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Il lungo cammino

 

 Prima di salire nelle barche, quelli che partivano davano un ultimo arrivederci a  parenti e amici venuti ad accompagnarli. Si piangeva, ci si scambiava auguri, ci si prometteva, senza troppo  crederci, di           ritrovarsi in seguito; ci si abbracciava un’ ultima volta, famiglie fin’allora unite si separavano per sempre.                            G.Medzadourian - Les exilés de la paix  (1975) Paris, Entente

 << Fa so fagòt  >>

 Pezzi di vita, uniti l’uno con l´altro, corti brani di esistenze scomparse, questo racconto vuole essere un segno, un’ impronta, un marchio indelebile per ricordare il lungo cammino dell’emigrazione. Queste righe sono scritte come altri  farebbero un nodo al fazzoletto  e  devono servire di promemoria per coloro che sono inclini  a dimenticare il passato, un  piccolo segnalibro nel gran manoscritto delle migrazioni italiane.

Da secoli le montagne orobiche hanno visto tanti, troppi uomini, lasciare le loro case, la loro valle natale, andarsene come l’ebreo errante, dai monti verso la pianura, dal freddo delle alture verso le sponde rischiarate del Po, da una regione, da un paese al l’altro, allontanarsi dalle loro famiglie per garantire loro la sopravvivenza.

Eroine loro malgrado, Caterina, Ines, Lidia e tutte le altre, attrici di primo piano, un tempo rimaste al paese lottando ogni giorno, risparmiando ogni mollica, mettendo tutte le loro forze nel divenire di quelli rimasti a casa, aspettando il marito, il padre o il fratello. Le migrazioni stagionali sono diventate più lunghe, il marito non sopporta più la solitudine all’estero (1), stufo delle “cantine”, delle esitazioni… i mesi diventano anni e la famiglia intera stacca gli ormeggi. Caterina, anche lei come altre, lascia dietro di sé i nonni. Cariche di fagotti, di pesanti valigie di legno o di cartone, qualche volte di bauli, i bambini mocciosi attaccati alla gonna partono per l’ignoto.

Tra Italia e Francia, quante andate e ritorno tutte queste famiglie avranno fatto? Stabiliti un tempo all’estero per guadagnare un modesto gruzzolo oppure definitivamente staccati della madre patria. Nomi, luoghi, percorsi diversi, verso Parigi, il Doubs o la Lorena, tutti hanno chiuso delle valigie, girato la chiave, un groppo enorme nella gola, lo stomaco annodato. Sono partiti.

 

 << Enda ‘n Calicut >>

 Sopravvivere

Nel corso delle mie diverse ricerche sulla storia della Valle Imagna ho trovato molti esempi che provano la mobilità dei valdimagnini, dal ‘5oo conosciamo il loro bisogno, l’assoluta necessità, d’andare fuori dalla valle a cercare altre attività per guadagnarsi il pane nel migliore dei casi, ma soltanto per sopravvivere per tanti altri.

In un’epoca descritta come “valle della fame“, da tempi remoti l’Imagna, e per tanti secoli , non ce la faceva a nutrire i suoi abitanti, i nostri contadini, fagotti sulla spalla, andavano a scoprire altri orizzonti. Altri, maestri in attività artigianale andavano a vendere la loro produzione di vari oggetti per lo più di legno ed altre varie merci. I più agiati anche loro, per altre ragioni, lasciavano la valle.

I valdimagnini già all’inizio del ’500 sono citati nel libro di Giovanni Silini: ”Bergamo 1512”, Narrazione degli avvenimenti politici e militari di un anno drammatico. Dal patrizio veneziano Marco Antonio Michiel (1484-1532).

<<…quelli di valle Imagna, fabbricano bacili ed altri simili recipienti in Liguria, nella Gallia Narbonense, nella vicina Spagna, in Lazio, Campania e Sicilia utilizzando il legname che cresce nei boschi di quei luoghi.>>

Descritti anche i valligiani della Brembana, Seriana, Cavallina, obligati anche loro ad uno schema identico. <<…Si può dire in generale dei Bergamaschi che sono una schiatta di uomini duri ed industriosi, che eccellono in ciò cui dedicano il loro ingegno…>>

Giovanni da Lezze nella sua descrizione del territorio bergamasco nel 1596 parla delle scarse raccolte e della povertà della gente in Valle Imagna, in qualche modo giustificando  le attività secondarie da lui esposte: <<…la maggior parte di queste genti vanno per il mondo…in negocii di mercantie….come Roma, Fiorenza, Romagna e Marca […] massime in Ancona, che delle quattro parte le tre sono le botteghe di quella valle…>>

Parlando di Rota: <<Di questa gente ce ne sono a Venetia a far arti perchè il paese è sterile, non si raccolie grano se non pochisimo formento et farro…>>

Parlando di Fuipiano: << Quel paese non produce altro che feno et percio è povera gente […] la maggior parte delle persone è fuori, chè ve ne sono da cento in su come a Roma, Bologna, Venetia et a Bergomo>>

Parlando di Mazzoleni: <<Il comun non ha altro che alcuni pochi boschi et pascoli inutili, le persone povere, molti de quali si ritrovano fuori…>>

Cepino: << Questa gente è tutta povera…>> Corna: << Gente povera…gran parte di loro vanno fori dil paese facendo l’arte del legname et ritornano a casa per due mesi dell’anno…>>. Selino: <<Tutta la gente povera, li huomini la maggior parte per la sterilità del paese vanno altrove lavorando di legname chè questa è sua propria arte…>> Stessa descrizione per Blello, Roncola, Strozza, Capizzone, quelli di Berbenno negoziano in merci nelle Marche e Romagna. Quelli di Locatello si ritrovano a Venezia, Friuli, Ravenna e anche in Francia. Gli abitanti di Bedulita sono tutti poveri <<bracenti et parte di loro a Venetia…>>.

Anche l’Abate G.B. Angelini nella sua descrizione della valle (1720) su cinque pagine per 4 volte segnala il fatto, parlando di Selino: <<… Si fila stame, a procacciarsi ‘l pane, va parte de gl’abitatori altrove: La fame i lupi caccia delle tane …>>. Per Valsecca: << … Gl’abitator d’altrove gir l’usanza seguono antica…>>. <<Cacciano fuori l’infeconde valli da sé gl’abitator, che altrove vanno a studi, all’armi, all’arti, e sorte dalli.[…] I fabri vanno in esteri paesi con queste merci, e vivon con tal’arte lungi da tutti lor parecchi mesi.>> (2)

Altre fonti per dare qualche esempio sulla popolazione di Rota:

Antonio Posta fu a Roma nel 1612, i fratelli Tondini nel 1774 ebbero un negozio nel Cremonese. Il Galeotti si trova nel Piacentino nel 1751. Giuseppe Tondini vive a Brescia nel 1758. Antonio Paglia risulta deceduto nel territorio Veronese nel 1692. Altri fratelli Paglia hanno un negozio in Valle Camonica (1764). Alessandro figlio di Giuseppe Moscheni nel 1791 vive a Soresina territorio cremonese, Paolo figlio di Giuseppe Gritti nel 1795 abitante Venezia, ecc …..

Per confermare tutti questi spostamenti, il rapporto tra nascite e morti degli abitanti di Rota Fuori, nel periodo 1613-1770:  ben il 30%  risulta morto fuori del loro villaggio di nascita.

Il censimento del 1802 indica che 29 famiglie, di Rota Fuori, vivevano della vendita dei prodotti di legno e d’altre merci “per il mondo“.

Maironi del Ponte nel 1820 descrive gli abitanti di Rota Dentro: <<…la maggiore parte delle quali, compiute essattamente le faccende di campagna si dedica alla negoziazione di poche merci, e col carico di esse va girando quasi in tutte le parti del regno Lombardo Veneto…>>

In un Registro degli Stati d’anime (1774-1783) della parrocchia di Berbenno  uno dei parroci, probabilmente nel corso dell’700, scrive l’abbozzo d’una lettera per domandare un aiuto a un notabile sconosciuto, il tema di questa supplica (3) è proprio la grande miseria degli abitanti di Berbenno.

Dall’archivio parrocchiale di Berbenno, non mancano gli esempi di persone, famiglie, stabilitesi a Verona nel ‘700. Sempre degli archivi di Berbenno : 129 famiglie tra 1899 e 1934 hanno lasciato il comune, tra i quali 74 per la Francia e 4 per la Svizzera (4).

Nel censimento del 1931 del comune di Fuipiano risultano assenti per lavoro 358 residenti su 635, tra i quali un centinaio emigrati all’estero a fare i muratori (5).

Si potrebbero moltiplicare gli esempi, dati ed altre tristi e faticose vicende della nostra gente, ma il fenomeno è conosciuto da tempo, ancora oggi la miseria passata e l’emigrazione sono ben presenti nella mente dei valdimagnini.

 

(1) << nei casi più favorevoli vi è la malattia dell’anima: presto l’emigrato si avvede di essere solo, e il solo è un miserabile, un disgraziato, un reietto. Il ricordo della famiglia, degli amici, del paese natio è l’incubo o il vampiro dell’anima sua: il cuore si tormenta del sentirsi vuoto, e il vuoto del cuore è la più opprimente delle infirmità… Presto i sogni della felicità s’infrango nella realtà di crudeli desillusioni, si accumulano tutte le angoscie dell’esilio e il rammarico della patria lontana>>  Ernesto Comucci – 1885 “Della emigrazione e del pauperismo”
(2) G.B.Angelini – Per darti le notizie del paese – Vincento Marchetti, Ateneo di Bergamo 2002
(3) << Attesa non dico la grande ma l’estrema miseria che nella maggior parte delle Famiglie regna come può capire in questa comune, Lui solo a preferenza di molti altri è quell’unico soggetto che può per qualche tempo trovar modo di sollevarle; questo lo dico io e lo dicon tutti questi membri di carità che accompagnano la mia lettera; uniti vengono appunto da lui, lo pregano e in lui confidano e da lui son sicuri che saranno ben accolti. … procuri e si impegni prima per il decreto di quella … necessaria che giudica bene in tali critiche circostanze, poi per l’effettuar d’esso decreto in sostegno di questi miserabili si può dir disperati ed in procinto di mancare sicuro che oltre una soddisfacente gratitudine merito avrà appressio Dio: quid uni … fecistis mihi fecistis. Queste parole le riceva come dette di persona e novamente lo prego di tale assistenza. Mi scusi se mi mostro importuno e … >>.
Gianfranco Ferrari – Trascrizione degli archivi parrocchiali- L’illustra famiglia dei conti Petrobelli di Bergamo, grande proprietario terrieri in Berbenno potrebbe essere la destinataria di questa lettera.
(4) Gianfranco Ferrari – Trascrizione degli archivi parrocchiali – “Manoscritto anonimo che si trova in una cartelletta considerata Chronicon”
(5) Diego Gavazzeni – Tesi: “La transumanza, Fuipiano anni 1900-1940”
 
 

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<< ...e dopo es riat fò ‘l Colombo… con zét del Portogal e de la Spagna, ai ghè curicc incontra a domandaga: “come ala sö gliò ‘nval d’Imagna?”. >> - Bortolo Belotti

 

Sulla strada

Cosa pensava il giovane bergamasco sbarcando a Castel Garden (stazione di arrivo a New York, prima dell’apertura nel 1892 di Ellis Island)? Una lettera scritta con un gessetto dal medico (1) sul vestito, determinava la buona fortuna o meno per l’avventura nord americana.

Nello stesso momento un valdimagnino, che ancora più lontano, appoggiato al impavesata d’una nave, arriva nella profonda insenatura del Rio della Plata e scopre il  porto di Buenos Aires. Cosi discosto della sua valle nativa, sognerà a una vita migliore, o ha già la nostalgia del paese lasciato?

Anche con l’idea di ritornare, la partenza che sia per l’America o qualsiasi altro paese d’Europa, fu sempre una ferita dolorosa, caricata di speranza.

