Scarica il PDF

Imania

Lana, follatura, pannilani in Alta Valle Imagna

 

 

 Robert L. Invernizzi – Dicembre 2019

 

In Memoriam

Marzio se n’è andato nella stanza accanto. Mi ero così bene abituato ai nostri incontri in valle! Abituato ai suoi suggerimenti, ai suoi consigli, alla sua disponibilità, abituato alla sua gentilezza.

Il filo non è spezzato… sei solo dall’altro lato del cammino[1].

Grazie Marzio! [2]

—o—

Nella descrizione del territorio del 1596, Giovanni da Lezze, parlando della valle Imagna, rivolge l’attenzione a questi commenti:

Gli huomini fanno gl’officii della lana e con quelli si sostentano e le donne filano stammi a Bergamaschi et a Milanesi, o ancora: gli huomini lavorano panni (…) et le donne filano i stammi (…).

Alla nostra epoca, potrebbe sorprendere di leggere che gli uomini lavorino la lana, nella memoria collettiva, l’attività tessile è roba da donne! Tutti abbiamo in testa quest’immagine di tantissime donne impiegate stagionalmente nella filatura di un secolo fa, o nella nostra stretta visione semplicistica, con una certa nostalgia, rivediamo nonne e bambine che filano con la rocca ed il fuso (forse per divertimento…). Abbiamo completamente perso il senso ed il valore di questi lavori, benché non siano trascorsi molti decenni che le ultime filatrici e tessitrici caserecce abbiano cessato queste attività. Certo le donne, dopo lunghe giornate di lavoro nei campi o a curare il bestiame, filavano, poi nelle stagioni più adatte, tessevano anche. Ma le varie fasi di lavorazione della lana, per arrivare alla tessitura e le successive tappe di rifinitura, erano differenti e mestieri duri anche per gli uomini.

Infatti i numerosi stadi di lavorazione della lana sono lunghi e laboriosi, al contrario del cotone, della seta o del lino che non richiedevano un così lungo processo di rifinitura dopo la tessitura. Le tele di lana che uscivano del telaio presentavano un aspetto imperfetto che poteva, forse, accontentare gente di campagna per il proprio autoconsumo. Ma chi voleva commerciare con altre città affrontava un’aspra concorrenza e non poteva mettere sul mercato panni così rozzi. Con un trattamento appropriato, dopo la tessitura, la qualità del panno di lana veniva affinata di molto e poteva confrontarsi con i tessuti di cotone o di seta. Però per raggiungere un buon livello di rifinitura il lavoro era lungo, difficile e costoso.

Per secoli queste attività furono un complemento essenziale per l’economia domestica di numerose famiglie, il raccolto agricolo troppo scarso per assicurare un anno di sopravvivenza, la lana e la sua trasformazione, rappresentava un’entrata di denaro ma fu anche indispensabile per il bisogno quotidiano, le figlie preparavano il loro corredo, tutti avevano bisogno di coperte, lenzuola, biancheria ed indumenti[3].

La valle Imagna vanta una vera e lunga tradizione laniera, ma resta la parente povera della provincia, per il lanificio, se paragonata ad altre valli bergamasche. Proseguiamo con il racconto di G. da Lezze, parlando del torrente Imagna: << sopra la qual fiumara vi sono molini da grani n.13 // un follo da folar panni>>. Un solo follo quando la valle Gandino ne ha 36, la valle Seriana Inferiore: 26, solo nel comune di Vertova se ne contano 18. Poi per tutta la valle Seriana sono contabilizzate 11000 pecore, in Valle Cavallina: 7380 e solo 1400[4] in valle Imagna.

Con le nostre ricerche abbiamo censito, per i primi anni del ’500, 8 folli solo in alta valle Imagna (non abbiamo studiato: Bedulita, Berbenno, Capizzone, Strozza e Roncola). Notiamo già una discrepanza tra gli 8 folli da noi trovati ad inizio secolo ed uno solo descritto dal Da Lezze 90 anni più tardi. È probabile che la produzione di questi opifici, non fosse rilevante agli occhi degli esperti e l’attenzione degli osservatori economici, si rivolgesse maggiormente sulle valli Gandino e Seriana.

Tentando di andare indietro nel tempo, troviamo lo storico Ignazio Cantù che, nel suo volume n.5 di Bergamo e il suo territorio (1860), descrivendo la tessitura bergamasca nel ‘300, scrive: (…) troviamo la tessitura e preparazione di panni diffusa fino nei casolari più romiti delle montagne, e delle valli a Fò in Plano[5] e Valsecca, negli estremi abituri dell’Imagna vi erano tre gualchiere e producevano annualmente 250 pezze di panno. Non sappiamo da dove sia stata estratta questa informazione, qual è la fonte, ma fu ripresa da numerosi ricercatori.

Il periodo citato, il secolo XIV, corrisponde alla diffusione di un prodotto tipico della valle, particolarmente studiato dalla professoressa Patrizia Mainoni[6], il panno valdemagno (drapum valdemagnum). Benché non fosse considerato di speciale qualità, aveva sicuramente un particolare valore ed un proprio nome, figura, infatti, nei tariffari dei pedaggi nel nord Italia nel secolo XIV[7]. Negli statuti di diverse città dell’Italia settentrionale, si trova frequentemente citato il drapum valdemagnum che non era assimilato ad un tessuto di grande pregio ma, sicuramente di quantità notevole, indicava forse più una tipologia che non una provenienza, pur avendo il centro produttivo originario nella valle Imagna. Il valdemagnum si trova inserito fra le merci elencate nel patto commerciale concluso fra Milano e Venezia nel 1317, nel tariffario dei dazi di Como e nelle provvisioni emanate dai Visconti negli anni 1340-1350[8].

Estratto datato 1345 del: Liber datii mercantie comunis mediolanis

In nomine Domini, MCCCXLV, indictione XIII, die sabbati XVIIII mensis martii. Cum multe mercantie ducantur a civitate et episcopatu Cumdrunt, Pergami et a partibus Valliscamonice, episcopatu Brixie, ad civitates Papie, Novarie earumque episcopatum in Lacum Maiorem et ultra Ticinum, maxime, inter alias mercantias, falces de predariis, drapos de Valdemagna et codas de predariis de quibus evitatur per mercatores fieri solutio datii, pedagii den.XII pro libra e datii veteris communis M., asserentes mercatores evitare pro magnis pedagiis que oportent solvere communi M[…..][9].

Come vediamo c’è un divario tra una realtà descritta dai diversi ricercatori, per il periodo del ‘300, ed il constatato di Da Lezze, alla fine del ‘500[10]. La seconda metà del Trecento vede le valli Imagna e San Martino coinvolte nelle sanguinose e distruttrici vicende belliche. Le conseguenze[11] non sono misurabili ma, certamente, entrano nel conto del destino economico della valle.

Anche se il lanificio valdimagnino non fu il fulcro dell’attività economica della valle, rappresentò tuttavia una fonte importante del reddito contadino, fu la base, il punto di partenza della ricchezza di numerosi mercanti e vediamo nascere nel Quattrocento un ceto imprenditoriale locale radicato essenzialmente su questo prodotto. A monte, quindi per le fasi: lana – filati – tessitura, probabilmente, c’erano gli imprenditori-contadini che gestivano autonomamente il lavoro proprio e della famiglia secondo le stagioni. Ciò viene confermato dagli Estimi, quello di Valsecca del 1476[12], il più preciso, ci fa vedere le tante famiglie che dichiarano, nella loro polizza d’estimo, uno o più pannilani.

