna:

Locatelli-Frosio-Rota-Bugada-Invernizzi-Cicolari-Carminati-Todeschini-Salvi-Franchini-Galeotti-Masnada-Arrigoni-Pelaratti-Moscheni-Cortinovis-Pelegrini-Mazzoleni-Manzoni-ecc… dei paesini di: Valsecca-Fuipiano-Rota-Berbenno-S.Omobono- ecc…

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  Bibliografia

– Vincenzo Marchetti e Lelio Pagani – “Giovanni da Lezze. Descrizione di Bergamo e suo territorio. 1596 – Prov.di Bergamo – 1988

– Diego Gavazzeni – Tesi: “La transumanza, Fuipiano anni 1900-1940”

– G.Noiriel – “Immigration, antisémitisme et racisme en France”- (XIXe – XXe siècle) – Fayard 2007

– M.L.Antenucci – “Parcours d’Italie en Moselle” – Editions Serpenoise – 2005

– (Collettivo) – “Italiens en Lorraine” – C.C.I.F. – 1997

“Herserange au fil du siècle” Fensch Vallée Editions – 2000

– Pierre Milza – “Voyage en Ritalie” Editions Payot et Rivages – 1995

– Louis Hublau – “L’histoire d’Haucourt-Moulaine-S.Charles” – 1997

– Claire Villaume – “Les petites Italies” – Editions Serpenoise – 2001

 stemma IRR.I. – aprile 2010

Grande Guerra

 

Per non dimenticare ….

Sono nati in valle Imagna, deceduti in Francia nel primo conflitto mondiale, onorati dalla Francia con la menzione: “Mort pour la France”

Azzardo del calendario politico, il senatore francese Jean Marc Todeschini, originario della valle Imagna, nominato il 21 novembre 2014 Segretario di Stato presso il ministro della Difesa, incaricato degli ex Combattenti e della Memoria.

http://www.memoiredeshommes.sga.defense.gouv.fr/

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Notai

Vitali 1342

– Notai in alta Valle Imagna –

Nel 1491 s’impose l’intervento di un secondo notaio durante la stesura di rogiti di valore compreso tra 100 e 1000 lire imperiali e di due secondi notai per cifre superiori.
(Juanita Schiavini Trezzi ” Dal Collegio dei notai all’archivio notarile“)
creato = inizio d’attività – s.n. = secondo notaio
 notai 1683

Cognome            Nome                             Padre                           Luogo                Periodo d’attività