Passando le frontiere, non sempre legalmente, superando le montagne, percorrendo aride pianure assolate, camminando per tutti tempi,  hanno attraversato l’Europa, lavorato in tutti paesi, imbarcati a Genova o spesso al porto del Havre in Francia. Giovani migranti, alcuni celibi, assetati d’avventura con il bisogno d’andare a vedere quello che succede dietro l’orizzonte. Ma per la gran parte erano responsabili d’una famiglia a volte rimasta nel paese a volte che li accompagnava, e sono partiti, spesso per l’ignoto. Ma tutti con la speranza di guadagnare qualche piccola cosa in più, un pò di superfluo, il gradino al disopra della sopravvivenza: la dignità. Nessuno di loro vede il proprio avvenire all’estero, dovrebbe essere soltanto per un periodo, il tempo di risparmiare, fino a che le cose non vadano meglio in Italia, forse si potrà comprare un pezzo di terra… Modesto sogno per potere tirare avanti.

Nel 1868 un deputato milanese manifestò la sua preoccupazione davanti al parlamento:

<<…non è confortante né è buono per la causa politica del nuovo regno d’Italia il fenomeno a cui tristemente assistiamo di moltissimi cittadini costretti dalle fame ad emigrare o che sia per vaghezza di far fortuna se questa gente espatria. Questa gente se ne va piangendo e maledicendo ai signori e al governo. Sono terribili imprecazioni che contristano chiunque le oda>>

Purtroppo, col tempo le campagne si svuotano ancora di più, i monti bergamaschi si fanno deserti, fenomeno incontenibile e irreversibile. Nel corso di quaranta anni 14 milioni d’italiani espatriano.

All’epoca dell’unificazione e dell’indipendenza dell’Italia il paese era veramente arretrato: analfabetismo, mortalità infantile raggiungono dei tassi incredibilmente elevati, carestie ed epidemie erano ancora presenti. Famiglie troppo numerose in una popolazione eminentemente agricola che subirà in pieno una gravissima crisi agraria, cui s’aggiunge una punta demografica sproporzionata alle risorse economiche, ed ecco gli elementi che provocheranno un esodo massiccio. L’emigrazione fu anche una forma di protesta contro la legge del giovane stato italiano sulla leva militare obbligatoria che teneva troppo tempo i giovani sotto le armi.

Si possono datare al 1871 le prime emigrazione di massa, nonostante la preoccupazione del nuovo stato italiano, che tenterà invano di fermarle. Inizia allora il fenomeno migratorio  più importante nella storia dell’umanità, non si è mai visto uno spostamento di popolazione simile.

(1) “B” per problemi di schiena, “C” significava congiuntivite, “S” senilità ecc…

 

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Verso la Francia

L’emigrazione italiana verso la Francia è una vecchia storia, la presenza di uomini d’affari italiani è segnalata nel XIII secolo nelle grandi fiere commerciali francesi, negozianti di tessuti e spezie. Dal XV s. si nota, presso i sovrani e i nobili, la presenza d’artigiani, artisti, architetti di grande competenza, sappiamo tutti delle “elite”:

Un certo Francesco Petrarca è ad Avignone nel 1312, Leonardo de Vinci arriva in Francia nel 1515, Caterina de Medici nel 1533. Uomini politici che un tempo vivevano in Francia: Giuseppe Mazzini, Francesco Crispi, lo scrittore Gabriele D’Annunzio, il pittore Amedeo Modigliani. Altri italiani: intellettuali che combattono a Parigi con gli insorti della Comune nel 1871 e subito dopo i rivoluzionari, libertari, anarchici del l’inizio ‘900.

Possiamo rilevare i simboli superati oggi ma realtà di ieri: musicisti di strada, saltimbanchi ed ammaestratori di orsi che adesso fanno parte d’una triste visione pittoresca e folcloristica o quelli che potrebbero fare sorridere altri: il figaro meridionale, i venditori ambulanti, gli spazzacamini savoiardi o i lucidatori napoletani. Sembra incredibile, ma non è un mito: i bambini soffiatori di vetro alla periferia parigina, migranti involontari, vittime di schiavisti tanto italiani che francesi.

Niente potrà nascondere la grande massa dell’immigrazione laboriosa, conosciuta da secoli, sempre migrazioni della miseria, fuga dalla povertà. Coorte di lavoratori stagionali, operai agricoli, muratori, sterratori, intonacatori, vetrai, arrotini, spesso sfruttati o vittime d’una xenofobia latente, ostracismo dell’ ignoranza.

Ci sono due strade principali per l’emigrazione italiana verso la Francia, la prima, la più antica e la più nota: quella mediterranea, imbarcati a Napoli o a piedi da Genova si arriva a Marsiglia, da là, la strada del nord passando per la valle del Rodano, da Lione verso Parigi,  oppure la strada per la regione Lorena.

Ma il percorso più facile per i migranti lombardi fu quello della Svizzera, territori di lavoro molto ambito, da secoli, dai lavoratori bergamaschi, prima delle diverse destinazioni francesi. Migrazione stagionale facilitata dal traforo della galleria del San-Gottardo (1872-1882) e dalle nuove costruzioni ferroviarie. La cita di Basilea in Svizzera è una “rotatoria” importante sia al nord per la Germania o all’ovest per la Francia.

La maggior parte dei migranti oltrepassa le Alpi attraverso il S.Gottardo o il monte Cenis (galleria ferroviaria inaugurata nel 1871), più tardi dal Simplon, le frontiere-stazione sono Chiasso e Domodossola.

Nel 1881, la Francia accoglie più della metà dei migranti italiani installati in Europa cioè 38% de l’emigrazione italiana mondiale.

 

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personaggi lungo cammino

 

Due foto

Il pittore di una tela bianca immortala il suo soggetto, tratteggia  la sua visione di una persona viva. Il pennello scorre sul quadro tentando di descrivere un individuo, un temperamento, dei sentimenti, vuole dare vita a un insieme di tratti e di colori.

Anni, secoli dopo, rimarrà un’opera diversamente interpretata, secondo quello che guarda, il dipinto riflette la personalità dello scomparso. La scelta di un colore o la pennellata definisce un tratto di carattere, e dietro  tutto quello, possiamo dire, che appare la marca dell’artista, come in filigrana si distingue la silhouette del pittore, la sua personalità.

Da due foto il narratore tenta di percorrere la strada inversa, vuole descrivere la vita e lo stato d’animo di due visi rappresi su un cartoncino, prova a schizzare qualche cenno di un’esistenza, abbozza la sua visione e lascia correre la sua immaginazione per ridare vita ai personaggi scomparsi. Forse la sua fantasia va aldilà della realtà, vorrebbe un dipinto, un testo, conforme alla verità, ma come il pittore, anche lui si lascia prendere in un vortice di sentimenti incontrollabili e lascia intravedere le sue emozioni.

Il narratore ha conosciuto Ines, piccola donna fragile, attempata mela grinzosa, sdentata faccia, nonostante tutto imbellita da questi penetranti occhi blu. Nella sua casa alla Torre di Rota Fuori camminando con difficoltà, dal camino all’orto dal negozio del Cencio al Prapelitone tirando avanti la sua vecchiaia.

Il narratore, allora cosi piccolo, ha visto Ines, che era ancora mamma, chiamare “Pepino” il suo primogenito con questa voce sfumata dall’accento tipico della valle Imagna, il bambino, di cinquanta anni e più, subito obbediva. Quarantacinque anni dopo, questa inimitabile voce risuona ancora.

Caterina e sua figlia Ines sono veramente esistiti, i luoghi, dati, eventi sono reali. Sono andate sul Lungo Cammino dell’emigrazione, hanno conosciuto le difficoltà descritte. Piccole erbe trapiantate di un paese all’altro, le due donne lasciano, in queste due foto, l’impressione di una grande forza.

L’istinto di sopravvivenza, l’avventura dell’espatrio, le paure, i bisogni dei migranti rimangono un grande mistero per tanti. La determinazione di uno sguardo su una foto basterà a portare avanti un progetto, Caterina e Ines hanno intimato al narratore di non lasciare nell’oblio la vicissitudine di queste avventure umane.

 

Caterina
(1863-1942) – figlia di Pietro Angiolini, moglie di Giuseppe Paglia.

 

 

(Narratore) Rota Fuori – 1900

Tutte le donne del casato Paglia sono lì: Caterina Quarenghi, la piccola ma robusta nonna di 63 anni. La nuora, un’altra Caterina con le sue tre figlie, tutte sedute al sole davanti la trecentenaria casa del Prapelitone, a filare, la mattinata è stata dedicata al lavoro nell’orto.

In questa fine di pomeriggio, nelle loro occupazioni quotidiane, i due uomini, padre e figlio Paglia sono affaccendati all’essiccazione del fieno, falciato il giorno precedente. La donne lavorano la lana, la nonna insegna alle nipotine i gesti tramandati di generazione in generazione. La trasformazione della lana tra le dita usate, i semplici strumenti maneggiati da madre a figlie, esperte della rocca, l’arnese scorre tra le mani usate, il pelo dell’animale ritorto si affina, lo stame si arrotola sul fuso.

Le domande una dietro l’altra non si fermano, Ines vuole sapere tutto, l’adolescente interroga la madre in questa calda giornata di maggio 1900.

Caterina Angiolini i capelli trattenuti sotto un fisciù bianco annodato dietro la nuca ha poco delle contadine della valle. In questa bella primavera del nuovo secolo la donna di 37 anni non ha ancora l’atteggiamento comune alle donne della sua età, rotte dal lavoro, piegate sotto il peso delle privazioni. Caterina, il busto altezzoso, lo sguardo determinato, conosce il lavoro della terra, sa pulire le sue pertiche di campo, seminare o trapiantare nell’orto; porta la gerla, maneggia il falcetto, insomma lavora come le altre. La differenza viene dal fatto che lei vuole salvaguardare la sua dignità di donna, non accetta di essere soltanto un animale tra i tanti, che lotta per la sopravvivenza della sua progenie.

Ha cura di lei, dalle sue diverse esperienze ha capito, a modo suo, che un essere umano la sua floridezza se la deve costruire, la fatalità non è inamovibile. Dunque la donna è sempre pulita, i capelli accuratamente pettinati, s’ingegna a dare ai vecchi abiti rappezzati un pò d’eleganza. Prepotenza secondo le sue vicine, lei non se dà pena.

La madre risponde a Ines,la primogenita:

– Un mese dopo la tua nascita, don Giuseppe, il nostro parroco in quest’epoca era il reverendo Giuseppe Gentili, era stato contattato da gente milanese, conoscenze dei Cardinetti di Mazzoleni, il vecchio marchese Gerolamo Sommi-Picenardi e sua moglie Paolina venuti qui, alle fonti. La loro nuora stava per partorire, Maria Anna moglie del signor Gherardo, era il suo terzo figlio e volevano una balia per il neonato. L’offerta era buona, i soldi servivano – Caterina si sente obbligata a giustificare:

– Castagne e polenta non bastano per vivere! E tuo padre stava per partire per la  Francia. Non volevo lasciarti, ma mia cugina, la Maria Chiara, aveva appena partorito anche lei. Tutti mi hanno convinto ad andare, anche tuo padre fiducioso in Maria Chiara che ti ha allattata. Il dottor Cardinetti, quello delle fonti, mi ha visitata e sono partita con loro a Milano per incontrare i signori Gherardo e Maria Anna. Arrivata lì sono rimasta stupita, il grande palazzo, i mobili, c’era una cameriera, una cuoca ed anche una dama di compagnia. Ho fatto un’altra visita con un medico che ha provato anche il mio latte!

Ho ricevuto due vestiti sontuosi con due cuffie ricamate e dovevo portare degli orecchini e una collana in corallo per proteggere il latte buono e abbondante. Mangiavo tre volte al giorno! Carne, zuppe di verdure, pane bianco e latte con miele a non finire!