(si legge, sotto, in questa prima riga: L. 12 = Lire 12, valore del prodotto)

  • Bertoletto Moscheni: 1 panno nostrano L. 12, più lana da fare un panno L. 16
  • Antonio Moscheni: 1 panno alto L. 41 più 2 panni bassi L. 31
  • Maffiolo Rota-Chiarelli: 10 panni nostrani e 2 alti L. 160
  • Zuane Dolci d° Penzo: un po’ di lana
  • Simone Scudelli: 2 panni maz… Valsugana L. 40
  • Bertramo Gobbo-Valsecchi: lana … L. 90
  • Zuane Valsecchi: 2 panni grosselli L. 30
  • Simone Moscheni: 3 ½ panni bassi L. 60
  • Giacomo Moscheni: 5 panni L. 100
  • Zuane Moscheni: (mercante) panni L. 200
  • Bertrame Moscheni: (mercante) lana e panni L. 300
  • Zuane Valsecchi: 3 panni L. 48
  • Vincenzo Bolis-Raselli di Zuane: 3 panni bassi L. 58 e lana grossa L. 52
  • Vincenzo Bolis-Raselli di Arnoldo: lana e panni L. 300
  • Maffeo Bolis-Raselli: lana e mobili L. 42
  • Martino Bolis-Raselli: lana nostrana da far 2 panni L. 20
  • Andriolo Rota: lana e stame L. 40
  • Bertramino Rota: lana nostrana L. 18
  • Giacomino Rota: lana nostrana L. 15
  • Bertramo Moscheni-Scudelli: 4 panni alti Valsugana L. 200
  • Filippo Rota-Lafranchi: 1 panno e lana L. 23
  • Simone Valsecchi d°Todesco: 2 panni nostrani L. 25
  • Antonio Moscheni-Scudelli: pesi 18 di lana e stame L. 140
  • Zuane Valsecchi: lana nostrana: L. 12
  • Antonio Bugada-Rota: lana lavorata e da lavorare L. 110
  • Pero Bolis-Rasini: lana e stame L. 150
  • Rogero Rota: 3 panni Valsugana sgrezzi alti L. 100, 4 panni sgrezzi bassi L. 70, lana da lavorare L. 40
  • Manzino Bolis: 1 panno grosso L. 12
  • Antonio Moscheni-Scudelli: 1 panno nostrano e un po’ di lana L. 18
  • Antonio Pagnonzino-Scudelli: ½ panno L. 6 e lana lavorata e da lavorare L. 20
  • Andriolo Valsecchi: lana da far 1 panno nostrano più mobili: L. 20
  • Maffiolo Rota-Roguri: pesi 26 lana grossa e mobili L. 26
  • Zuane Barabani-Valsecchi: 1 panno nostrano L. 12
  • Pero Dulzoni (Dolci) d° Petenga: 1 panno matresino basso più lana L. 26
  • Zuane Moscheni-Scudelli: 2 panni e lana da far L. 32
  • Zuane Daina-Valsecchi: panni e lana L. 110, 4 panni alti veronesi: 2 fini e 2 grossi L. 200

 

Sono ben 36, su 90 censite, le famiglie che possiedono un centinaio di pannilani o tanta lana già pronta da filare o ancora da lavorare.

Abbiamo anche uno Stato d’Anime[13], cioè la descrizione delle famiglie fatta dal parroco del luogo, datato 1574, della parrocchia di San Bartolomeo di Brumano, nel quale sono censite 42 famiglie. Su 71 uomini in grado di lavorare (di età superiore ai 18 anni), 62 sono detti “lavoratori di lana”, 4 sono fruttaioli, 2 detti postero[14] ed altri 3 senza descrizione. Impressionante il dato dei 62 uomini, certamente pastori, tosatori, pettinatori, cardatori, tessitori, cioè tutti quei mestieri che precedevano la follatura e la tintura, fasi che, successivamente, venivano realizzate in fondo valle. Questo documento contraddice le nostre idee in cui vedevamo solo dei malghesi e le loro mandrie di manzi sui monti tra Fuipiano e Brumano. La trasformazione della lana implicava numerosi greggi[15], dunque tanti pastori, non è quindi difficile immaginare la parte alta dei monti che circonda la valle, (spesso terra comunale accessibile a tutti) terreno infertile per l’agricoltura, percorsa da centinaia di pecore. Purtroppo questo numero dimostra la scarsità di lavoro, vede la pastorizia come unica attività ed un evidente stato di povertà della gente che abitava in un paesino arretrato su questi monti isolati.

Il panno di lana serve anche come moneta di scambio o, più precisamente, permette ad un debitore solvibile di contrattare un debito, ad esempio a Giacomo Manzoni di Selino, contrada Rasoli, di regolarizzare, nell’anno 1609, un obbligo verso Bartolomeo Frosio-Roncalli di Cepino[16]. Il Manzoni s’impegna di fornire due stametti[17] alti bianchi e fini, quali tiranno braccia cento undici e mezzo a Lire sette e mezza il braccio[18] Cioè la bella somma di L. 835 ½ per pagare, in parte, il debito contratto di L. 1057, sapendo che un braccio di tessuto misura al metro 0,68, sono più di 75 metri di panno da lavorare.

Il cuoio del bestiame e la lana delle pecore, furono la base del miglioramento della vita dei nostri contadini. Anche se la produzione tessile nelle valli bergamasche è accertata intorno all’XI secolo, i ricercatori concordano che lo sviluppo economico delle attività tessili sia, in parte, dovuto alla presenza della congregazione degli Umiliati nella provincia bergamasca nei secoli XII e XIII. Paolo Manzoni ricorda le due case degli Umiliati in Almenno che si dedicavano soprattutto alla lavorazione e al commercio della lana[19]. Erano comunità monastiche maschili e femminili che promuovevano un ritorno alla povertà evangelica, il lavoro tessile al centro delle loro regole di vita. Ma fuori dalle domus cittadine, le notizie sono scarse, molte incertezze rimangono sugli insediamenti rurali e dunque, sulla loro presenza in valle Imagna. Rimane ferma la nostra attenzione sul fatto che Almenno, per più di un secolo (1230-1358), fu il più antico insediamento dell’ordine nella provincia bergamasca, altro indizio interessante: Maria Teresa Brolis[20], riferendoci della distribuzione dei toponimi che accompagnano il nome dei religiosi, deduce che la valle Imagna[21] fu tra le zone a più intenso reclutamento.

Nelle valli l’organizzazione del lavoro è familiare e a domicilio, le varie fasi della lavorazione, fino alla tessitura, erano eseguite soprattutto d’inverno. Il negoziante, comprato il panno dal tessitore, spesso si fa carico delle finiture quali la garzatura, la tintura e la cimatura, altre volte vengono fatte in città. La provincia bergamasca produceva nel XIII secolo diversi tipi di panni, di qualità diverse e dai colori particolari, che facevano l’originalità del prodotto. Il pannus Pergamensis  era una stoffa conosciuta in tutto il nord d’Italia.[22]

Tutta la regione lombarda nel XIII secolo, fu uno dei grandi centri tessili europei, Bergamo in particolare, esportava quantità di panni di lana in tutta Italia e anche fuori dai confini. La fiera annuale di San Alessandro[23] in Bergamo vedeva come prodotti principali i panni. Tra il Cinquecento ed il Seicento la manifattura tessile fu la principale risorsa della provincia. Agli inizi del ’500 la bergamasca produceva 7-8000 panni circa, per arrivare al colmo agli inizi del ’700 con 39000 panni fabbricati. Nella prima metà del Settecento comincia il declino del lanificio bergamasco.

Gli abitanti delle valli, non solo d’Imagna, vendono direttamente una parte dei prodotti senza passare nella città di Bergamo, imprenditori e mercanti locali tendono sempre ad aggirare il controllo cittadino. La prossimità del territorio milanese influirà fortemente sullo sviluppo economico della Valle Imagna e sarà fonte di conflitti. Le autorità bergamasche (e le corporazioni laniere cittadine), al tempo del dominio milanese, tentano in diversi modi, di obbligare il passaggio nel capoluogo per la riscossione dei dazi, proponendo ai Visconti anche la distruzione dei folli e tintorie[24], lo scopo era di bloccare la finitura dei prodotti tessili, dunque, frenare la commercializzazione diretta. Nel suo libro La radice della discordia, Patrizia Mainoni, dimostra l’incidenza dei tentativi di Bergamo per monopolizzare il commercio nel conflitto delle fazioni, nella seconda metà del ’300. La rivolta dei guelfi della Valle Imagna, non era solo politica ma era anche per la sopravvivenza materiale, il conflitto cambierà il volto economico della Valle.