Alborgetis          Giacomo                          Giovanni                        Rota ?                                     1452
Alborghetti         Antonio                                                                 Rota o Fuipiano?                    XV° s.
Angiolini             Stefano                            Gio.Antonio                   Bedulita                             s.n.1658
Arrigoni              Alberto                                                                                                                   1292
Arrigoni              Paxino                              Bertollo                                                                citato 1399
Arrigoni              Giov. Vitale (Marchii)                                                                                    1384/1388
Arrigoni              Giovanni (Marchii)            Vitale                                                                   1391/1402
Arrigoni              Alberto                             Giovanni Vitale                                                              1434
Arrigoni              Giovanni                           Alberto                                                                 1447/1449
Arrigoni              Alberto                             Giovanni                                                                        1511
Arrigoni              Giovanni                           Alberto                                                                          1519
Arrigoni              Alberto Battista Mazza       Giovanni                                                             1519/1565
Arrigoni              Alberto Battista                 Giovanni Masso                                                   1540/1543
Arrigoni              Eustachio                          Alberto Battista              Cepino                           1538/1601
Arrigoni              Marziale                             Eustachio                                                            1582/1588
Arrigoni              Giuseppe                           Pietro                             V.I.                         creato nel 1607
Arrigoni              Benedetto                          Giovanni                        V.I.                         creato nel 1653
Arrigoni              Marco                                Joseph                                                               s.n.nel 1792
Baratta                Gio.Battista                        Santo                            Rota F.                     s.n. circa.1720
Berizzi                (Giovanni) Giuseppe          Giuseppe                       V.I.                                          1700
Bolis                    Arnoldo                              Bertramo                        Valsecca?                              1422
Bolis                    Francesco                          Lorenzo                   Rota o Locatello           s.n. 1684/1690
Bugada               Gio.Maria                            Gio.Pietro                      Rota F.                          1755/1780
Bugada               Giuseppe                            Gio.Pietro                      Rota F.                       s.n. nel 1759
Busis                  Angelo                                                                      Corna ?                                   1637
Caccia (Caccys) Gerolamo                            Francesco                     Rota F.                       s.n. nel 1605
Caprettis            Alberto                                Giacomo                  Sant Omobono                             1446
Cassotti             Giuseppe                             Giacomo                        Cepino                          1780/1815
Cassotti de Mazzoleni Pietro                         Gio.Maria                                                      s.n.1575/1591
Cobellino           Cristoforo                             Simone                                                                        1482
Codelli                Domenico                            Andrea                          Berbenno                  s.n. nel 1635
Corona de Locatelli Gio.Antonio                   Giovanni                       Berbenno                      1536/1553
Coronini de Locatelli Marsilio                       Antonio-Vecchio            Berbenno                      1635/1652
Coronini de Locatelli Francesco                   Marsilio                         Berbenno                      1678/1729
Coronini de Locatelli Gio.Giuseppe              Antonio                         Berbenno                      1653/1697
Coronini de Locatelli Marsilio                       Gio.Antonio                   Berbenno                      1698/1720
Coronini de Locatelli Giovanni Antonio        Marsilio                         Berbenno                       1671/1704
Coronini de Locatelli Giuseppe Antonio       Marsilio                          Berbenno                      1733/1765
Coronini de Locatelli Luigi                            Giuseppe                       Berbenno                      1785/1806
Daina                          Cristoforo                     Cristoforo                       Rota F / Torre            s.n. nel 1684
Daina                          Francesco                     Franco                           Rota F / Torre                1786/1799
Dolci                           Teodoro                                                                                                  s.n. nel 1750
Dolfini                         Bernardo                       Pietro                            Mazzoleni / VI                 1752/1792
Donati                         Jacobo                          Antonio                          Berbenno                                 1503
Donati                         Gio.Antonio                   Jacobi                            Berbenno                                 1531
Donati                         Marco Antonio              Giovanni Antonio           Berbenno                         1582/1630
Donati                         Francesco                    Gio.Maria de Zan                                                             1637
Donati                         Giuseppe                      Marc Antonio                 Berbenno                         1623/1656
Donati                         Giovanni Battista           Giuseppe                      Berbenno                         1680/1705
Donati                         Marc Antonio                 Gio.Battista                                                            1705/1753
Fantoni                       Giovanni                         Antonio                                                                           1469
Fantoni                       Giovanni                                                              Locatello                                    1512
Fantoni                       Antonio Maria                                                      Locatello                                    1540
Ferracini de Mazzoleni Giuseppe Antonio                                            Costa                         creato nel 1749
Folchetti de Locatelli Alexi                              Folchetti                                                                           1490
Folchetti de Locatelli Gio.Paolo                      Bartolomeo                   Berbenno                       s.n. nel 1571
Folchetti de Locatelli Bortolo                          Gio.Paolo                      Berbenno                           1590/1629
Frosio (Sfrosius)         Bernardino                                                          V.I.                                              1637
Frosio Roncalli          Giovanni Battista                                                                                                    1713
Gervasoni                  Gherardo                        Marcantonio                  Bedulita – VI                      1637/1679