Ero trattata bene, la signora Maria Anna molto timida parlava poco, ma era una brava persona con me. Il padrone di casa, il signor Gherardo lui era più esigente, lavorava per tenersi occupato, ma non ne aveva bisogno, erano cosi ricchi…

Sono rimasta a Milano un anno, una volta nel mese di giugno, mi ricordo, tuo padre di ritorno dalla Francia, si è fermato per vedermi a Milano – La madre smette di parlare, per spiegare ad Ines che suo marito ha ingoiato una scodella di minestra,  a in presenza della coppia e della dama di compagnia. E dopo una mezzoretta, il povero Giuseppe è quasi stato cacciato fuori della dimora. La relazione tra uomo e donna, era proibita in questo momento, poteva alterare il latte e tutte le attenzioni relative alla balia aveva un solo scopo: il benessere del bimbo allattato. Pudica, Caterina, riprende il suo racconto.

– A Natale del 1888 potevo di nuovo occuparmi di te, qualche settimana dopo tuo padre mi scrisse che potevamo raggiungerlo in Francia, aveva trovato una casa per noi! Mi ricordo bene del 12 febbraio 1889, la partenza per l’interminabile viaggio, l’inferno!

-La valigia in una mano, tu nel altro braccio, camminavi  difficilmente, avevi quindici mesi, dovevo sempre portarti in braccio..

Caterina diventa febbrile rammentandosi il faticoso trasferimento, ritornando 11 anni indietro, i suoi pensieri si affollano.

Non può rifiutare l’aiuto del suocero, Giovanni Battista Paglia, uomo vigoroso di 59 anni, che aveva la piena responsabilità della giovane nuora, in assenza del figlio si doveva  prendere in carica la sua piccola famiglia. In più il povero Pietro Angiolini di Capiatone, padre della nuora, fu  suo compagno di lavoro ( un tempo hanno fatto la legna insieme). Caterina non aveva conosciuto il padre, deceduto qualche mese dopo la sua nascita nel 1864.

Fino a Bergamo, il percorso si faceva in biroccio, il carro scoperto, trainato da due mule, andava piano ma fortunatamente non pioveva e non faceva neanche tanto freddo per febbraio. Il tragitto tra Bergamo e Milano, con il treno,  Caterina l’aveva già fatto da sola di ritorno dai Sommi-Picenardi, oggi si faceva nell’altro senso.

Il suocero di Caterina, era un personaggio, a Rota imponeva il rispetto, già dalla impressionante larghezza delle  spalle, una montagna di muscoli l’uomo aveva due lunghi baffi neri che contrastavano con i capelli bianchi, sempre coperti da un copricapo di feltro a larghi bordi. Tra tutti i Paglia del Prapelitone, era l’unico con questo aspetto di lottatore di fiera, con due occhi blu d’una freddezza ombrosa. Infatti, la sua apparenza fuori del comune, nascondeva un tranquillo e calmo contadino che divideva il suo tempo, secondo le stagioni, tra le sue due attività  quella di boscaiolo e il lavoro delle sue terre.

Nonostante avesse perso una giornata di lavoro, ma d’altronde c’era poco da fare in questa stagione, per accompagnare la nuora, per lui significava l’opportunità di vedere questo treno che corre su una strada ferrata! Dal 1857 che passava il treno in città, e lui non l’aveva mai visto. O nei boschi o nei campi, la sua visione del mondo si limitava alla Valsassina o il val Taleggio, Battista fuori della valle Imagna non aveva niente da fare. Non andava quasi mai nel capoluogo della provincia. In tutta la sua vita, sarà sceso soltanto 3 o 4 volte per recarsi in città alta, ma non conosceva la parte bassa di Bergamo.

Arrivata a Milano alla fine del pomeriggio, Caterina deve aspettare le cinque della mattina seguente la partenza del treno per la Francia.

La stazione centrale è un formicaio, gente dappertutto, i rumori sotto questa altissima tettoia vetrata fanno eco, i fischi delle locomotive risuonano. I sei binari tutti occupati da convogli in partenza, i quattro con i marciapiedi accolgono passeggeri di tutta Italia.

La povera Caterina, un attimo si sente persa, stringendo Ines contro il suo petto, cerca di aprirsi una strada. Intorno a lei un vortice di dialetti sconosciuti, famiglie rumorose, bambini che piangono, carrelli di merci, facchini piegati sotto pesanti bauli, uomini di forza che spingono delle carriole.

Caterina esce del binario ingombrato per arrivare nel largo viale perpendicolare dove i diversi marciapiedi si svuotano. Una marea umana sembra spostarsi in tutti sensi, persone di tutte età, tanti migranti male vestiti, la valdimagnina più di tutto sente l’apprensione di questi uomini, fazzoletto intorno il collo, meridionali con la pelle cosi scura e lo sguardo di fuoco. In mezzo a  questa confusione Caterina, spostandosi da destra a sinistra, evitando pacchi, valigie rovesciate, superando tutti gli ostacoli, arriva nella parte centrale, l’anima della stazione, il gigantesco atrio alto più di 20 metri.

La giovane madre non può impedirsi di fermarsi, rimane a bocca aperta davanti a questa cattedrale! Ma subito si fa spingere dalla folla che arriva dietro di lei. Ines, gli occhi spaventati, stringe la cappa della madre, le braccia  protettrici non bastano a rassicurarla!

Come lei sono decine, soprattutto giovani uomini, ma anche numerose famiglie in questo parapiglia, indescrivibile disordine di cose e di persone.

Finalmente Caterina arriva in una sala di attesa, ovviamente piena, ma oltre il rumore assordante una calmo relativa tranquillizza la giovane donna. Lo smarrimento di Caterina e il panico della bambina nelle sue braccia impietosisce una madre seduta su una panchina di legno. Mollando uno schiaffo al figlio che non obbedisce abbastanza velocemente, la matrona tira il ragazzo d’una diecina d’anni per il braccio e libera il posto per Caterina, che  è già esaurita dal corto ma allucinante percorso, la valdimagnina non si fa pregare.

La sua vicina di panchina è una donna dalla pelle dorata, occhi verdi, lunghi capelli neri scoperti ma legati sulla nuca in una strana crocchia complicata. La straniera del sud, vestita d’una lunga gonna d’un pesante panno nero, un bustino ugualmente nero e le spalle ricoperte d’un scialle di lana, inizia un difficile dialogo con lei.

Lo strano dialetto meridionale sembrava incomprensibile a Caterina, ma probabilmente lo era ben di più per l’altra, che ascoltava il parlare dell’Imagna! Mano mano le due donne finiscono per capirsi, la meridionale più anziana della bergamasca veniva d’un paesino vicino Caserta, con i suoi tre bambini doveva raggiungere il figlio maggior e il marito anche loro in Francia. La difficoltà di vivere nel napoletano assomigliava molto alla miseria orobica, senza lavoro anche la gente del sud  espatriava.

Nella sala d’attesa illuminata da candelabri a gas, le due donne si organizzano. Nella corta notte milanese, impaurite dai movimenti incessanti dei viaggiatori in transito, una dopo l’altra vegliano. Dalle otto di sera la stazione si è svuotata un pò, qualche panchina si è liberata, i bambini estenuati appoggiati uno sull’altro dormono.

Intorno a loro intere famiglie si riposano, il lungo cammino per l’espatrio domanda la sua pausa, un momento d’indugio. Miscela di villani veneziani, cafoni del meridione, campagnoli umbri, uomini e donne affiancati in una sosta dolorosa, triste affiatamento silenzioso, uniti nella loro povertà. La mesta corte, rappresentanti di tutte le province, assemblea eteroclita d’indigenza e di disgrazia, riprende fiato. Le magre borse, fagotti composti d’un telo con i quattro angoli annodati insieme, riempiti da poveri cenci, servano da improvvisati cuscini. Sentori d’uomini, odori imbrattati, i profumi del bisogno si fondano con olezzi d’aglio emiliano, di formaggio padovano, di cipolle abruzzese, resti d’un scarno banchetto.

Incubo d’una notte senza fine, il sonno di Caterina assomiglia di più a una lunga camminata, alternanza di corti momenti d’assopimento e veglie in sussulto.

 Caterina Angiolini

Caterina Angiolini

 

Superato il confine e le montagne, la campagna francese sembra molto bella agli occhi sonnacchiosi di Caterina. Sono ore che il treno corre tra monti e pianure, le cime delle Alpi coperte di neve  hanno lasciato il posto a colline verdeggianti, prati e campi deserti per la stagione si succedono. Il cambiamento di convoglio a Lione viene fatto agevolmente, è lì che la napoletana, compagna della notte e del viaggio è scesa, una nuova esperienza positiva per Caterina: i meridionali sono come lei.

Il dondolamento della carrozza provoca un dolce sopore alla viaggiatrice, Caterina è spossata. La dura panchina di legno indolenzisce tutti suoi muscoli, Ines innervosita dal lunghissimo viaggio non le lascia un attimo di riposo. Il convoglio si ferma in numerose stazioni, per fortuna diversi italiani come lei, viaggiatori agguerriti, spiegano agli altri le tappe della spedizione.

Portiere e finestrini chiusi, l’odore del carbone s’insinua dappertutto, più di 24 ore di viaggio e Caterina si sente sporca. Quando la velocità diminuisce le volute del fumo della locomotiva vengono a leccare i vagoni, la gente tossisce, i vestiti impregnati dalle esalazioni sono sporchi di bruscoli di carbone.

Il lungo fischio della locomotiva spesso annuncia la traversata d’una galleria e Caterina, con un  gesto protettore, copre la bocca della bimba, l’ effluvio ancora più forte lascia nelle carrozze una leggera foschia disperante.

Le ore passano, il viaggio non finisce più, Caterina ha terminato le sue provviste, finiti il formaggio e il pezzo di polenta portati con lei. Rimane una mela, istinto da tempi remoti, dietro di lei generazioni di spiantati le hanno insegnato a conservare sempre qualcosa per tempi ancora più brutti.

Ines sporca dai piedi al capo gioca per terra, Caterina non tenta neanche più di farla alzare, si muore di sete. Già una volta ha fatto riempire sul binario d’una stazione la sua bottiglia di vetro, non vuole scendere troppo spesso …ha paura che il treno riparta senza di lei! Comincia a preoccuparsi, Giuseppe sarà alla stazione di Parigi? Avrà ricevuto la sua lettera?

Di notte, Caterina distrutta non si rende neanche conto dell’arrivo nella capitale francese, soltanto il cigolio dei freni arriva a fare uscire Caterina del suo torpore. Freneticamente si alza, svegliando Ines addormentata tra le sue braccia, già i passeggeri fanno la coda nel corridoio centrale.

Stava lì! Giuseppe il suo capello nero in testa, vestito e camicia bianca della domenica aspettava sul binario. Caterina si getta tra le sue braccia, in silenzio piange, esausta. Abbracciata tra i due adulti Ines anche lei piange, non riconosce quell’uomo che le mette i baffi umidi nel collo!

Epilogo:

Dalla gare de Lyon (Parigi) a Vitry sur Seine ci sono 9 chilometri che si fanno con il tramvai tirato da cavalli, Giuseppe ha trovato nella via principale di Vitry un piccolo appartamento al n°21 del boulevard Lamouroux. Un viale largo e bello  dove passa il tramvai, la strada fiancheggiata da due spaziosi marciapiedi pieni di alberi, le case sono tutte di uno o due piani.

E’ quasi un anno che Giuseppe lavora a Parigi come giornaliero, in questo febbraio del 1889 Caterina con la sua piccola famiglia inizia una nuova vita.

Per più di due anni, prima di ritornare a Rota, i Paglia rimarranno nella periferia della capitale francese in piena trasformazione, 1889 anno del Esposizione Universale, con l’inaugurazione della Torre Eiffel, Parigi vuole essere la capitale mondiale del modernismo.

La seconda figlia, Maria, nascerà lì nel dicembre 1889.