Sono due le famiglie di Locatello ad attirare la nostra attenzione, quando studiamo la lavorazione della lana, il loro cognome colpisce immediatamente, sono i detti Garzaroli de Locatelli e Carminati d’Imania. L’uno e l’altro sono appellativi legati alla lavorazione della lana e dei panni, azioni di pettinare, scardare, garzare, tutti mestieri importanti e indispensabili nel lungo processo di trasformazione della lana. Garzarolo, indubitabilmente, deriva da garzatore (di panni), come Carminati, colui che carminava (pettinava) la lana. Sono pochi i mestieri che, parlando per la valle Imagna, diventano cognomi, rivelando l’importanza di queste arti, almeno per la popolazione medievale della valle. Come i Tintalora de Rota che, abitando in Mazzoleni, sicuramente nel Cinquecento procedevano alla tintura dei panni e i detti Pillipari de Mazzoleni che, per secoli (già dal ‘300), lavoravano le pellicce e conciavano[25] le pelli, sono solo qualche esempio degli antichi mestieri praticati in valle.

Per comprendere l’importanza del lanificio, abbiamo rilevato gli addetti alla lavorazione-trasformazione della lana negli Estimi del 1476:

Valsecca:        16 battilana, 11 sarti, 7 lavorant de lana

Cepino:           2 pettinatori, 1 tessitore, 1 sarto

Mazzoleni:      3 sarti, 5 lavorano la lana, 1 follatore, 1 tessitore

Locatello:        5 scartatori lana, 2 ferulatori de lana, 5 tessitori, 3 follatori (e apparatori), 5 lavorant de lana, 7 pexor (pettinatori) lana

Antichi mestieri legati alla lana:

Battilana (lat. Batilanus) : Batilà, colui che batte la lana o: Ergadùr, Irgadùr, Virgadùr, Verghez.

Carminator lanae, carminare lanam, carminarius – carminare: azione di cardare, pettinare la lana.

Cardatore (lat. Carzator), cardeggiare, cavar fuori il pelo a’ panni (A). Cardù: cardo, pianta spinosa, con la quale si carda il panno (T).

Cimatore (lat. Cimator), colui che rasa i panni.

Garzatore: Garzadùr: addetto alla spazzolatura dei panni, che dà il garzo ai pannilani. Garzà, garzare, dare il garzo, cavar fuori co’garzi il pelo al pannolano e dargli la direzione, affinché il tessuto rimanga ben coperto – Rigarzare, dare più tratti di garzo, alternati con altrettante cimature.

Follatore, gualcatore: addetto alla gualcatura dei panni con il follo, spesso si dice che “appareggia” i panni[26].

Lavorant de lana: lanaiolo, addetto alla lavorazione della lana.

Petenatore, petenarius, pextor: pettinatore di lane.

Scartezator (Scartesì, scartezini) addetto alla cardatura della lana.

Textor, texenderius: tessitore.

Tirator: addetto alla tiratura dei panni.

Tinctor: tintore.

 

Folli in valle Imagna

 

Nel nostro comprensorio non possiamo separare i folli dai mulini e fucine, sono begli esempi di meccanizzazione che rappresentano le conquiste tecnologiche messe in opera dai nostri antenati. La ruota idraulica rese un po’ più facile la loro vita, sostituendo la loro energia muscolare (o quella degli animali domestici) necessaria alla trasformazione dei cereali in farina o permettendo di modificare le proprietà della lana per renderla più commerciabile.

L’attrattiva suscitata da questi opifici ha sempre risvegliato la curiosità dei ricercatori, anche io sono caduto sotto il loro fascino e già una precedente ricerca mi ha condotto nel fondo valle, tra Locatello e Valsecca, alla ricerca degli antichi siti medievali, meravigliato dall’ingegnosità sviluppata dai valdimagnini per il tracciato delle gore ed il modo di canalizzare le acque. Qualche seriola è ancora oggi visibile nella valle, esempio di una notevole maestria tecnologica, infatti, non abbiamo testimonianza di edifici con ruote mosse direttamente dalla corrente dell’Imagna o dai suoi affluenti.

La valle è modellata dalle acque del suo fiume, la ghiaia dell’Imagna modifica il suo percorso, ma succedono cambiamenti anche sotto l’azione erosiva delle alluvioni. Un torrente come l’Imagna ha un regime molto irregolare, non sarebbe stato possibile, in un periodo di siccità, mantenere un afflusso d’acqua sufficiente, dunque, l’acqua del torrente veniva deviata in un canale (seriola), parallelo al corso del fiume e permetteva anche di isolare l’edificio dalle piene devastatrici del torrente e di fornire un approvvigionamento regolare, malgrado le variazioni stagionali, del livello dell’acqua. Quando si osserva la seriola del Chignolo di Rota Dentro o quelle lungo l’Imagna in Locatello, ci rendiamo conto delle reali capacità ingegneristiche necessarie per la realizzazione di queste opere. Solitamente sono semplici fossati a cielo aperto, è vero, ma calcolare la pendenza del canale, determinare come e dove far passare le acque secondo la morfologia del terreno, richiedeva specifiche conoscenze tecniche.

Esistevano sistemi di sbarramento per arginare il flusso del torrente, al fine di migliorare l’alimentazione delle seriole, come si possono ancora vedere sulla cascata di Capiretti: grosse staffe di ferro dove si fissavano travi di legno, poste di traverso alla corrente del fiume, creavano una vasca di raccolta ed assicuravano un’efficiente derivazione delle acque.

Assicurare un apporto idrico costante era fondamentale, dunque la scelta del luogo dell’impianto idraulico era importantissimo, possiamo soltanto immaginare le controversie scaturite tra i proprietari, sull’uso degli sbarramenti e sull’utilizzo delle acque comuni provenienti dalla stessa seriola condivisa da più mugnai e follatori.

Opifici completamente abbandonati tra gli anni 1960 e 1980. I cambiamenti idro-climatici (diminuzione della forza motrice), le nuove tecnologie, la produttività industriale, hanno distrutto un’arte, un artigianato, un secolare modo di vivere.

La nostra precedente ricerca ha evidenziato un ricco patrimonio idraulico, abbiamo individuato, da Brumano a Clanezzo, la presenza di circa 70 impianti diversi, lungo tutto il torrente Imagna, realizzati tra il XV° ed il XIX° secolo.

Alla ricerca degli opifici qualificati come folli, iniziando dalle località situate più a monte dell’Imagna, incontriamo la contrada Chignolo di Rota Dentro, citata nell’estimo del 1506, dove ci sono due famiglie, la prima dei Locarini, detti Gioni, costituita da cinque fratelli: Martino, Augustino, Vanoni, Bernardo e Beltrame, proprietari di una casa con mulino ed un follo. Poi l’altra famiglia è dei Quarenghi, si tratta di Beltrame, detto Panceta, anch’egli possiede in Chignolo casa con mulino e follo. Un terzo proprietario di Rota Dentro è citato nello stesso documento, ma in località Casabelli: Davide, figlio di Pietro Gioni de Rota, anche lui sfrutta un follo con mulino, senza una precisa localizzazione dell’edificio.

In Locatello, nel 1476, figura sull’estimo Stefano Locatelli de Cornalita, descritto come fullatore e asparator[27] di panni lana, proprietario di un mulino con pesta, due mole e due folli.

Simone Carminati d’Imania fu proprietario di un follo nell’anno 1542. Nel 1520 Defende Garzaroli de Locatelli è descritto come possessore di un follo in Codeghelli, poi, nel 1537, lega per testamento suo figlio Battistino il detto follo.

Sul comune di Valsecca nel luogo detto Mus, cioè sulla sponda destra del torrente Pettola, il posto è noto per le sue fucine ma uno di questi edifici è chiamato follo. Il prete Letanzio Moscheni (°1741) ed i fratelli Giovanni Antonio e Giuseppe, nell’anno 1807, sono descritti come proprietari di un follo e di una fucina nel detto luogo, probabilmente parliamo su Valsecca dello stesso edificio.

Nel 1506 su Cepino sono segnalati due folli con un mulino ed una tintoria, al nome di Bernardo f.q. Bonetto Rete de Roncalli, in contrada Caretti.

Limitandosi alla alta valle Imagna, il nostro inventario censisce, su Rota Dentro: 3, Locatello: 3, Valsecca: 1, Cepino: 1, abbiamo quindi 8 impianti diversi, non vogliamo azzardarci oltre, le informazioni finora riunite potrebbero portare a confusione e contabilizzare due volte lo stesso edificio. Dobbiamo tenere in conto che le carte medioevali non sempre sono precise, si parla di mulini in senso generico, ma nello stesso edificio si svolgevano processi di lavorazione diverse, sia di follatura che di macinazione e di questo ne abbiamo diversi esempi.