Gervasoni                  Marcantonio                   Gherardo                       Bedulita – VI                      1659/1696
Gervasoni                  Antonio                           Gio.Battista                   Locatello – VI                     1681/1734
Gervasoni                  Giovanni Battista            Antonio                         Locatello – VI                     1709/1716
Gervasoni                  Stefano                           Gio.Battista                   Locatello?                      s.n. nel 1720
Gervasoni                  Giuseppe                        Antonio                          Locatello – VI                    1719/1780
Grigis (Locatelli?)       Vincenzo                                                                                                                1556
Locarini                      Carlo Antonio                  Carlo Antonio               Rota D.- Chignolo             1690/1700
Locarini                      Giulio                               Gaspare                       Locatello                       s.n. nel 1690
Locatelli                      Marte                                                                                                                     1370
Locatelli                      Martino                            Amico                                                                            1388
Locatelli                      Filippo Martino                                                                                                       1389
Locatelli                      Giacomo                          Vitale                                                                    1391/1398
Locatelli Patay            Bortolo                            Defendo                        Valsecca                                  1400
Locatelli                       Venturino                        Manzino                                                               1407/1414
Locatelli                       Antonio                           Martino                                                                 1443/1469
Locatelli                       Giovanni                         Antonio                                                                          1443
Locatelli                       Bergamini                       Bono                             Locatello                          1440/1475
Locatelli                       Pietro                              Giacomo                                                               1458/1490
Locatelli                       Giovanni                         Antonio                                                                  1476/1495
Locatelli                       Giovanni Antonio                                                                                          1476/1486
Locatelli                       Nicola                             Giovanni                        Fuipiano?                         1486/1528
Locatelli                       Deffendo                         Tonolo                                                                   1493/1511
Locatelli                       Folcheto                          Antonio                vedere:”Folchetti”                              1505
Locatelli                       Giovanni                          Antonio                                                                 1511/1512
Locatelli                       Bonetto                            Francesco                     Selino                       s.n.1612-1627
Locatelli                       Bernardo                          Marco                           Berbenno?                   s.n. nel 1617
Locatelli – Pretalli        Carlo A.                           Giuseppe                      Fuipiano ?                    s.n. nel 1720
Locatelli                       Carlo Domenico              Antonio Maria                Corna                              1778/1831
Locatelli – David          Guglielmo                        Giuseppe                       Fuipiano ?                               1804
Maironi                         Ambrogio                                                               Capizzone                      1875/1891
Manini de Personeni   Giuseppe                         Giuseppe                                                          s.n. nel 1655
Manini                           Carlo                               Guglielmo                      S.Omobono            creato nel 1706
Manini                          Guglielmo                         Gio.Angelo                    S.Omobono                    1749/1762
Manini de Personeni   Francesco                        Valentino                       S.Omobono           creato nel 1694
Manini de Personeni   Giacomo Antonio             Carlo                              Rota                                       1759
Manini de Personeni   Gio.Maria                         Carlo                                                            creato nel 1777
Manzoni                        Parto                                Maffeo                                                                          1469
Manzoni                        Antonio                             Parco                                                                           1507
Manzoni – Farina         Giovanni Antonio               Giacomo                        Cepino                         1637/1683
Manzoni – Farina         Gio.Giacomo                      Antonio                                                      creato nel 1670
Marinelli de Locatelli  Gio.Antonio                        Domenico                      Berbenno?               s.n. nel 1609
Mazzoleni                    Martino                               Tonolo                           Valsecca                      1492/1495
Mazzoleni                    Antonio                               Gio.Pietro                      Bedulita                    s.n. nel 1592
Mazzoleni                    Giuseppe Maria                  Antonio                          V.I.                       creato nel 1718
Mazzoleni                    Fortunato                            Gio.Battista                    S.Omobono         creato nel 1721
Mazzoleni – Tononi     Gio.Battista                         Giuseppe                       S.Omobono         creato nel 1730
Mazzoleni                    Gio.Battista                         Pietro                             S.Omobono                 1779/1791
Mazuchonibus            Domenico                            Matteo Morando                                                         1505
Mazzucotelli                Giuseppe Ignazio                Giovanni                        Corna                          1744/1775
Michiletti                      Francesco                                                                                                 s.n. nel 1750
Moreschi                     Marc’Antonio                       Antonio Maria                Corna                           1747/1787
Moreschi-Codelli        Gio.Sante                            Gio.Antonio                   Corna                           1784/1799
Moscheni                    Antonio                                 Alberto                          Rota F. / Cabrignoli     1461/1497
Moscheni                    Giovanni                               Zanichino                      Rota F. / Cabrignoli              1504
Moscheni-Zanucchini Giovanni e Antonio                                                   Rota F. / Cabrignoli              1541
Moscheni                    Giovanni Giacomo                Giovanni                       Rota F. / Cabrignoli     1540/1556
Moscheni                    Rosato                                                                       Rota F.            s.n. nel 1556/1559
Moscheni                    Giovanni Giacomo                Giovanni                       Rota F. / Cabrignoli     1532/1599
Moscheni-Zanucchini Giovanni                              Gio.Giacomo                Rota F. / Cabrignoli     1561/1624