Amici di Rota della coppia Paglia: Francesco Pizzagalli e la moglie Lucia Paglia di Caguarinone, abitano al n°15 del bd.Lamouroux. La loro figlia Rachele, bambinella di 5 anni, due mesi prima dell’ arrivo di Caterina era deceduta a Vitry, un’altra Rachele nascerà lì nel dicembre 1890.

Anche questa Rachele, si sposerà con un Paglia e nel 1913 sarà con  suo marito di nuovo a Vitry sur Seine!

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Lorena

Regione amministrativa e storica del nord-est della Francia, la Lorena confina  al nord col Belgio e il Lussemburgo, a nord-est con la Germania;  è suddivisa nei dipartimenti di Meurthe-et-Moselle, Meuse, Moselle e Vosges.

Il Pays Haut (Paese alto), nella parte alta del dipartimento della Meurthe e Moselle, è composto da elementi: il bacino di Longwy a nord e quello di Briey a sud (dove nasce il grande Michel Platini, suo nonno fu minatore).

La Francia nel 1870 ha subito dall´Impero germanico una dolorosa disfatta militare: due regioni confinanti: Alsazia e una parte della Lorena vengono annesse, la Moselle una delle province lorene,  cede la sua industria e il suo carbone alla Germania. Un po’ più a ovest il Pays Haut non è interessante per il vincitore, il minerale di ferro è troppo ricco di fosforo,  l’acciaio prodotto troppo fragile.

Il Pays Haut diventerà dunque la nuova frontiera con il nemico e avrà l’incarico di produrre il ferro mancante dovuto all’amputazione della Lorena. Avrà, per raggiungere quest’obiettivo, l’obbligo di accogliere migliaia d’immigrati.

Già prima della crescita dell´industria siderurgica lorena numerosi operai italiani lavoravano come sterratori e muratori nell´edilizia, generalmente impiegati nei lavori i più penosi. La sconfitta del 1870 genererà, nella regione est, un grande bisogno di manodopera per la costruzione di nuove strutture militari, lo sviluppo delle ferrovie e lo sfruttamento delle miniere. L’industrializzazione e l’urbanizzazione delle città francesi alla fine del XIX secolo provocò un’enorme richiesta di manodopera straniera, amplificata da un declino demografico ancora più forte in Lorena che da secoli era regione traversata dalle invasioni.

Nello stesso periodo le leggi sociali impediscono ai bambini minori di 12 anni e anche alle donne di scendere nelle miniere, due fattori in più che favoriscono i primi reclutamenti di manodopera straniera, presso i belgi, lussemburghesi, tedeschi, olandesi, ma rapidamente anche in questi paesi si sviluppa l’industria.

Il minerale di ferro loreno è comunemente chiamato minette, diminutivo della parole mine (miniera) dovuto alla su debole tenore di ferro (una media di 30%). Il territorio ferrifero soltanto di Longwy, il più piccolo in Lorena, rapresenta 8000 ettari. L’estrazione, in questa zona, in genere si faceva a cielo aperto, ma rapidamente si passò alla tecnica evoluta con lo scavo di gallerie alte e larghe dal fianco della collina. Il minerale di ferro estratto nelle miniere lorene, ha la particolarità di essere fortemente ricco di fosforo (2%) specificità che rende l’uso dell’acciaio prodotto molto limitato.

Dall´alto forno esce la ghisa, metallo duro ma che si spezza facilmente, difficile da lavorare. All’inizio XIX secolo, per ottenere l’acciaio la ghisa riscaldata a 1300°, pastosa, era martellata (puddellaggio) metodo che permetteva una defosforazione “naturale”. Dal 1858 l’acciaio sarà prodotto maggiormente dal processo Bessemer ma inefficace con le ghise fosforose.

La scoperta del processo Thomas nel 1879 permetterà la defosforazione della minette lorena. Questa invenzione fu una rivoluzione per la produzione d’acciaio loreno, che permetterà il passaggio dallo stadio di artigianato all’industria siderurgica.

Sidney Thomas è un giovane inglese che lavora come commesso in un tribunale londinese, la sua passione per la scienza lo conduce verso la metallurgia, scoprirà un nuovo modo di rivestire i forni, con mattoni refrattari resistenti ad alte temperature.

aciéries de Longwy

Acciaieria di Longwy, inizio ‘900

Oltre a  produrre un acciaio malleabile, il forno Thomas genera delle scorie con alto contenuto in fosforo che diventerà un ottimo fertilizzante per le terre troppo sabbiose, risultato molto importante per Thomas, generoso filantropo. Il brevetto entrò nel dominio pubblico nel 1895.

Il giacimento minerario loreno fu considerato uno dei più importanti del pianeta, il dipartimento della Meurthe et Moselle produrrà il 90% del ferro francese nel 1910 e la ghisa  meno cara del mondo.

Nel 1905 ci sono più di 32000 italiani nella Lorena tedesca e 15900 nella Lorena francese.

La gran parte dei migranti italiani sono veneti, piemontesi, lombardi, marchigiani ed umbri, spinti oltre che dalle motivazioni economiche anche dalla paura del fascismo:  dopo il 1920 infatti si accentua la venuta d’italiani.

Prima del 1914 l’immigrazione italiana in Lorena si concentra nel centro nord della regione, nei due dipartimenti di Meurthe et Moselle e Moselle. I primi italiani sono segnalati nelle miniere nel 1882, difficile quantificare, infatti soltanto dal 1893 in Meurthe et Moselle, gli stranieri hanno l’obbligo di farsi registrare nei comuni.

La miniera, fu il primo posto di lavoro per i migranti, prima del 1914 più della meta dei minatori del ferro sono italiani nel Pays Haut. Attività molto pericolosa, le condizioni di lavoro sono deplorevoli, la roccia viene frantumata con un esplosivo, i blocchi di minerale caricati su dei carrelli tirati da cavalli o spinti dal l’uomo, non c’è ancora la meccanizzazione, tutto si fa a mano. Le miniere di ferro lorene furono per molto tempo senza investimenti per la sicurezza. Incidenti (1) causati dal distacco di blocchi, crollo di gallerie, polvere di roccia o i fumi degli esplosivi provocavano malattie dei polmoni, l’umidità, la sorte del minatore è poco invidiabile. Le buste paghe, non erano mai in conformità a quello che l’operaio si aspettava, premi, ritenute (per gli attrezzi, la polvere, la miccia, il carburo, ecc…), le multe, inoltre il minatore era retribuito a cottimo e la quantità di minerale uscito non corrispondeva mai alla quantità pesata fuori. Tra le richieste (sciopero del 1905) i minatori volevano un controllore nominato da loro per verificare il peso. E sembrava cosi ingiusto pagare i contributi per una pensione che loro non toccheranno perchè  volevano ritornare nel loro paese…

Alla fine del XIX°secolo, il francese lascerà il suo posto nella miniera all’italiano per andare negli stabilimenti siderurgici. Dopo la prima guerra mondiale, l’italiano a sua volta  lascerà la miniera ai nuovi arrivati, tra gli altri i polacchi, per concentrarsi nei lavori della produzione e la trasformazione dell’acciaio, l’edilizia ed anche il commercio.

 

(1) Tra le due guerre, un minatore di ferro su due è vittima di un incidente sul lavoro determinando la necessità di una sosta superiore a quattro giorni. Ogni anno, su 1000 operai di una miniera di ferro lorena, 4 o 5 rimangono uccisi e 37 rimarrano invalidi per la vita. – Gérard Noiriel “Les Ouvriers sidérurgistes et les mineurs de fer dans le bassin de Longwy-Villerupt” (1919-1939), tesi di storia, Università Paris VIII – 1982.

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Ines
(1887-1976) – Figlia di Giuseppe Paglia e Caterina Angiolini, moglie di Antonio Invernizzi

 

(Narratore) Rota Fuori-1910

Infine, un po’ di tranquillità, Pepino nella sua culla si è assopito, i suoceri sono andanti a letto, Ines gira la rotella della lampada a petrolio per fare uscire lo stoppino e  l’accende. Una timida fiamma illumina la stanza, il fragile tubo di vetro rimesso al suo posto e la camera rallegrata dalla luce lascia vedere i due bellissimi comò a quattro cassetti, la parte superiore, il piano, squisitamente decorata da un mazzetto di rose dipinto, l’occhio delle serrature attorniato da una piastra di metallo finemente cesellata, il letto matrimoniale di noce assortito affiancato da due comodini, tutti mobili nuovi fabbricati da poco dal falegname Manzoni. Una buona parte del risparmio fatto da Antonio nel corso del suo primo viaggio in Francia fu speso nei primi mobili della giovane coppia. Questa stanza da letto è la fierezza di Antonio. Poco più di un anno che con Ines si sono sposati e lei questa sera è sola e non ce la fa a godere pienamente di questi belli arredi.

Davanti alla specchiera, regalo di suo padre, Ines si passa la mano nei capelli, cercando le spille, le ritira, la sua abbondante capigliatura liberata cade sulle sue spalle. Ad Antonio piace cosi tanto vedere i suoi capelli corvini, è vero che con i suoi occhi blu cosi chiari, il contrasto è sorprendente, Ines non ha tutte le caratteristiche di una bella donna, ma ha questo fascino indefinito di un viso aperto dai tratti semplici.

Seduta sul bordo del letto esce della sua tasca la lettera ricevuta oggi, la prima di una lunga seria che Antonio le scriverà. Un brivido le traversa la schiena, si rialza, il suo scialle è nel secondo cassetto del comò, si copre le spalle, il freddo è caduto in

un colpo in questa fine di novembre. Di nuovo Ines spiega la lettera, una scrittura maldestra le svela qualche cenno di una vita lontana e laboriosa:

Cara moglie,

Sono arrivato a Longwy, il viaggio è lungo ma è andato bene, la Svizzera già è coperta di neve. Il capo che aveva l’anno passato subito mi ha ripreso nella sua squadra, il Bartolomeo Pelaratti se n è andato nell’acciaieria e l’Arrigoni, lo Sperandio, ha trovato un posto alla fonderia, si guadagna di più. Ho dovuto trovare un’altra cantina, non c’era più posto dal Dinasi, sempre a Herserange ma un po’ più lontano dal lusine (1). Il lavoro va bene, c’è molte ore da fare, anche la domenica. Spero che il piccolo Peppino stia bene, saluta il tata e tutta la famiglia.  Tuo marito, Antonio – 6 novembre 1910.

Ines ripone il foglietto, piegato nella sua busta, nel secondo cassetto del comò, la dove si mettono le carte. Pensosa, non ce la  fa a immaginare Antonio cosi lontano, una cantina? lusine? Per lei parole sconosciute, cantina: sì, si mangia, bene, ma dove dorme? Lusine, Antonio prende piacere a mischiare parole straniere al parlare della valle, già le ha spiegato di questa fabbrica, dove si lavora il minerale per fare il ferro, sarebbe come la filanda? Più grande?

E’ tardi, domani si dovrà lavorare, a letto.

 Ines et Pepino

Ines Paglia con Pepino, 1911

 

In un attimo Ines si cambia, indossa la sua camicia di notte, s’inclina sulla culla, Peppino respira con calma, tranquillo nel suo sono. S’infila tra i freddi e ruvidi lenzuoli di lino, è lei che ha tessuto i pezzi di panni, li ha assemblati e ne ha cuciti tre paia per il suo corredo.

Appena nel letto non riesce  a impedire ai suoi pensieri  di vagare nella lontana Francia, il suo Antonio, questa regione al confine con la Germania.

Non si ricorda niente, era cosi piccola, fanciulla di due anni quando lei, con i genitori, nel 1890 ha vissuto a Parigi, qualche volte nella sua mente si mischiano il vissuto raccontato dalla madre con quello che le sembra di  riccordare, il treno, la folla nelle vie della capitale francese, non, è soltanto la sua fantasia. Ines ha la testa bene a posto, conosce la  realtà, sono i racconti di sua madre, Caterina,  a cui piace  narrarle i due anni passati in Francia, sono questi racconti che fanno lavorare l’immaginazione di Ines.