Nello stesso luogo per secoli potevano avvicendarsi mulino, maglio, follo, segheria, secondo le tendenze dell’epoca. I nostri antenati anche se molto conservatori nei loro usi e costumi erano capaci di adattarsi ai mercati, immaginiamo anche periodi di abbandono d’un impianto magari a causa di frane o alluvioni, potevano quindi decidere di demolire un edificio per poi ricostruirlo destinandolo ad un altro uso.

La pecora bergamasca

Le domesticazioni degli ovini avvennero prima per scopo alimentare, poi per l’utilizzo delle pelli. La lavorazione della lana, nata in Asia, si diffuse in Europa e dopo una selezione millenaria si ottenne una finezza ed un colore del mantello che poteva tendere al variamente pigmentato. La razza bergamasca è una delle più primitive dell’arco alpino, deriva della mescolanza dei numerosi greggi transumanti che in passato erano rimasti isolati nelle valli o negli allevamenti monastici, databile tra il XII ed il XIV secolo. Caratterizzata dalla sua grande taglia, arti lunghi, profilo montonino, lunghe orecchie, destinata prevalentemente per la produzione di carne, se la sua quantità di lana è elevata non è considerata di qualità.

Produzione media: annualmente 4kg di lana (2,4 per la tosa di primavera e 1,6 in autunno), lunghezza dei filamenti: 8,96 cm, un grado di feltrabilità molto alto.

Fino all’inizio del Quattrocento la lana locale fu la materia prima utilizzata, poi, con l’ingresso di lane “straniere” (pugliese, spagnola, tedesca…), cambierà la qualità e la diversità dei panni bergamaschi. La lana nostrana continuò ad essere utilizzata solo per i panni detti “bassi” o per la trama.

Lavorazione della lana

  1. Tosa (tusa), nel passato richiedeva la collaborazione dei vari pastori dell’epoca, per secoli era utilizzato un unico attrezzo il fòrbes (usato anche per i capelli!). A settembre il gregge scendeva dall’alpeggio e fino ad ottobre rimaneva nei prati e nei campi di fondovalle, questa sosta era il periodo della tosatura autunnale, poi, agli inizi di novembre, partivano per la pianura.
  2. Cernita, importante per determinare la qualità, variabile secondo le parti del corpo dell’animale, più fine e lunga tosata vicino al collo, più grossolana quella della pancia e delle ginocchia. Si divide anche secondo il colore.
  3. Lavatura, per togliere il grasso, con l’aggiunta, a volte, di urine o cenere. Con molta attenzione si doveva controllare la temperatura dell’acqua, agitando la lana con bastoni. Una volta pulita e risciacquata la lana veniva essiccata al calore del sole.
  4. Battitura (battilana), per ritirare le parti più rozze la lana veniva vergada dai verghezini .
  5. Spruzzatura, con olio di oliva o di lino per aumentarne l’elasticità e la resistenza. Onz la lana, daga l’ule: Inoliare la lana, ungerla con olio (Angelini).
  6. Cardatura, per la trama, per dare volume alla lana se le fibre sono corte.

Fase 6 o 7, secondo la qualità e la finalità del filo (ordito o trama).

  1. Pettinatura, per lana a fibra lunga, stame, per l’ordito (ördìt), lana più pregiata (stesso effetto della cardatura), permette di eliminare altre impurità ed allineare le fibre.

Da queste precedenti operazioni risultano i faldelli[28] (quantità di lana di circa gr. 400), distribuiti alle filatrici.

  1. Filatura, l’uso millenario della rocca e del fuso rappresenta uno dei progressi fondamentali nell’evoluzione umana, paragonabile all’invenzione della ruota. Da una massa filacciosa del pelo di un animale si ottiene un filo di lunghezza continua, con torsione verso sinistra per la trama e verso destra per l’ordito. Affidata essenzialmente alle donne, anche se il loro lavoro principale riguardava la terra e la cura del bestiame, ricordiamo che, per lunghi mesi, tantissimi uomini erano fuori valle. Si filava solo dopo aver provveduto ai compiti da contadini che, spesso, generava ritardi nella consegna dei prodotti filati.
  2. Tessitura, cioè l’incrociamento dell’ordito con la trama sul telaio (ol telèr a ma). L’antico telaio contadino è sopravvissuto per secoli nelle cascine dei paesini di montagna, anche modernizzato è rimasto lo stesso nella sua struttura, come il tornio a pedale, rappresenta il tipico attrezzo di un’attività familiare. Vediamo anche un padre[29] legare alle sue tre figlie nubili, la casa vecchia posta in Canito, di tre stanze una sopra l’altra, con lì tellari per fabricare tela et sui argagni… siamo nel 1692, il telaio è un attrezzo indispensabile nella vita quotidiana.

Il mercante affidava al tessitore una quantità precisa di filo di lana con l’indicazione del tipo di panno commesso, alla consegna del panno tessuto, il prodotto veniva pesato ed il risultato doveva corrispondere precisamente al peso del filato consegnato.

  1. Pulitura, si tolgono le particelle estranee, si eliminano le pagliuzze, i nodi e i falli.
  2. Prima garzatura, per sollevare le fibre del tessuto.
  3. Purgatura, il panno viene sgrassato con cenere e calce.
  4. Impregnatura con sapone, argilla, urina, lisciva.
  5. Follatura – la fase più importante del processo di rifinitura. La lana è l’unica fibra sottomessa a questa lavorazione perché le altre materie, lino, seta e cotone, non hanno la stessa composizione chimica.
  6. Lavatura per togliere le materie impregnate.
  7. Asciugatura del panno su telai (ciodéra), per stirarlo e stabilizzarne le dimensioni, viene asciugato sotto tensione.
  8. Seconda garzatura per sollevare le fibre e dare una rifinitura più morbida, viene effettuata

fino a cinque volte. Le fibre sollevate avevano un’altezza diversa che si correggeva con la cimatura.

  1. Cimatura, per omogeneizzare la superficie, i cimatori con le forbici tosavano parte delle fibre sollevate dai garzatori. Queste due ultime operazioni potevano alternarsi e dovevano essere svolte con molta attenzione perché donavano bellezza al panno. Se non c’era bisogno di tintura, il prodotto era finito e commercializzabile.
  2. Tintura, altra fase molto delicata della rifinitura che poteva guastare tutto il lavoro precedentemente realizzato. Il prodotto veniva immerso nelle caldaie di rame con cocciniglia, guado[30], indaco, curcuma, oricello, il colore veniva poi fissato con nuovi bagni in acqua con vari sali sciolti e lasciato bollire per 3-4 ore.

 

Follatura

Nella civiltà greco-romana il tessuto di lana divenne per la prima volta tanto diffuso grazie all’adozione del processo della follatura. Accanto alle civiltà del lino in Egitto, del cotone in India, della seta in Cina, la follatura permise in Europa la nascita della civiltà della lana[31].

È difficile ripercorre, in modo affidabile, le varie operazioni svolte successivamente dal follatore, possiamo soltanto immaginare le differenze da una valle all’altra, secondo il volume dell’attività, secondo l’impianto, secondo il genere di tessuto lavorato, i prodotti e le sostanze aggiunte, le variabili erano davvero numerose, e poi ogni artigiano aveva la sua tecnica, sicuramente tramandata di generazione in generazione.

Da tempi remoti questa lavorazione veniva praticata in modo semplice, il follatore pestava con i piedi il panno immerso in varie sostanze, un lavoro ripetitivo, monotono e faticoso, sicuramente, non si parlava di quali conseguenze potessero avere questi bagni, prolungati e a contatto con prodotti non del tutto innocui, sulla salute dei lavoratori. Lavatura, follatura, risciacqui, operazioni che potevano durare diversi giorni, il follatore, come una bestia da soma, aveva braccia e gambe sempre in movimento. Giunse poi l’uso dei pestelli di legno manovrati manualmente.

Nell’anno 1000[32] circa, nel nord Italia, si parla di gualchiere mosse dalla forza idraulica ma, che sia stata meccanica o manuale, i due metodi di follare coesisterono a lungo. Per secoli, anche dopo l’invenzione del follo meccanico, in Inghilterra e nelle Fiandre, la follatura con i piedi venne considerata segno di qualità, non era tenuto in conto il risparmio di tempo e di fatica.