Moscheni-Zanucchini Benedetto                            Giovanni                       Rota F. / Cabrignoli     1599/1630
Moscheni-Zanucchini Giovanni Giacomo               Benedetto                     Rota F.                creato nel 1624
Moscheni                     Giovanni                               Zanuchino                    Rota F. / Cabrignoli     1609/1633
Moscheni-Zanucchini Benedetto                            Gio.Giacomo                 Rota F. / Cabrignoli             1675
Moscheni                   Franco                                    Marc Antonio                Rota F. / Cabrignoli    1684/1711
Moscheni                   Gio.Battista                            Gian Maria                                                       1689/1738
Pellegrini                   Anduolo                                  Antoniolo                       Capizzone – V.I.         1453/1514
Pellegrini                   Facchino                                 Martino                          Cepino – V.I.                       1460
Pellegrini                   Betino                                                                                                                       1475
Pellegrini                   Giovanni                                 Andreolo                        Zogno – V.I.                1477/1529
Pellegrini                   Gennaro                                 Giacomo                        Cepino                                1481
Pellegrini                   Luchino                                   Bertramo                       S.Omobono?                      1481
Pellegrini                   Gaspare                                  Lucchino                       Bedulita – V.I.                      1491
Pellegrini                   Antonio Pellegrino                   Andreolo                       Strozza V.I.                1486/1515
Pellegrini                   Giacomo                                  Gio.Antonio                   Strozza                               1525
Pellegrini                   Giuseppe                                Mose                              Capizzone                 1802/1849
Perniceni                   Bartolomeo                             Antonio                           Locatello/Rota          1714/1756
Perniceni                   Gio. Antonio                           Bartolomeo                     Locatello                   1743/1778
Perniceni                   Bartolomeo                             Gio.Antonio                    Corna                        1778/1806
Personeni                  Ambrogio                                Gio.Antonio                    Berbenno                  1514/1530
Petrobelli                   Michele                                   Bertanino d.Tanino         V.I.                                     1406
Petrobelli                   Tonolo                                    Benedetto                       Bedulita, Cepino       1447/1485
Petrobelli                   Giacomo                                 Tonolo                            Bedulita                             1493
Petrobelli                   Giovanni                                 Simone                           Bedulita, Cepino       1460/1520
Petrobelli                   Giov.Antonio                           Polidoro                          Bedulita                    1591/1620
Petrobelli                   Giacomo                                 Gio.Antonio                     Bedulita/Almenno    1625/1628
Petrobelli                   Andrea                                    Gerolamo                      Bergamo/Berbenno   1663/1681
Pizoni d.Scaramucia Giov.Antonio                            Antonio?                        Capizzone? – V.I.      1480/1500
Previtali                     Giovanni Domenico                Giuseppe                        Corna                                 1792
Quarenghi                 Gio.Andrea                              Marsili                            Rota             s.n. nel 1607/1621
Quarenghi-Sch.        Francesco                               Giovanni                         Rota                          1604/1630
Quarenghi                 Carlo                                       Gio.Antonio                    Rota F. Capiatone     1702/1732
Quarenghi                 Giovanni Battista                    Gio.Antonio                    Rota F.          s.n. nel 1713/1720
Quarenghi                 Giuseppe                                Gio.Battista                    Rota                                    1758
Quarenghi                 Francesco                               Gio.Antonio                    Rota F. Capiatone    1713/1755
Quarenghi                 Giacomo Antonio                    Franco                            Rota                          1731/1787
Roncalli – Retta         Giacomo                                 Justo                                                             s.n.nel 1658
Roncalli                     Marsilio                                   Gio.Giacomo                   V.I.                   creato nel 1673
Roncalli                     Giulio Cesare                          Marcantonio                    V.I.                   creato nel 1694
Roncalli                     Francesco                               Marcantonio                                             creato nel 1689
Rota                           Giovanni                                 Bertramio                                                                  1388
Rota                           Antonio                                    Pietro (o Antonio?)          V.I.                          1457/1499
Rota                           Pietro                                      Bernardo                          V.I.                                    1477
Rota                           Antonio (il vecchio)                 Antonio                            Valsecca / Rota       1678/1718
Rota                           Giovanni Battista                    Antonio                            Rota F -Torre        s.n. nel 1684
Rota                           Antonio d.Giovane                  Antonio                            Valsecca                  1695/1754
Rota                           Antonio                                   Antonio                            Valsecca          creato nel 1754
Rota de Chinollis      Francesco                              Michele                            S.Omobono             1689/1755
Rota                           Francesco                              Michele                            S.Omobono      creato nel 1737
Rota                           Francesco                              Gio.Battista                      Rota                         1713/1759
Rota – Vitali               Gio.Battista                            Giuseppe                          Rota/Bergamo         1778/1823
Rota                           Achille                                    Antonio                             Rota Fuori                        1860
Rubei                         Francesco Maria                    Giacomo?                         Berbenno             s.n. nel 1596
Schiantarelli             Stefano                                   Stefano                            Rota F./ Valsecca     1789/1804
Valsecchi                  Martino                                   Zanino                              S.Omobono             1505/1523
Zanardi                     Giovanni Maria                       Gio.Antonio                       Berbenno             s.n. nel 1600
Zanardi                     Francesco Donato                  Gio.Maria                          Berbenno?           s.n. nel 1637
Zois                           Filippo Bernardino                  Gio.Maria                          Berbenno?           s.n. nel 1658
(prete)                       Hieronimus                              Cristofori                           Locatello              s.n. nel 1571

 

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