No, no si ricorda di niente, la città di Vitry sur Seine, paese attaccato a Parigi. Caterina l’estate lavorava da un ortolano o faceva le pulizie dai Signori Roccard, Giuseppe il suo papà era sterratore. Pensieri che vagabondano, Antonio, la Francia…, dopo questa giornata bene riempita, Ines non tarda ad addormentarsi, una leggere bruma ovattata la fa scivolare nei sogni riempiti di viaggi, di luoghi lontani.

Il pomeriggio seguente uscendo dalla filanda, Ines passa in fretta alla farmacia gestita dai  Signori Daina  per i quali Ines lavora dall’età di quattordici anni per comprare la medicina per la sua suocera. La filanda  è in contrada Torre ed è la principale per non dire l’unica fonte di lavoro, Dal suo matrimonio vive in casa della famiglia di Antonio a Cagguacio, sotto la chiesa, le piaceva di più la grande casa dei suoi genitori al Prapelitone, adesso quasi vuota. Suo suocero Giuseppe Maria Invernizzi è un bravo uomo oltre a  lavorare la sua terra fa anche il sacrestano alla chiesa di Rota Fuori, ha rivoluzionato la sua casa per lasciare una stanza al suo primogenito e alla sua piccola famiglia. Non era nemmeno immaginabile che suo figlio andasse ad abitare  in un altro posto, in più Antonio non avrebbe neanche l’idea di contraddire suo padre. Le sorelle di Antonio: Livia e Rosa di 20 e 15 anni, si sono spostate in una cameretta sistemata nella piccola mansarda al secondo piano per lasciare la loro stanza alla coppia.

Ogni tanto Ines  fa un salto al Prapelitone  a salutare i genitori, ma soprattutto vuole ritrovare la sorellina Orsolina, adesso sola dopo la partenza in pochi mesi, delle sue due sorelle Ines e Maria, quest’ultima entrata nel convento di Santa Grata in Bergamo.

Orsola anche lei fra poco partirà, ha trovato un posto di serva a Milano. Benché siamo in novembre, tempo del ritorno, Rota sempre si svuota, c’è sempre qualcuno che parte..

 

(1) Lusine : l’usine = la fabbrica, stabilimento industriale

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amici di Rota

 Amici di Rota, Longwy 1910: da sinistra: Masnada, Francesco Pelaratti, Giovanni Cortinovis, Luigi Pelaratti, Sperandio Arrigoni, Giovanni Pelaratti

 

 Francia-Herserange 1914

Quasi due anni sono passati da quando Ines con tutta la sua famiglia ha raggiunto Antonio in Francia, un secondo figlio è nato a Rota nell’aprile 1912 e  tre mesi dopo: la partenza. L’arrivo in questa lontana regione di Francia fu caricato d’emozioni, ritrovare suo marito: Antonio da mesi non visto, di più in Lorena si trova Maria, la sorella di Antonio, moglie di Giovanni Quarenghi e tutti quelli di Rota, tutti operai in questa fabbrica gigante. Ines rimane impressionata dalla quantità d’uomini che l’officina sembra mangiare al cambiamento di posto, per centinaia s’imbocca nelle diverse porte, poco dopo nell’altro senso escono quelli che hanno finito il loro turno, la maggior parte di corsa, tutti sono sporchi, tanti si fermano nei bar, anche qui il vino è diventato una piaga. Ogni passo, ogni cosa nuova che vede Ines ne resta stupita, in questa valle c’è sempre del rumore, la fabbrica non si ferma mai. Anche di notte si sente lo spostamento dei vagoncini, cigolamenti dei freni, le siviere di metallo in fusione o di loppa d’alto forno si spostano e si svuotano, vapore d’acqua, i bagliori delle colate di ghisa illuminano la notte, il caricamento dei forni provoca delle nuvole di fumo, arancione o grigio secondo i prodotti.

Ines aiuta la sua cognata Maria che  gestisce una cantina, dove ci sono quattro operai che dormono lì in permanenza, ma a mangiare sono di più, Ines lava e stira i panni dei pensionati e  di altri, con la carriola, caricata di un canestro va alla fontana-lavatoio a lavare i vestiti, la principale via del vieux village (paese vecchio) ha mantenuto il suo aspetto antico, benché a qualche centinaio di metri dalla fabbrica, questa parte di Herserange sembra ancora, per il momento, un tranquillo paesino di campagna e come in tutti paesini loreni i mucchi di letame sono posti davanti casa, in mezzo sulla strada. L’odore e il liquido che cola non sembra disturbare la gente, è vero che per i contadini francesi il letame è un modo di fare vedere la ricchezza, più il mucchio è grosso più ci sono mucche…

Nell’agosto 1914, gli italiani devono partire, il conflitto che sta per scoppiare, fa paura a tutti, la frontiera tocca Longwy. L’amministrazione provinciale teme di ritrovarsi con migliaia di straneri senza lavoro e gli operai italiani pensano con inquietudine di essere arruolati a forza nell’esercito tedesco, la Germania è alleata dell’Italia.

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Un’altra donna della valle Imagna si occupava degli operai: Caterina Sibella, nata nel 1899 a Valsecca, detta Galette, moglie Mazzucotelli (di Rota F.). Nel 1922 si occupava della pensione per celibi, proprietà della fabbrica, a Landrivaux (contrada di Herserange).

Il ragazzino Giuseppe (il piccolo Pepino figlio d’Ines) solo con suo padre Antonio Invernizzi andrà  a vivere in questa pensione, ancora bambino: 12 anni! Dopo le giornate di lavoro nel lusine, troverà lì un po’ di calore umano, la tenerezza di Caterina, lui non la dimenticherà mai, mezzo secolo dopo la vecchia Sibella lo chiamava: “Pepino” è lui sorrideva…come un bambino.

 Longwy 1931

Longwy 1931

 Italiani in Longwy
 XIX°secolo.

Longwy e i suoi dintorni sono una successione di strette valli e colline boscose, il minerale di ferro è dappertutto, a fior di terra. Dal paesino di Moulaine scorre il ruscello omonimo che prende  il suo nome dai numerosi mulini scaglionati sulle sue sponde. Le sue acque colano rapidamente per arrivare in pochi chilometri al luogo detto Senelle (Senel deriverebbe della parola germanica “snell” che significa veloce) sul comune di Herserange e di là arriva a Longwy.

Da tempi antichi, la metallurgia nella contrada di Moulaine ha lasciato tracce, il minerale d’origine per lo più alluvionale era trattato con il carbone di legno, numerose fucine fabbricavano armi e attrezzi. Nel 1828 la famiglia d’Huart possedeva una fucina nel luogo, ma le fucine lasceranno il posto ad alti forni, se ne conoscono tre nel 1850.

Il ruscello Moulaine si butta nel fiume Chiers a Longwy,  lungo  tutto i due corsi d’acqua tra 1880 e 1914 s’ingaggia una frenetica corsa alla produzione d’acciaio . Diverse società impiantano degli stabilimenti sempre più grandi, tutta la catena di produzione dall’estrazione della materia primaria al prodotto finito esce da terra. Nelle strette valli tutto in lunghezza si erigono cokerie, alti forni, fonderie, acciaierie, laminatoi ecc…

Parliamo soltanto del bacino di Longwy, ma questo fenomeno locale è da moltiplicare per 5 o per 10, tutta una regione si sveglia, gli alti forni si moltiplicano, i record di produzione ogni anno sono vinti. La battaglia dell’acciaio è lanciata!

Mancano  soltanto le braccia… un irrefrenabile bisogno di manodopera si fa sempre sentire. L’Italia diviene rapidamente il principale fornitore di minatori e operai.

I maitres de forges mandano dei reclutatori in diverse regioni d’Italia, modo di operare che favorisce il raggruppamento d’operai della stessa regione o degli stessi paesini, la legge Crispi del 1888, legittimerà il ruolo di questi agenti reclutatori. Dal 1911 il comitato degli imprenditori della siderurgia Lorena crea a Chiasso un ufficio per centralizzare i reclutamenti, si apre anche a Milano un ufficio per l’immigrazione verso la Francia, la Svizzera e la Germania. Saranno migliaia contadini e operai a lasciarsi sedurre dallo specchietto per le allodole.

Alla fine del XIX secolo la localizzazione delle province di partenza, per la Lorena, vede al primo posto Novara, Varese, seguito di Bergamo, giovani operai di un’età media di 25 anni, pochissime donne. L’80% di quelli che iniziano in una fabbrica, escono prima di aver lavorato un anno. Uno studio realizzato sui registri del personale d’una miniera Lorena rileva, nel periodo 1906-1945, 28000 cognomi diversi inscritti come dipendenti, quando il numero dei minatori non ha mai superato 1800 persone. (M.C.Harbulot – 1977).

Senelle 1928

Stabilimento di Herserange, 1928

 

Si potrebbe spiegare questo turn-over dal fatto che la maggioranza dei migranti italiani è di famiglie contadine e quelli consideravano il lavoro in fabbrica come un complemento di quello agricolo e non uno scopo finale.

Sappiamo in più, nel caso della Valle Imagna, che la necessità di migrare è un fenomeno conosciuto da secoli, per una grandissima parte  le migrazioni furono stagionali da marzo a ottobre, questo modo di vita si perpetua di generazione in generazione, forse possiamo dire che il bisogno, nei secoli, è anche diventato una tradizione?

Sul comune di Herserange un primo alto forno fu costruito nel 1847 da Henri-Joseph d’Huart sul luogo dove in precedenza c’erano i mulini di Senelle. Nel 1883 i figli d’Huart fondano, in collaborazione con una società del nord della Francia, la Société metallurgique de Senelle Maubeuge. La produzione d’acciaio rimarrà modesta fino al gennaio del 1910, quando entra in produzione l’acciaieria Thomas.

Prima del 1919 c’erano due squadre di 12 ore, per 6 giorni di lavoro.

I tedeschi tra 1914 e 1918, occupano la regione, i due primi anni, le fabbriche possono lavorare, ma dopo la situazione cambia e l’occupante organizza il sacco dell’industria e spoglieranno gli stabilimenti siderurgici di Longwy. I tedeschi per colmare la mancanza d’operai nelle miniere devono impiegare migliaia di prigionieri russi. Nonostante tutto subito dopo la capitolazione tedesca, tutti: imprenditori e operai, si mettono al lavoro e già nel giugno 1919 i primi alti forni sono riaccesi.

Tra 1919 e 1936 si lavorano 56 ore settimanali. Nel 1930 a Senelle, un operaio guadagnava da 26 a 30 franchi al giorno. Nel 1929 nello stabilimento di Senelle si trovavano: 1120 francesi, 730 italiani, 250 polacchi, 400 belgi-lussemburghesi, 86 slavi e 466 “altri”. Tra 1900 e 1930 Longwy fornirà il 30% della produzione nazionale d’acciaio.

I diversi stabilimenti siderurgici hanno dovuto costruire degli alloggi (cités) per le loro maestranze, solitamente isolate dagli autoctoni e all’esterno del centro del paese, abitate secondo la nazionalità, ma anche secondo la classe sociale. Le cités (1) sono uno schieramento monotono di case tristi e senza anima, ma per l’epoca rappresentava un progresso, dopo le catapecchie, baracche, pensioni, l’immigrante fu felice di trovare una casa con l’elettricità, il gas, l’acqua corrente, un giardinetto. Le grandi fabbriche avevano a disposizione del loro personale un gran negozio per la vendita di generi alimentari e tanti altri prodotti per la casa. La società Senelle Maubeuge nel 1924 fece anche costruire la chiesa di Herserange.

La presenza italiana nel comune di Herserange è notevole, nel 1924, due bar su venti sono  gestiti da italiani, nel 1931 sono 13 su 30 esistenti.