L’operazione consisteva nel battere e premere il tessuto di lana, in certe condizioni di calore e di umidità, con l’aggiunta di vari prodotti (argilla, sapone…), per rendere le fibre aggrovigliate e aderenti le une alle altre. Il tessuto diventava più compatto e prendeva l’aspetto di feltro.

Il tessuto veniva piegato, battuto, spiegato e ripiegato tantissime volte per migliorare la penetrazione delle sostanze diluite, e così via per lunghe giornate di lavoro. Le proprietà feltranti della lana sono variabili, a seconda della qualità della materia e dell’intreccio della trama con l’ordito, la stoffa cambia completamente d’aspetto, la qualità del tessuto è molto superiore.

Il follone era costituito da due martelli in legno, mossi da un meccanismo, che si muovevano alternativamente. Nella cassa del follone veniva messo a bagno il panno da infeltrire con sapone bianco o nero disciolto, secondo i follatori, i martelli battono il tessuto per il tempo necessario all’infeltrimento. Il tempo del lavoro è molto variabile a seconda del risultato ricercato, da mezz’ora a otto ore. Quel processo modificava la lunghezza e lo spessore della tela così lavorata, l’operazione poteva essere ripetuta finché non si otteneva il risultato desiderato, ma se troppo prolungata avrebbe modificato eccessivamente le caratteristiche del tessuto. Il panno poteva perdere fino al 15% in lunghezza e molto di più in larghezza, fino alla metà!

Il panno feltrato veniva poi lavato ed essiccato su stenditoi (ciodére).

 

Le prime statistiche del 1766[33] censivano 8 telai da tela e 12 telai di panno di lana per tutta la valle Imagna[34], più precisi i numeri per gli anni 1785-1789: 1 telaio a Brumano, 1 a Locatello, 8 a Rota, 1 a S. Omobono, 4 a Bedulita e 5 a Strozza[35]. Nella seconda metà dell’Ottocento, con la famiglia Daina, l’avventura serica porterà al culmine l’epopea tessile, gestivano al Prato Griso il filatoio da seta ad acqua di Ercole Daina, e alla Torre di Rota Fuori la filanda a vapore con galettiere di Riccardo Daina. Alla fine del secolo questi due opifici, saranno a vapore, utilizzati soltanto per trattare la seta ed impiegheranno 114 persone[36], più altre 56[37] per la torcitura ed incannaggio della seta. Un po’ di tempo dopo, lo stabilimento di Brancilione, per la lavorazione della seta, impiegherà 120 operai[38]. Purtroppo quel periodo d’oro non durerà, gli incannatoi di Corna e S. Omobono chiuderanno entro l’anno 1913[39].

Attività della famiglia Frosio

Il Reverendo Abbate Alessandro Frosio, figlio del fu Alessandro[40], per tentare di evitare una lite con i suoi nipoti, eredi del fu Lanfranco, suo fratello, fa transazione e accordo con loro per concludere le contese già avvenute con il fratello defunto.

Viene fatto un inventario completo del patrimonio sia fondiario che imprenditoriale della famiglia, siamo al 12 novembre 1691[41], sotto il portico delle case dei fratelli Brignoli posto al Convento delle Grazie nella vicinia di Sant’Alessandro in Colonna. Le controversie Frosio sono lunghe e fastidiose, non vogliamo entrare troppo nei particolari, però, in questo lunghissimo documento (59 pagine), vengono dettagliate le mercanzie ed i bestiami in valle Imagna, vi sono 3 muli ed un cavallo, due vacche e un manzetto, capre e pecore in soccida, 100 sacchi di legna e 50 di carbone, pesi 2 di olio d’oliva, brente 42[42] di vino, some 4 di miglio e melgone, ma soprattutto, vi è la merce uscita dalla loro tintoria di Cafrosio. È descritta un’incredibile varietà di prodotti tessili, di matasse di stame e filati. Poi vengono elencate le 647 persone indebitate verso la famiglia Frosio.

Estratto dell’inventario:

  • 17 stame mat.no da filare L. 409:10
  • 12 stame mat.no filato da panno L. 48
  • 13 stame mat.no filato da sarze[43] L. 621:10
  • 229 stame misto dà filato ven.o d’ogni colore L. 801:10
  • 229 stame misto filato ven.o diversi colori             L. 1145
  • 34 stame beretino dà panno dà filare L. 85
  • 95 stame bianco v.no dà filare dà panno L. 237:10
  • 185 stame B.o Veni.no filato dà panno L. 647:10
  • robba in bottega in più canezzi … al prezzo pagata

in fiera di Bergamo, con dazio e condotta                           L. 1202:14

  • otto libre nove tersoli bianchi mat.ni filati 187
  • pesi quattro libre tre tersoli bianchi ven.ni filati 73
  • pesi tre libre tre tersoli filati mischi 69
  • pesi venti sette tersoli dà filare mischi 405
  • pesi tre d.i mat.ni dà filare 45
  • pesi quattro libre cinque d.i veni.ni bianchi dà filare 54
  • pesi undici libre tre lana b.a mat.na 385
  • pesi quaranta sei la. ven.na lavata 828
  • pesi quattro libre otto la. ven.na tinta 90
  • pesi tre libre setta la. spag.a 155:8
  • pesi cinquanta sei la. ven.na in sacchi sette fatta venire da Ven.a                                                            L. 741
  • pesi trenta vitriolo[44] in cape tre 120
  • pezze cinque mezzetti mischi sgrezzi da follare 500
  • pezze tre detti bianchi ven.ni bassi sgrezzi da follare 300 

Totale in V. Imagna   L. 9148

Vengono elencate le merci in Bergamo, i Frosio avevano casa in borgo San Leonardo, contrada del Prato.

  • pesi due lino da spinare 26:5
  • pesi quattro stoppa 20
  • pesi ventisei vitriolo in casse due 104
  • pesi 130. 9 lana succida ven.a in sacchi 14 di Durazzo 1701:14
  • braccia 102 panno alto ord, in canezzi 331:10
  • braccia 21 panno alla fab. di Padova 94:10
  • braccia 188 panno basso ordinario colorato

 in div. canezzi                                                                                  L. 235

  • braccia 143 saette e roversini[45] in canezzi 135:17
  • braccia 30 mezzelanino di Cremona 30
  • braccia 177 sarza mis.a ven.a in canezzi 300:18
  • braccia 64 f.a mis.a grismoro ven.a alta 144
  • braccia 102 cane. ord. dà reggio 51
  • pesi 9 canenette tinte             72
  • braccia 270 tela di c.o in canezzi sgregia 135
  • braccia 45 tela cremasca 36
  • braccia 5 tela gialla p. bandine 3
  • braccia 51 tela di stoppa e lino 40:16
  • peso 1 quadretto costa 13
  • braccia 8 fustano[46] stampato 7:4
  • 3 canezzoli di filo ordito L. 39
  • … 14 scartezze da lana 56  
  • braccia 108 sarza nera 145:16
  • braccia 57 d.ta mat.na nera 102: 12
  • pezzi 12 sarze nere 2700
  • pezzi 12 sarze nere mat.ne 2470
  • pezzi sette duzetti sgrezzi filo e lana             350
  • braccia 178 sarza mista ven.a da purgare e follare 302:12
  • braccia 25 fodriga 37:10
  • pezze 1 sarza mista ven.a alta 240
  • pezze 6 sarze ven.ne bianche             845
  • pezze 30 sarze miste dà follare 4620
  • pezze 13 mezzetti sgrezzi             1300
  • pezze 4 biselo alto dà follare 110
  • 10 valenzane[47] nove L. 120
  • 206 stame mischio da filare ven.o 721
  • 332 stame mat.no dà filare 1328
  • pesi sette . 8 tersoli mischi da filare 117
  • pesi 25.8 tersoli mischi filati 567:12
  • pesi 6.5 tersoli b.i mat.ni filati 136:10
  • pesi 3 tersoli b.i veniziani filati 51
  • 67 stame beretino dà panno filato 251:5
  • 59 stame b.o spag.o filato 472
  • 250 stame b.o ven.o da filare 625
  • 51 stame b.o ven.o filato torto 204
  • 40 stame b.o ven.o filato fatto 160
  • 221 stame mat.no ord. filato 1270:15
  • 68 stame … filato torto 391
  • 53 stame fatto 304:15
  • 339 stame misto ven.o filato torto 1779:15
  • 300 stame misto ven.o filato fatto 1575
  • pesi 74 bindelino[48] stretto p. impont. sarze 51: 16
  • pesi 6 bindelino sempio d’ogni colore 30
  • 298 stame b.o ven.o filato fatto 1192

Totale su Bergamo:              L. 28137

 

Il patrimonio dei Frosio di Cepino, in quell’anno 1691 è valutato Lire 191783[49], i soli prodotti tessili in magazzino sono stimati Lire 37285.

Passa mezzo secolo, sempre nei conti della famiglia Frosio, troviamo altre notizie interessanti, siamo al 20 dicembre 1750, estratto dal libro contabile del fattore. Scopriamo che i Frosio facevano allevamento dei bachi da seta[50]. La galletta: bozzolo, invoglio della crisalide del baco da seta.

1743 – Ricavati di pezzi dieci gallette … L. 210:5

1744 – Ricavo di gallette … L. 20 (si tratta della quarta parte che tocca ad ognuno)

1745 – Cavati de gallette … L. 29

1746 – Ricavo di gallette … L. 14:02

1747 – Ricavato di gallette … L. 14:10

1748 – Ricavo di gallette … L. 7: 03

Ci sono le spese per le semenze dei bigatti[51], il dazio pagato sui bigatti e gallette.

Queste gallette non sono lavorate in valle, ma portate in Bergamo.

 

Carminati de Imania

Il luogo Imania viene ripetuto per tutto il Cinquecento come centro di vita dei cosiddetti Carminati d’Imania, ma spesso il redattore del rogito si accontenta di nominarli Imania, è cosi ovvio, sono loro i maestri del luogo.

Quasi sempre nei rogiti notarili la professione di questa famiglia viene menzionata dopo la denominazione della persona, cioè: Magister Simon q.dam Thomaxini de Imania fullator (1538), il termine di magister: maestro, qualifica un artigiano competente stimato, il mestiere di mugnaio o di follatore è considerato come quello del chirurgo, gli unici ad essere precisati negli atti notarili. Il fullator era una persona esperta nell’arte della lana, dotato di competenze particolari. Queste peculiarità vengono evidenziate dal fatto che non si trovavano, in valle Imagna, addetti qualificati per questi lavori. I Berizzi di Locatello, follatori e tintori, nel Seicento, devono reclutare gente di Gandino e Vertova[52].

Nel 1598 Simone, f.q. Giovanni Giacomo olim Giacomo de Carminatis de Imania, vende a Pietro q. Augustino Ton de Moscheni di Rota Fuori, suo cognato, diverse pezze di terra nel luogo detto Imania, al di qua ed al di là della riva del fiume, sui territori di Locatello e Rota, due case situate in Locatello, con un portico orientato verso sud, una seriola che alimenta edifici di mulino e follo dirupati. Il prezzo convenuto è di Lire 575.

Imania o Cafelis

Passerà molto tempo prima di potere localizzare precisamente questo sito, la soluzione ci viene suggerita da due rogiti notarili. In uno del 1702[53] concernente la famiglia Berizzi, Francesco, figlio di Marcantonio Berizzi, subisce perdite finanziarie, costretto a vendere a Giuseppe Pesenti un corpo di case con più stanze à terra, et sue superiori, dal fondo sino al cielo, situate nel luogo detto Imania, dette per proprio nome le case di Felice Semenzi (…). Il detto Felice Semenzi è discendente di una nota famiglia di fabbri, stabilitosi a Locatello, dove ha lasciato il suo nome all’omonima contrada: Cafelis, cioè la casa del Felice, un tempo chiamata anche Cadani.

Questi Semenzi (o Sementi) non hanno lasciato tracce in valle, ma la famiglia fu in un primo tempo stabilita in Cepino, al luogo chiamato Piazzalunga[54] o Cà Balossi. Il nonno del detto Felice: Viviano Semenzi, nativo di Strozza, fu un distinto fabbro ferraio, già citato nel 1556 come Magister Viviano figlio del q. Giovanni Semenzi di Cabalossi. La sua fucina era situata in contrada Cabalossi, e fiancheggiava la proprietà di Bernardino Frosio Roncalli. Questi Semenzi spesso sono soprannominati Balossi.

Il secondo atto notarile più antico, è del 1621[55], ci conferma l’altro del 1702 del Berizzi, si tratta della divisione tra i fratelli Felice e Cornelio Semenzi, abitanti in Locatello ma nativi di Cepino. Per Felice c’è una casa con mulino e fucina con il suo maglio da ferro, con la sua seriola con tutti i mobili e gli utensili in contrada di Selino, nel luogo detto Chaceci, vicino al fiume Imagna, con vari appezzamenti di terra. A Cornelio, tocca la stessa cosa, una casa con mulino e fucina ma in Locatello, nel luogo detto Imania. Supponiamo che Cornelio decederà per primo e senza discendenza perché i suoi beni ritorneranno al fratello Felice.

Il detto Felice, figlio di Lorenzo Semenzi, si è traferito in Selino dove decederà nell’anno 1651 circa. Passano 5 anni ed il 19 aprile 1656[56] la sua vedova Caterina, figlia di Bartolomeo Mazzoleni[57], fa contratto con Alessandro, figlio di Bartolomeo Frosio-Roncalli, che abita a Cafrosio di Piazzalunga. La natura ed il contenuto di quel rogito non manca di sorprenderci, la vedova è rimasta senza risorse con tre figlie ed un figlio chiamato Salvatore. Il padre, Felice Semenzi, aveva iniziato il figlio all’arte di fabbro ma, troppo giovane, l’apprendista non fu in grado di lavorare da solo e di gestire la fucina. Il Frosio, in quel rogito, s’impegna a formare il giovane Salvatore nel mestiere di fabbro e di restaurare la fucina[58], in particolare installare un soffione a vento[59], il tutto a proprie spese. In cambio la vedova lascia la proprietà di alcuni beni, in Locatello, così descritti:

Nominatamente de tutti lì infrascritti beni casetta e caliggio e raggione, cioè: una pezza di terra posta nel sacho dimagna detta a Cha del q. Cornelio Balossi del Comune di Locatello della valle Imagna (…) dove si dice il campo del Balosso alla quale a mattina confina i heredi del q. Marcho e Giova. Batta. Moscheni detti Vezoni (…). Un’altra pezzola di terra in detto locho hortiva, prativa (…) con la sariola di una perticha e mezzo incirca dove si dice l’horto ala riva del Balosso sopra la sariola alla quale à mattina et mezodi il d°Martino e il Gaspar Locarini a sera il letto della sariola e a monte il fossato detto la Val Grona. Item del letto della sariola in detto loco dal principio dove si leva dal fiume Imagna sino alla caschata della fucina che era di raggione del q. Felice Semenzi con il caliggio dirupato di essa fucina in detto loco senza tetto ne muraglie come giace dove si dice la sariola, la fucina e il molino di Balossi con tutte le raggione di essa sariola e caliggio (…).

 Garzaroli

Nel 1537[60], il mulino con follo, torchio e pesta apparteneva alla famiglia dei discendenti di Giobbe (o Job), il patrimonio fondiario della famiglia era imponente e per evitare conflitti tra i figli eredi, Defendo, figlio del fu Pietro Zanni Job de Locatellis, uomo di oltre 60 anni, divide i suoi beni, case e terre in Selino contrada Catayoco, in Locatello oltre che Codeghelli, Cativanome e diversi terreni in Rota. Abbiamo ritrovato per quest’opificio un vecchio contratto d’affitto, estratto dagli archivi del notaio Giovanni Giacomo Moscheni-Zanucchini di Rota Fuori.[61]                                                   Locatio cum pactis

Il 2 del mese di agosto 1541, Valle Imagna, contrada di Rota, nel luogo detto Cha Brignolis.

Giacomo e Bellino fratelli, di età superiore agli anni venti, figli di Defendo fu Pietro Garsarolo Locatelli a nome del loro padre Defendo, affittano a Giovanni Antonio del fu Zanni Stefano de Cornalita e a Battistino del fu Martino di Tommasino d’Imania de Carminati fino alla festa di San Martino ventura ed oltre per anni nove, una pezza di terra con casa, orto e coltivata a vite e per la maggior parte regressiva in contrada di Locatello del comune di Valle Imagna, episcopato di Bergamo, nel luogo detto in Codegello con una casa e una loggia di sopra unite tra loro con muri, solai, col tetto a piode, con porte, con un mulino, un follo per follare i panni, un pestello e un forno per il pane, un torchio per fare l’olio e con altri utensili utili e necessari a macinare, follare, torchiare come è necessario a simili edifici.