A Longwy, s’impianta il fascismo, negli anni 1920 l’agenzia consolare italiana aiuta allo sviluppo di diverse associazioni culturali o sportive, ma l’ideologia fascista è li…Anche attraverso e con l’aiuto dell’Opera Bonomelli e della Missione Cattolica Italiana, il governo italiano estende la dottrina fascista, ma numerosi preti italiani hanno saputo distaccarsi delle teorie mussoliniane. Per contro si crea nel 1929 la “Liga Italiana dei Diritti dell’Uomo” e diverse associazioni antifasciste comuniste e socialiste. Il confronto tra le due frazioni sul suolo francese dispiace molto alla popolazione francese.

La crisi economica degli anni trenta provoca la partenza di 23000 stranieri del Pays Haut. Il 6 maggio 1932 il presidente della Repubblica Paul Doumer è ucciso da Pavel Gorguloff, un profugo russo. La stampa si scatena contro gli stranieri e si sviluppa un antisemitismo spaventoso. Fu un clima di alta tensione, la Francia era circondata da paesi fascisti, Germania, Italia, Spagna, ma nel 1936 la sinistra si impadronirà del potere.

 

(1) Nel bacino ferrifero si parla di “cités”, per le regioni, dove si sono le miniere di carbone, gli alloggi operai si chiamano “corons”.

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 Italiani nei conflitti francese

Si potrebbe fare una macabra contabilità per rilevare i soldati francesi caduti in terra italiana e i combattenti italiani deceduti oltralpi, ma non è lo scopo di questo lavoro e non avrebbe senso. Voglio trattenermi, solamente un attimo, sugli uomini italiani  che volontariamente (è quello l’importante) hanno combattuto per amore d’una terra che non li ha visti nascere,  o che, soltanto per un bisogno d’avventura,  sono venuti a difendere la  Francia.

Come Giuseppe Garibaldi, accanitamente attaccato alla sua seconda Patria (come lui  dice) affezionato al valore di liberta e di democrazia, numerosi sono gli italiani innamorati della terra di Francia venuti  a combattere l’egemonia germanica.

Possiamo ricordare la presenza, nel corso della guerra del 1870 contro la Prussia,  del mitico eroe dell’indipendenza arrivato in Francia nel mese di ottobre con i figli Menotti e Ricciotti. Radunerà qualche centinaia di combattenti italiani raggruppati con altri volontari di tutte le nazionalità, assaliranno le truppe prussiane, nel novembre 1870 ci saranno due violenti combattimenti nell’ est della Francia. L’aiuto garibaldino non cambierà il corso della storia, ma ridarà un po’ di onore alle autorità francesi.

Quaranta anni dopo la storia si ripete, agosto 1914, inizio della Grande Guerra, migliaia di volontari stranieri si arruolano accanto ai soldati francesi, gli italiani saranno i più numerosi. I sei figli di Ricciotti Garibaldi sono li, nell’autunno 1914 Peppino Garibaldi sarà alla testa d’un battaglione di circa 2000 volontari, il 4°reggimento di marcia del 1°straniero (legionari). Vestiti con la camicia rossa, saranno ingaggiati alla fine del dicembre 1914 in Argonne, nella battaglia di Bolante, il 26 dicembre Bruno Garibaldi cade sotto il fuoco nemico. Un altro fratello, Costante, trova la morte il 5 gennaio 1915 nel combattimento della valle di Courte Chausse, lo stesso giorno in questo luogo il soldato Bartolomeo Rota originario di Corna in Valle Imagna scompare.

Arriviamo nel 1918, tra aprile e novembre il II° Corpo d’Armata italiano comandato dal tenente generale Alberico Albricci avrà un ruolo decisivo nell’ultima parte del conflitto.

Sono 4581 i soldati italiani sepolti in Francia, caduti tra 1914 e 1918. Possiamo aggiungere a questo macabro conto i 184 soldati italiani sepolti in Lorena , morti in cattività, censiti da M.Louise Antenucci.

In più del sopracitato soldato Bartolomeo Rota (1880-1915), hanno perso la vita in Francia, nativi della Valle Imagna, i soldati: Battista Manzoni (1890-1915) nato a Berbenno; Bartolomeo Salvi (1884-1914) nato a Rota Fuori; Paolo Mazzoleni (1890-1918) nato a Selino.

 Il 12 marzo 2008 ha visto la scomparsa d’un uomo eccezionale e voglio fermarmi sul destino unico d’una persona che illustra perfettamente il cammino percoso per cambiare una vita. Eccezionale per la sua longevità: avrà vissuto 111 anni, eccezionale per il fatto di essere l’ultimo combattente francese del primo conflitto mondiale.

 Lazzaro Ponticelli è nato a Groppo Ducale al sud di Piacenza nel 1897, l’estrema miseria spinge  sua madre ad emigrare in Francia con i tre figli  più grandi. Lazzaro, (4 anni) rimane al paese con il padre che morirà poco dopo. Il bambino deve lavorare per sopravvivere, il suo unico pensiero risparmiare per pagare un biglietto di treno, vuole raggiungere i fratelli a Parigi.

Fanciullo di 9 anni quando arriva, da solo, nella capitale francese, analfabeta farà tutti  i mestieri fino al 1914 quando arriva la guerra, mentendo sulla sua età si arruola nella Legione straniera e combatterà nell’Argonne. Nelle sue memorie racconta la vita nelle trincee, episodio commovente:

Dal suo rifugio sente i gemiti d’un soldato rimasto ferito tra le due linee nemiche preso nei fili spinati: «I barellieri non osavano uscire. Io non ne potevo più. Ci sono andato con una pinza. Sono subito caduto su un ferito tedesco. Mi ha fatto due con le dita. Ho capito che aveva due figli. L’ho preso e portato verso le linee tedesche. Quando loro si sono messi a sparare, ha gridato di smetterla. L’ho lasciato vicino alla sua trincea. Mi ha ringraziato. Sono tornato indietro, verso il ferito francese. Stringeva i denti. L’ho trascinato fino alle nostre linee con la sua gamba di traverso. Mi ha abbracciato e mi ha detto: ‘Grazie per i miei quattro bambini’.»

Nel 1915 fu chiamato alle armi dal governo italiano, andrà a combattere nel Tirolo con il terzo reggimento alpino, sarà smolbilizzato nel 1916 dopo essere stato ferito.

Il ritorno per la Francia si farà nel 1921, naturalizzato francese, nel 1939 allo scoppio della guerra di nuovo si arruola e participerà alla Resistenza contro l’occupazione tedesca.

Con i suoi fratelli fonderà un’ impresa, oggi diventata di livello internazionale, specializzata nelle perforazioni petrolifere.

Come altri ultimi sopravissuti della Grande Guerra, Ponticelli (nel 2005) rifiuterà i funerali di Stato: «Rifiuto questi funerali di stato. Non è giusto che spettino solo all’ultimo sopravvissuto facendo un affronto a tutti gli altri morti senza avere gli onori che meritavano …»

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 La cronologia di questo racconto lascia il posto alla famiglia di Lidia, fu lei ad aprire gli occhi del narratore su le “due foto”. Lidia fu la nuora di Ines, donne diverse nelle loro culture, nelle loro carattere, tante cose le separano, ma non hanno altra scelta che unirsi sotto la piuma del narratore.

Un giorno si scopre un agenda riempita d’una scrittura maldestra, Lidia vecchia donna, affrancata per la sua vedovanza, da libero corso al suo bisogno di raccontare la sua giovinezza, infanzia troppo corta. Testimonianza commovente sulla vita d’una ragazzina che deve aiutare la madre sola, il padre in Francia. Testimonianza sulle vite di donne che portano, a mezza vita, una famiglia.

Anche loro, le marchigiane, prenderanno il lungo cammino. L’immaginazione del narratore avrà poco da fare, Lidia e anche due delle sue sorelle hanno bisogno di esprimersi, di raccontare. Tanti anni dopo, Lidia, Elia e Mafalda rubano al narratore il piacere di ricreare questi pezzi di vita, le vecchie donne con un certo talento, fanno un ritorno in dietro.

Come le sorelle Bronte, le tre Alesi, scrittrici dilettanti, descrivono la loro vita in provincia di Ancona, le bambine degli anni’30 si preparano per il grande viaggio e scoprono l’Eden. Visione idilliaca, invidie semplici, un pezzo di cioccolata o l’acqua corrente in casa bastano per vedere un mondo più bello.

Lasciamo un piccolo posto anche al padre: Ernesto, anche lui un personaggio particolare. Un figlio nella Regia Marina italiana morto in guerra, colpito dagli inglesi;  la sua coscienza di padre percosso, due anni dopo, lo porta a dare rifugio ad aviatori inglesi nonostante la triste sorte del figlio e la minaccia tedesca.

 

 Aloisio Domenico “Luigi” Alesi (1829-1908)

 (Narratore) – Nelle Marche.

Una detonazione strappa il silenzio della notte, un’ombra furtiva sembra scivolare tra gli alberi, un gemito e un uomo cade.

A cento passi della sua casa Domenico è allungato nell’erba umida, le mani sulla pancia, grida: << aiuto >> ma nessun suono esce della sua bocca, il sangue scorre abbondantemente dalla sua ferita.

Una mattina smorta sta per alzarsi, la freddolosa giornata di novembre comincia male per la famiglia Alesi, Luigi ha sentito lo sparo, ha capito subito, esce di corsa è quasi subito trova il fratello, le sue gambe si flettono, le sue ginocchia  urtano il suolo, urla:

Maledetti Conti! Vi odio!

Una macchia scura si stende sulla camicia bianca di Domenico. Portato a casa dal fratello, morirà mezz’ ora dopo sul tavolo della cucina familiare. Teresa, la madre dei due fratelli, benchè da tempo abituata di vedere la morte avvicinarsi: ha visto partire gia 7 dei suoi 14 figli per l’altro mondo, anche suo marito morto nel 1854, isterica, piangendo si strappa i capelli. Vedendo Luigi staccare il fucile sospeso al muro balza sul figlio e deve fare un sforzo incredibile per agguantare il collo del primogenito per trattenerlo. Prima gridando, la sua voce si fa più calma e spiega che non si può, è lui l’unico che rimane per sostenere la famiglia, basta i morti, la vendetta non è possibile. Madre e figlio abbracciati piangono in silenzio, solo le lacrime laveranno il sangue versato.

In casa dei Conti i carabinieri di Arcevia non troveranno nè il fucile nè Giovanni uno dei figli, la brutta storia cominciata da tempo tra le due famiglie, troverà infine una  apparente pace con la morte di Domenico.

Le terre confinanti delle due famiglie in contrada Torre furono  sempre il motivo dei vari conflitti,  una quercia caduta sul terreno dell’altra famiglia, il Roccolo, terreno controverso, area di caccia dei due fratelli Alesi,  provocherà parole troppo alte, insulti, minacce. La prepotenza degli Alesi, i ricchi di S. Apollinare, prestiti, cambiali, vendite oscure di terre, il tutto va infiammare il giovane Conti, tragedia comune, ‘invidia e cupidigia.

All’epoca di questo triste evento del 1880 Luigi ha 51 anni e non è sposato, la scomparsa del fratello, anche lui celibe, lascia intravedere  cattivi auspici per la famiglia Alesi. Teresa, la madre uscita dal letargo dovuto al lutto si da un gran da fare per trovare moglie al figlio. Lei che lo voleva prete!

La famiglia benestante, doveva la sua agiatezza all’ alleanza con i Santini, borghesi del Palazzo di Arcevia, per il matrimonio del nonno di Luigi: altro Domenico con Anna Santini.

Dal loro unione nascerà Sante che diventerà prete ed il padre di Luigi: Paolo, lui dopo avere studiato troverà un posto di segretario comunale a Poggio San Marcello dove si trasferirà.