Confini della terra: a est la valle, a sud il letto del fiume Imagna, a ovest la valle e a nord una proprietà degli eredi di Giacomo della Botta dei Locatelli, la terra misura circa venti pertiche.

Gli affittuari pagheranno ai locatori venti soldi imperiali fino a San Martino e poi, ogni anno, lire 24, cioè 12 a ciascuno dei due fratelli. I locatori si impegnano a rifare e riparare il torchio e il forno per il pane entro il mese di settembre in modo tale che alla fine di settembre i conduttori possano fare l’olio e lavorare con il torchio; si impegnano inoltre, a proprie spese, alla manutenzione delle parti in legno e di quelle in ferro del follo, del mulino, del torchio e del forno per il pane per tutto il tempo del contratto.

Si impegnano inoltre alla manutenzione del ponticello sopra la seriola che scorre a fianco dei detti edifici e e tenere sgombra la roggia sotto detto ponte. Si impegnano inoltre a dare ai conduttori tutti i panni di lana da loro prodotti perché, dietro pagamento, siano preparati, follati e rifiniti.

Si conviene che Defendo possa macinare, durante il periodo del contratto, tutte le biade necessarie a lui e alla sua famiglia e del suo bugato (specie di panno) senza pagare alcun prezzo ai conduttori.

Nel dicembre dell’anno 1542 il contratto verrà revocato.

Un altro contratto, anche questo interessante, dove Giovannino, detto Cremagnolo, manda suo figlio Giacomo a fare il garzone con suo cugino Vittorio (di Vanoni). Siamo nel 1553[62], l’accordo prevede che Vittorio porti con sé Giacomo in Schiavonia per 5 anni, l’apprendista imparerà l’exercitio merchantile nei negozi di Vittorio (negozi al plurale). Giacomo sarà nutrito e vestito decentemente a spese di Vittorio, il quale dovrà condurre il ragazzo in Schiavonia e riportarlo in valle Imagna, almeno una volta a metà del tempo. Nel caso in cui Giacomo non volesse tornare a casa, il detto Vittorio dovrà dare a Giovannino e Giacomo il denaro che spenderebbero per quel viaggio. Lo stipendio previsto al termine dei cinque anni è di Scudi 16 d’oro.

 

La famiglia possedeva beni in Chignolo d’Isola (1543) e nel 1561 Vittorio, figlio di Vanoni, è detto abitante di Chignolo. Per molti anni vediamo la famiglia litigare per la divisione dei beni, in Chignolo ma anche su Locatello in Coegia e Cativanome, soprattutto dopo il decesso di Gio.Maria, detto Borella, avvenuto nel 1563. Il 13 gennaio di quell’anno viene fatto l’inventario dei beni del fu Gio.Maria nella casa in Coegia.

Segnaliamo un estratto per avere un’idea di ciò che si trova in una casa di persone che lavorano la lana. Ci sono:

Nel fienile: 14 pecore, due capre e una capretta, fieno mazengo grasso[63]: pesi 80 (6,5 quintali).

Nel fondo della casa grande: lana filata in più mazzetti, pesa in tutto lire ventitré (18,6 kili), una mazzetta di stame filata e lire due e mezzo stamo filato vegio, lana negra lavata da lire diciotto, lana bretina cioè grosetti lire dieci, lana bianca lavata pesa lire dodici.

Uno cavagniolo pieno di stame e lana guasti.

Una pite di legno con il zucho per ordir panni.

(…)

Pelle n. quattro di pecora e agnello crude guaste

Lire due petenuzi de lana negra vegi. (…)

                                                Contratto per insegnare l’arte di pettinare la lana[64]

n.78

Il 8 gennaio 1557 in S. Homobone de Valdimagnia

Si dichiara per la presente ugualmente Bonetto figlio di Antonio Nanino di Mazzoleni per una parte e Antonio f.q. Francesco de Bonetto di Arrigoni per l’altra parte. Sono venuti a questi patti e accordo tra loro al modo sottoscritto.

Il predetto Antonio promette e si obbliga a stare con il detto Bonetto per un anno prossimo a venire e a servirlo lealmente nella sua faccende nell’arte di pettinare la lana. E detto Bonetto promette di tenere detto Antonio per il detto tempo e farli la spese del mangiare e bevere (…) e di insegnare a detto Antonio a suo potere e sapere in detto tempo l’arte sua di pettinare lana. E che detto Antonio debba vestire e sue spese in detto tempo (…). Che detto Antonio debba dare e pagare a detto Bonetto Lire 10 e soldi 10 per il suo merito e fatica ad insegarli detto arte de pettinare lana in detto tempo (…).

Bibliografia essenziale sul tema del lanificio

I piedi di legno – Paolo Malanima – 1988, Franco Angeli Libri

Aspetti e problemi di un’impresa mercantile laniera del bergamasco nel Sei e Settecento – Tesi di laurea di Alessandro Danesi – 1970/71.

Filatura e tessitura d’altri tempi a Vertova – Franco Irranca – 1979, Bib. Civica di Vertova

Filatura e tessitura d’altri tempi – Luigi Furia – Ardesio

I pannilana a Vertova e in Valgandino – Franco Irranca – 2012, Ass. Pro Vertova Onlus

La lavorazione dei panni lana e la siderurgia nel Medioevo e in età moderna – Gianpiero Tiraboschi – 2003, Comune di Albino

La pecora Bergamasca – Michele Corti e Giuseppe Foppa – 1999, Prov. di Bergamo

Gli Umiliati a Bergamo nei secoli XIII e XIV – Maria Teresa Brolis – 1991, Univ. Cat. del Sacro Cuore, Milano

—o—

Ringrazio Anna Rita Meschini e Zaccheo Moscheni per il loro aiuto!

—o—

[1] Charles Peguy, estratti della sua poesia: Sono nella stanza accanto.

[2] Marzio Mazzoleni, 1944-2019.

[3] Probabilmente le famiglie benestanti della valle utilizzavano anche spalliere, tappeti e panni da muro.

[4] 7376 pecore nel 1622 per tutto il vicariato di Almenno.

[5] Possiamo leggere Fuipiano, ma si tratta probabilmente di Locatello, fino al Cinquecento le due contrade ne formavano una sola.

[6] Storia Economica e Sociale di Bergamo – I primi millenni, il Comune e la Signoria, 1999 – p.257 e seguenti.

[7]François Menant: “Aspect de l’économie et de la société dans les vallées lombardes aux derniers siécles du moyen age.”

[8]Prof. Patrizia Mainoni: Per un’indagine circa i panni di Bergamo nel 200, in EAD, Economia e politica nella Lombardia medievale, da Bergamo a Milano fra 13 e 15 secolo.

[9]Liber datil mercantie communis Mediolani Registro del secolo XV – A cura di Antonio Noto – Università Bocconi – Milano, 1950.

[10] “Si può quindi formulare l’ipotesi di un drastico ridimensionamento di importanza rispetto alla situazione osservata per la prima metà del Trecento, quando i drapi valdimagnini erano sinonimo di panno bergamasco …” Patrizia Mainoni: Politiche fiscali, produzioni rurali e controllo del territorio nella signoria viscontea (secoli XIV-XV), in: Studi di storia medioevale e di diplomatica.

[11] La prima conseguenza fu un’emigrazione massiccia, tantissime famiglie abbandonano l’alta valle Imagna, fu anche il momento (1361) di una forte pandemia di peste.

[12] BCM – Archivi Comunali – Antico Regime – Estimi, 117 class. 1.2.16 – 116.

[13] Archivio della Curia Arcivescovile di Milano – Arch. Spirituale, sezione X – Visite Pastorale e doc. aggiunti – Pieve di Lecco, volume XV. n.27.

[14] Postér: rivendugliolo, barullo. Colui che compra cose da mangiare in grosso per rivenderle al minuto – Vocabolario Tiraboschi.

[15] Gli Estimi del 1476 danno una veduta sul bestiame della valle, quelli di Valsecca e Berbenno sono sufficientemente chiari per paragonarli:

vacche e manze          pecore e capre            muli e asini              cavalli

Valsecca                               143                             406                            13

Berbenno                             166                              240                            29                         6

[16] ASB – Archivio notarile – notaio Francesco Schiantarelli-Quarenghi, f. 4411, il 14 aprile 1609.

[17] Lo stametto (o stame) è un filato con cui si lavora l’ordito, può essere un misto di lana e canapa.

[18] Misure del panno bergamasco: di peso tra 52 e 60 libbre, cioè da 41 a 48 kg – lunghezza massima 16 parietes, una parete = 6 braccia = 96 (= m 65) – un braccio o cubito = m 0,68.

Una pezza di panno: 4 soldata > 1 soldata = 12 braccia > 48 soldata x 0,68 = m. 32,6, per un panno di circa 45kg serve la tosa di 40 pecore.

[19] Paolo Manzoni – Lemine, p.112.

[20] Gli Umiliati a Bergamo nei secoli XIII e XIV.

[21] Viene più volte citato frate Giovanni da valle Imagna, tra i discepoli con qualche responsabilità in Bergamo.

[22]BCM, I Bergamaschi in Genova e sua riviera nel secolo XIII – Angelo Mazzi, 1909.

[23] Si svolgeva alla fine del mese agosto e durava 9 giorni, i mercanti godevano di esenzioni fiscali.

[24] Negli anni 1421-1458, dunque sotto il dominio veneto, il Consiglio di Bergamo tenta di nuovo di proibire folli e tintorie fuori dalle vicinie della città, ma la richiesta viene negata da Venezia.

[25] Dopo il lanificio, la lavorazione delle pelli veniva in secondo per il numero di addetti, i bisogni sono enormi per l’abbigliamento, o per i calzolai. Dobbiamo anche pensare che la macinazione dei pigmenti per tingere o la riduzione in polvere della corteccia di quercia per estrarre il tannino, indispensabile al trattamento delle pelli, necessitava dell’utilizzo della mola e dei pestelli del mulino.

[26] Le stoffe sono dette “appareggiate” = rifinite.

[27] “appareggiatore”

[28] Faldèla: due libbre di lana (Voc. Tiraboschi)

[29] Carlo f.q. Giuseppe Gnecchi di Corna.

[30] Il guado, da cui si estraeva il colore indaco, vegetale coltivato nella pianura al sud di Bergamo.

[31] Paolo Malanima – I piedi di legno.

[32] Per la bergamasca, la prima citazione di un impianto meccanico di follatura, risale al 1023 a Mariano al Brembo – Tesi di laurea di C. Sala – Acque e mulini tra Serio e Brembo dall’alto medioevo al 1248 – Università degli Studi di Milano 1997-98.

[33] Dati estratti da Anagrafe Veneta 1766-1770 da Pietro Gritti in: L’uso delle acque: magli, molini e industrie dai paesi di testata a Ponte S. Pietro – “Il fiume Brembo” di Lelio Pagani – Prov. di Bergamo, 1994.

[34] Industria tessile casalinga, numeri alla fine dell’Ottocento, in: Statistica Industriale – Lombardia – Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio – 1900.

Telai per lino o canapa Telai per materie miste Giorni di lavoro all’anno
Bedulita 4 120
Berbenno 4 60
Brumano 3 270
Capizzone 6 90
Corna 6 6 30
Costa 2 90
Fuipiano 3 240
Locatello 3 30
Mazzoleni 3 60
Roncola 4 90
Rota Fuori 4 180
Strozza 4 90
Valsecca 5 180

 

[35] “Anagrafi venete” in Storia Economica e Sociale di Bergamo – Fra Ottocento e Novecento – Il decollo industriale – 1997, Fondazione per la storia economica e sociale di Bergamo. Pagina n.21.

[36] Uomini 2 e donne 112 per una media di 150 giorni di lavoro all’anno.

[37] 101 a Strozza.

[38] Statistica Industriale – Lombardia – Ministero di Agricoltura, Industria e Commercio – 1900.

[39] Storia Economica e Sociale di Bergamo – Fra Ottocento e Novecento – Il decollo industriale – 1997, Fondazione per la storia economica e sociale di Bergamo. Pagina n.28.

[40] Alla sua morte il patrimonio familiare è stimato tra i 9495 e 10800 Scudi, da tre persone di fiducia, terre, case, mulino in valle per ettari 31,4.

[41] ASB – Archivio notarile – notaio Marsilio Rete-Roncalli, filza n. 7803.

[42] Litri 2969.

[43] La sarza fu un panno di lana ordinario, usato dai contadini.

[44] Pietra minerale per fare tintura cilestra.

[45] Roversino: panno di lana con pelo lungo sul rovescio

[46] Fustagno: tela bambagina poteva essere una mischia di lana, lino, canapa e cotone

[47] Coperte di lana per il letto.

[48] Nastro.

[49] Questo patrimonio comprende tantissimi crediti da riscuotere. In valle Imagna sono 223 le persone considerate come crediti buoni e mezzani per Lire 5969, altre 100 persone dette fallite o di poca speranza per Lire 5308. Su Bergamo 202 crediti “buoni” di Lire 36072 e quelli “falliti” sono 122 di Lire 13041.

[50] All’inizio dell’Ottocento, la famiglia Frosio di Cepino: al nome del prete Alessandro, prete Francesco e Antonio figli di Carlo, sono proprietari di un edificio ad uso di filanda da seta, in Cafrosio, mappale n.233.

[51] Bigat, baco da seta.

[52] Marcantonio Berizzi di Locatello, nel 1694, fa contratto con Francesco, figlio del quondam Flaviano Spampatti di Gandino. Quest’ultimo viene impiegato come foladore autorizzato a follare. Quando l’impianto rimane libero dal lavoro di Marcantonio, l’impiegato viene pagato Lire 30 al mese per un anno, Marcantonio deve assicurare il vitto ed il vestiario di Francesco che dovrà anche nei giorni di fiera andare dove occorrerà al detto Berizzi. Nel maggio 1693 Francesco Spampatti è già residente in Locatello, appare come testimone, descritto come folatore da pani de lane, certamente già impiegato dal Berizzi. La famiglia Stampatti di Gandino, alla fine del Settecento, faceva parte dei grossi produttori di pannilani.

Si vede che il contratto non fu rinnovato, l’anno seguente Marcantonio Berizzi firma una convenzione con Giovanni Battista, figlio di Bernardo Zanella di Vertova (lì troviamo quello che dovrebbe essere il capostipite dei Zanella della valle, maestri falegnami e fabbri in Capignolo). Le condizioni cambiano del tutto, il nuovo follatore viene pagato a cottimo, Il Zanella dovrà follare ben fedelmente con lì patti, modi e forme infrascritti: sia tenuto di follare e tingere e fare ogni cosa che occorrerà, Marcantonio si obbliga a pagare al follatore per cadauna pezza di panno Lire 2:10 e cadauno centenaro di meselano L. 3: e per cadauna volta che tingerà L. 1: con obbligo, al detto follatore, per ogni pezzo o per ogni tintura di fare due cariche di legna nei boschi del detto Berizzi – ASB – not. Antonio Gervasoni di Locatello, filza 6044. Atti del 1 maggio 1694 e del 4 dicembre 1695.

 

[53] ASB – archivio notarile – not. Antonio Gervasoni di Locatello, filza n.6045, il 21 ottobre 1702.

[54] Piazzalunga corrisponde alla striscia di terra pianeggiante lungo l’Imagna tra Caretti e Cà Balossi.

[55] ASB – archivio notarile – not. Benedetto Moscheni-Zanucchino, filza n.3215, n.191 del 1 novembre 1621.

[56] ASB – archivio notarile – not. G. Antonio Farina-Manzoni, filza n.4129.

[57] Detto Michiletti, de Locatello.

[58] Il rogito non abbastanza esplicito per localizzare la detta fucina, ma supponiamo che si tratta di Selino.

[59] Mantice di fucina.

[60] ASB – archivio notarile – notaio G.Giac. Moscheni Z. filza n.1737, n.82, il 29 gennaio 1537.

[61] ASB – archivio notarile – filza n.1738, rogito n.153.

[62] ASB – Archivio notarile – notaio G. Giacomo Moscheni Z. filza n.1719, n.36 il 29 settembre 1553.

[63] Fè mazench – fieno segato di maggio (Voc. Angelini).

[64] ASB – Archivio notarile – notaio G. Giacomo Moscheni Z. filza n.1720.