Don Sante lui rimasto alla Torre fu in carica della parrocchia di S. Apollinare e farà costruire nel 1828 un’ imponente casa, la “Villa”. La dimora padronale aveva sul tetto una torretta dove era collocata una campana, cosi il prete non doveva uscire per suonare la messa. La chiesetta di San Salvatore era a qualche passo. La casa con le terre e tutti beni degli Alesi andranno a Luigi.  Anche lui, Luigi, aveva vestito la tonaca,  ricevuto la tonsura ed era pronto a rinunciare al mondo, il seminario però gli aveva aperto gli occhi e prima di arrivare al sacerdozio aveva capito che la vita del clero non era per lui, la sua fede gli sembrava forte ma lui era uomo della terra e amava i piccoli piaceri quotidiani, i giochi della domenica con suoi amici. Si vedeva spesso a caccia sulle sue terre il signorotto di campagna, vestito di velluto con stivali e fucile a tracolla, o al roccolo a tendere le grande rete per prendere gli uccelletti.

Infatti i piccoli piaceri col tempo diventeranno più grandi, la scomparsa dello zio prete seguita da quella del padre, lascia i fratelli Alesi troppo giovani, con dei bisogni troppo alti! E cosi il patrimonio familiare s’assottiglia, le dote per le figlie che si sposano, incassi che non si fanno, pezzi di terre venduti, raccolti scarsi, la guerra con l’arrivo di Napoleone III,  le tasse.

Tutti questi pensieri girano nella mente di Teresa, cercando la donna che darà stabilità al figlio rimasto.

Ma la ricerca non fu semplice, in campagna tutto si sa, l’omicidio di Domenico, la condotta di Luigi, ci vorranno 2 anni per trovare Rosa Baldoni la brava moglie, che scomparirà anche lei, lasciando vedovo Luigi con 3 fanciulli. Avrà 62 anni quando nel 1891 Luigi si sposò di nuovo con una bella vedova di 28 anni! L’anziano seminarista non perderà tempo per fare 3 figli di più.

Il felice padre prendeva piacere a portare con lui i figli a caccia, lo svelto Ernesto si ricorderà bene delle sue corse, quando il padre sparava, per raccogliere la preda, facendo a gara con il cane.

 

Ernesto (1892-1983) – figlio di Luigi, marito di Albina

 

(Mafalda) – A casa, lui bambino,  c’era il pane bianco, dietro la cucina c’era una stanza con il forno. Allora soltanto le famiglie benestanti mangiavano pane bianco, mentre i contadini quello nero, fatto con la farina di ghiande. A mio padre piaceva, ogni tanto, scambiare con un suo amico la sua bella fetta di pane bianco con una pagnottella nera.

(narratore) – Il suo fratellastro, il primogenito Paolo, morirà in Francia nel 1908 a 21 anni, lavorando nella miniera di ferro di Bouligny in Lorena. Poco dopo, lo stesso anno, Luigi, il padre, scompare colpito da un infarto.

Ernesto si ritrova dunque all’età di 16 anni a capo della famiglia, la situazione familiare è pessima, si sono accumulati molti debiti,  sono stati costretti a vendere dei terreni per dare la dote alle sorelle. Ernesto aveva imparato presto a lavorare, sapeva potare le viti e riuscì a tirare avanti la famiglia.

Prima del 1914, è costretto anche lui a emigrare per  sostenere la sua famiglia, andrà in Lorena, ma nella parte annessa ai Tedeschi.

La guerra inizia nel 1914, di ritorno al paese Ernesto si sposò con Albina Conti, l’Italia a suo turno entra nel conflitto e il giovane sposo fu chiamato alle armi il primo giugno 1915 e partì con la 7a.Compagnia di Sussistenza in Albania. Ospedalizzato per malaria a Matelica, fu congedato per riforma nell’ ottobre del 1916.

Al la fine delle ostilità comincia per Ernesto una lunga seria di viaggi per la Francia.

 Ernesto moulin scories

Ernesto Alesi: il terzo dalla destra, stabilimento di Senelle “molino a scorie”

 

(Mafalda) – Avevo poco più di un anno quando mio padre, assieme al suo amico Guido, decise di emigrare di nuovo in Francia. Dopo la fine della guerra le frontiere erano chiuse, soltanto qualche clandestini riusciva ad entrare. Con un mezzo fortune arrivarono a Senigallia, poi con il treno a San Remo. Si diressero a piedi verso Limone, poichè avvicinandosi al confine i treni erano controllati. Era stato detto loro che ci fossero delle guide che in cambio di denaro, li avrebbe accompagnati oltre la frontiera. Una breve ricerca e trovarano un tale che li prese in consegna e li fece nascondere in un fienile, dove erano altri uomini in attesa. Si caricarono sul fieno per riposarsi, prima dell’alba arrivò la guide, furtivamente e in gran silenzio li fece uscire. Furono assaliti da un vento gelido, la neve gelata scricchiolave sotto i loro piedi, una lieve caligine copriva ogni cosa come un velo. Gli uomini cercavano di stare uniti, camminavano svelti, erano quasi tutti molto giovani, abituati a tutte le fatiche, ma questo tragitto su delle mulattiere scivolose dal gelo superava ogni resistenza. A volte qualcuno cadeva, doveva rialzarsi subito se non voleva rimanere indietro, il freddo era intenso. All’improvviso la guida vide tremolare una lucetta nel buio, intimò un alt sottovoce, poi rivolgendosi agli uomini angosciati disse: <Ci sono i doganieri, la frontiera è vicina.> Indicò loro la direzione <Scappate e corette, io devo tornare indietro> Detto ciò, si allontanò correndo e li abbandonò al loro destino. Gli uomini terrorizzati si sparpagliarono in tutte le direzioni. Mio padre prese la corsa, andando nella direzione giusta, vide le luci di un villaggio, pensò di averla scampata. Invece un doganiere che l’aveva inseguito lo fermò, mio padre parlava francese, cosi potè communicare; il doganiere vuole sapere perchè ci teneva tanto ad entrare in Francia, allora lui le disse della guerra che aveva portato tanta miserie, della moglie e dei figli che aveva lasciato in casa nel bisogno, lui voleva lavorare per mandare loro del denaro. Il doganiere che era una brava persona, gli diede buoni consigli e gli indicò la via da seguire per non essere preso, poi lo lasciò andare. Giunto a destinazione trovò subito del lavoro e persone che gli fecero avere subito il permesso di soggiorno. Seppe che il suo amico era stato rimandato indietro con il foglio di via.

(narratore) – Ernesto lavorava ad Esch sur Alzette (Lussemburgo) a pochi chilometri da Longwy, lascia questa città per andare nell’ aprile 1924 in Francia, nei laminatoi dello stabilimento di Senelle in Herserange, nel mese di giugno passa al servizio del mulino a scorie a cucire i sacchi per l’imballo del prodotto da spedire. Seguono numerose andata e ritorno per l’Italia:

Uscita il 21 gennaio 1925, ritorno il 9 marzo 1925.

Uscita il 2 ottobre 1925, ritorno il 20 gennaio 1926.

Uscita il 7 giugno 1926, ritorno il 29 luglio 1926.

Partenza il 10 febbraio 1927, lavorerà per un po’ nello stabilimento siderurgico di Homecourt (aprile 1931) a sud di Longwy. Dal suo passaporto sappiamo che passa la frontiera a Basilea il 10 settembre 1931 rimarrà in Italia fino al 6 novembre 1931, per ritornare di nuovo nella sua precedente fabbrica di Senelle. Ritornerà un tempo in Italia il 2 agosto 1937.

Paura all’annuncio della dichiarazione di guerra con la Germania, tutta la famiglia parte per Italia il 28 settembre 1938. Ma la situazione sembra stabile dunque tutta la famiglia ritorna in Francia il 22 novembre 1938. Ernesto ritrova il suo posto di lavoro al mulino a scoria di Senelle, ma per poco tempo, la situazione politica lascia prevedere la guerra, la famiglia riprende la strada per l’Italia, passando la frontiera il 1 aprile 1939. Quello sarà l’ultimo viaggio, eccetto Lidia ormai sposata, tutta la famiglia Alesi rimarrà definitivamente in Italia.

Ernesto andrà a  lavorare nella miniera di zolfo a Cabernardi, fino  a quando nel 1941 Minchinello, il contadino a mezzadria sulle sue terre, trovò da lavorare in un altro podere.

Nelle pagine seguenti si potrà leggere la scomparsa di suo figlio Luigi, marinaio al servizio della sua patria che morirà nel 1941, quando la sua nave viene colpita dalla marina inglese.

Nel 1944, un aero inglese è abbattuto nelle Marche, i partigiani nasconderanno ai tedeschi gli aviatori sopravvissuti, cambiando spesso  rifugio. Un giorno arriveranno in casa di Ernesto, che li ospiterà, uno di loro fu J.A.Pretty tenante della Royal Air Force.

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 Condizioni di vita

Il bisogno, manifesto, di manodopera prima del 1914 fu ampiamente aggravato all’uscita della Prima Guerra Mondiale. La quantità dei giovani uomini francesi deceduti (1,3 milione di morti) provoca di nuovo un appello di lavoratori stranieri, la Lorena regione devastata ha perso  il12% della sua popolazione.

Nel censimento del 1921, gli italiani presenti in Francia sono 451000, in pratica quasi un terzo della popolazione straniera.

Per la posizione italiana accanto agli alleati nel 1915, la visione dei francesi si è modificata, la comunità italiana appare culturalmente più vicina che le nuove migrazioni che arrivano dall’Est.

Nel 1926 la presenza italiana in Lorena, ripresenta il 43% della popolazione straniera.

A Auboué nel 1930 si sono 50 bar, dai quali 45 tenuti da italiani. In Mosella alla fine degli anni ’30,  l’85% degli italiani attivi lavorano nelle miniere o nell’industria siderurgica.

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I primi migranti arrivati vivono in cantine, pensioni, baracche di legno, senza luce, ne acqua, quasi nessun mobile, letti sopraposti, lo stesso letto per diversi operai che fanno i turni, promiscuità spaventosa, in una camera fatta per 2 letti sono accumulate 8 persone. Baccani italiani o francesi, non tutti, ma numerosi a sfruttare lo smarrimento degli spaesati.

In tutta la Francia, tra 1880 e 1890 vedono giorno gravi conflitti tra operai francesi e italiani.  Il gravissimo caso di Aigues Mortes nel 1893, i lavoratori stranieri affluiscono ogni anno per la raccolta del sale, un alterco tra autoctoni e italiani degenera, si affrontano e ci saranno ufficialmente, 8 morti e 50 feriti italiani (altra fonte: Times: 50 morti). Il flusso massico è male accolto, sono “stranieri che rubano il lavoro degli operai francesi“…ma sono anche i primi ad essere licenziati in caso di difficoltà. Il presidente della Repubblica Francese: Sadi Carnot fu assassinato nel 1894 dall’anarchico italiano Caserio, fatto che non migliorerà la situazione.

Problemi amplificati poichè l’italia fu alleata alla Germania (1882), il nemico ereditario della Francia. Il migrante fu spesso il capro espiatorio d’una situazione politica difficile o nel periodo di crisi economica.

Pierre, contadino loreno, racconta nel 1892:

Questi lavoratori, italiani per la maggior parte, vivono in tale condizioni che molti altri già si sarebbe rivoltati. Sono ammassati in delle cantine, occupano in 6 una piccola camera che dovrebbe, in principio, servire per un celibe. Dormono dove si può, i poveri, quasi sempre sul suolo, in un locale mai riscaldato, sotto una sola coperta. I bagni sono all’esterno, nel fondo del cortile e non si deve riguardare loro stato di pulizia per usarli. In inverno, per avere più caldo, questi poveri tipacci si stringono uno contro l’altro come gli animali nelle stalle. Per comporre il loro pasto, queste cantine lì non arretrano dinanzi a niente. Per dire vero, è da la loro installazione che tutti gatti del settore hanno scomparsi! (…) Si può pensare che questa gente ha una robusta costituzione, un giornalista ha scritto: << nei dintorni, le bestie morte di malattia non sono seppellite è trovano la loro sepoltura nello stomaco degli italiani…>>

italiens Herserange 1934

Italiani di Herserange per il Triduo Pasquale del 1934, con Mons.Babini vescovo italiano.

 

Non avevano neanche il soccorso della chiesa, le leggi del 1881 imponevano la scuola laica e nel 1905 è ufficializzata la separazione della Chiesa e dello Stato, in questo periodo che corrisponde all’arrivo massiccio dei migranti italiani, la Chiesa francese è in posizione debole, i preti francesi si disinteressano di questi nuovi arrivati, la barriera della lingua, le tradizioni diverse lasciano un vuoto che il vescovo di Cremona Monsignor Bonomelli, nel corso del suo viaggio in Lorena nel 1912, non mancherà di rilevare.

Sulla fine del XIX secolo il sindacalismo francese, nazionalista e xenofobo, rifiuta gli stranieri, le leggi segregazioniste impediscono allo straniero di avere responsabilità sindacale (1884), l’assistenza medica gratuita è riservata ai soli francesi (1893). In caso d’incidente sul  lavoro alla famiglia dello straniero, che non risiede in Francia, non tocca la pensione d’invalidità prevista. Si dovranno  aspettare i trattati bilaterali (1904-1906) tra Italia e Francia per vedere qualche miglioramento.

Il primo sciopero notevole avrà luogo nel Pays Haut nella miniera di Hussigny nel 1903 seguita del’espulsione di diecine d’italiani. I minatori italiani, con l’aiuto di compatrioti venuti dall’Italia, portano avanti le loro rivendicazioni. Oriundo di Genova, Tullio Cavalazzi, militante dell’Umanitaria partecipa nel 1905 al organizzazione dei primi scioperi importanti a Longwy tra il 29 giugno e il 17 agosto. Rivolte represse dai “Dragons” (cacciatore a cavallo) ci sarà un morto, un operaio belga, Nicola Huart, gli agitatori licenziati e espulsi. Ci saranno 4000 soldati  di stanza a Longwy.

La stampa e l’opinione pubblica non tollerano questi stranieri che si ribellano, oltre a  venire a “mangiare il pane dei francesi” vogliono delle condizione di vita dignitose!

Un manifesto nel maggio 1910 fu incollato nelle vie di Villerupt, cosi tradotto:

<< … Un orso nero, scappato d’un serraglio di Milano ruggisce nelle vie di Villerupt, vivendo di pigrizia sul conto di operai ignoranti, protetto dai senza patria, quest’orso di Tullo bandito Cavallazzi. Tocca a  voi, signor Sindaco … di fare fuggire il vampiro briccone…>>

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 Lidia

figlia di Ernesto Alesi, moglie di Giuseppe Invernizzi

 

Il mio nome e mio padre che la scelto, Alesi Ernesto nato il 22 maggio 1892 a Torre di Arcevia, mia mamma Conti Albina nata il 15 marzo 1896 Arcevia.

Mia nonna paterna viveva con noi, Catanza Anna, nata al Montale di Arcevia, nata nel 1861. Mio nonno Alesi Luigi nato nel 1828 S.Donnino, morto nel 1908 Arcevia.

Il giorno della mia nascità avevano finito di vendemmiare e arrivata mia nonna la sera e lei che a fatto da levatrice, nonna materna, Palmira Conti, nata Bartoletti, 1870. Dopo qualche giorno mi hanno portato battezzare, madrina mia nonna Palmira, padrino don Pasquale, prete della parrocchia di S.Apollinare. Prete che o bene conoscuito, in questa parrocchia che mi sono cresmata, fatta la prima comunione verso i 10 anni.

 Penso che la prima infanzia sia passata bene, ero la prima nepotina dei miei nonni e zii.

Il 4 marzo 1919 è nato mio fratello Alesi Luigi.

Il 4 settembre è nata mia sorella Alesi Zena (Dina) 1920.

Il 5 marzo 1922 mia sorella Mafalda.

Il 21 luglio 1924 mia sorella Elia.

Il 27 febbraio 1928, Esilde.

Il 12 giugno 1932 mio fratello René, Francia, Longwy.

Ricordo bene la nascita di Esilde, la malattia di Elia al l’orecchio e mamma che non aveva il latte per Mafalda. Devo dire che già allora avevo la responsabilità delle sorelline e fratello prima dei 7 anni. Andavo a prendere l’acqua alla fonte (con l’orcio in testa), il latte per Mafalda dal contadino. Per fare dormire i bambini ero una specialista, cantando ritornelli e dicendo: Fai la nanna, se la figlia viene come la mamma papa buona può venire. Fai la nana cocca di mamma … canto imparato da nonna.

 Il matrimonio di mio zio Domenico, fratello di mio padre, con la sorella di mia madre, zia Stella, ma lasciato un ricordo dei cavalli, che ne ho ancora paura, il giorno delle loro nozze, erano sciolti nel cortile.

Ricordo il mio primo giorno di scuola a Palazzo con la maestra Odetta, prima elementare 1923.

Con questa maestra sono andata 2 anni, prima e seconda elementare, restavo con lei tutto il giorno e m’insegnava cucire e fare la calza. mi voleva bene e sua mamma mi regalava un bel paniere di …….. e per la prima volta, ma fatto delle fette del pane con il burro, come erano buone, a casa nostra latte e burro non c’erano. C’era più pane e vino.

Il ricordo dei primi sette anni è questo.

 Zio Domenico e zia Stella sono in Francia, nel frattempo  i muratori, si prepara la casa a mia nonna, per mia zia che ritorna dalla Francia. Mio zio lui si era imbarcato per li America e fine del 1923. Io sembra che non ero contenta che veniva mia zia Stella, eravamo già tanti a mangiare e nel 1924 avevo 7 anni, eravamo 5 figli e ora vivevamo da soli cosi ero già una piccola mamma. Mamma era sempre nei campi, mio padre ora era in Francia e quando era a casa era un gran lavoratore e faceva tutti lavori, dal falegname, contadino, boscaiolo, calzolaio.

Nel 1925 hanno aperto una scuola per i contadini, cosi la terza lo fatta alla Torre, dentro casa, era una coppia di maestri e come esperienza hanno fatto scuola 3 mesi di estate, cosi a 9 anni fatta la quarta elementare avevo finito. La quarta elementare lo fatta al Palazzo e la quinta era in Arcevia ma non era per le femmine (mio fratello lui la messo in Arcevia)

 Dai 7 ai 14

Ormai ero grande, mia nonna mi portava con lei al Montale a vedere sua sorella Letizzia, mi portava alla Madona del Cerro. Nonna mi imparato tante cose, imparato lavorare, andavo con lei raccogliere l’erba, lei era una grande filatrice di canapa, con quella conocchia sputava tutto il giorno. Quando era la neve, ma con il sole, lei si metteva contro un muro e filava delle ore e risparmiava la legna, nel suo camino che faceva il fumo.

A nonna ci piaceva ballare, la musica, il profumo, la domenica si metteva nel 31 e andava forse a messa, ma fare un giretto vedere le sue amiche. Zia e mamma che la criticava, non erano contente che la suocera andava a spasso un ora.

E morta nel 1945 a 84 anni, era una donna pulita che lavava molto e con il suo lavoro a allevato una nepote, fatta grande e sposarla, con tanto corredo, Francesca la mia cugina.

 1925, la quarta elementare lo fatta al Palazzo con la maestra Elisa. Finito l’anno scolastico mia madre mia a imparato tante cose, andavo con lei, al fiume lavare i panni, come era dura quella pietra, si lavava in ginocchio e la canestra si portava alla testa. Si andava prendere l’acqua con l’orcio e un vecchio asciugamano serviva per fare una spece di corona per mettere sulla testa.

Non era difficile e infine ero un esperta per correre con questo orcio senza tenerlo, nel fianco pure ero brava, ma forse lo risento ancora alla parte sinistra. Come una grande curavo i miei fratelli e sorelle, restavo seduta con loro delle ore per farli dormire e cantare. Facevo bene la pasta, ma come trovavo lungo farla e fare il sugo era un grosso problema. Mi piaceva giocare e spesso il lardo bruciava e quanto gridava quando mia mamma arrivava vicino mezzo giorno, era tanto stanca, bruciata dal sole, ma io ero una bambina, come le altre.

 Mio padre era speso in Francia e veniva ogni anno, per esempio per le vendemmie, con una grossa valigia, piena di regali, ma molti vestiti per lui, io lo trovavo bello e molto elegante, povera mamma!

Quando mio padre riprendeva il treno a mia mamma il lasciava un bel grosso regalo: aspettava ancora un bimbo, quante volte cosi? Forse tre o più.

Mia mamma lavorava molto, ma forse di più delle sue forze, voleva fare come sua sorella, ma lei aveva solo due bambini. Un pò di gelosia in famiglia, nei Conti c’era, anzi erano una famiglia con tanta ambizzioni, tutti, mio zio Giulio e le mie zie Adele, Gemma, Teresa, Stella. Ce n’era uno che non aveva nessuna ambizzione, era nonno Serafino, amava il buon vino, il letto, poco lavoro e morto il 28 ottobre 1931.

 Il 28 ottobre 1931, tutto era pronto per partire in Francia. ma in quest’occasione venne dalla Francia due delle mie zie per le funerale, cosi mio padre fatto il funerale, riparti solo per la Francia. Alla porta del cimitero, come era l’abitudine, mio padre distriburra l’elemosina (cosi si diceva) ma dato 2 lire, che bello avere due lire, ero grande, avevo portato la candela e avevo pregato, avevamo detto lo rosario.

La pratica religiosa per me era importante e seguivo sempre le più grandi (qui da piccolina) amavo molto i canti, le processioni. Nelle campagne si portava la Comunione ai vecchi, si seguiva il prete con tutti suoi ornamenti. E una processione, non ricordo bene, se è il corpo S.Domini, mettevamo i petali di fiori per terra, era gli insaccati, i prete con un grande ombrello. Era una ceremonia particolare, per avere il buon tempo bello nelle campagne, credo per allontanare la grandina, il temporale. Il canto era in latino, devo dire che non conoscevo il significato, ma era bello quel canto, in cuore con le amiche e seguiva la più grandi

Dai 7 anni ai 14, seconda tappa della vita, per una nata nel 1917, dove in quella epoca i bambini lavorava e molto. Penso di avere imparato tutto per una futura vita di donna. Dato la situazione di casa nostra dico imparato (e non lavorato) per esempio mi piaceva fare il pane con mia mamma, che festa quando si batteva il grano, che corre, dare bere la gente, fare da mangiare. Tutta una festa era l’uccisione del maiale, fare tutto la salata, mangiare tanti pezzetti di carne, una vera festa mangiare, polenta, grassi, sangue, tutta roba del maiale.

L’inverno eravamo vicino al fuoco nel camino e imparavo fare la calza con un lumignolo a petrolio. Era una festa quando c’era mezzo chilo di castagne, quando mio padre era a casa c’era più abbondanza. E dimentico il carnavale, era la festa, le cresciole, castagnole e vicino si ballava e dicevamo: “oggi e carnavale ogni burla vale”.

Nelle serate d’inverno, nonna raccontava, che lei vedova a 28 anni (era la serva di un prete). Un giorno il disce: vole sposarti Anna, un mio amico vedovo con tre figli, a tanto bisogno di una donna, ma cia 62 anni, tu saresti adatta! e poi è ricco, cia una bella casa, la terra, olio d’oliva, il buon vino e i proscuitti e fano il pane bianco.

Si sposò nel 1891 e mio padre è nato nel 1892. Il 22 maggio 1894 mia zia Ersilia, nel 1897 mio zio Domenico. Capisco ora perchè amico del prete! A suo tempo erano entrati in seminario assieme. Solo nonno Luigi era uscito dal seminario poco prima di dire la prima messa, ma di questo fatto aveva una certa cultura.

Il primo matrimonio era avenuto a 52 anni, erano nati 3 figli, Paolo morto in Francia, Colomba e Emilia. La casa dove abitavamo la lasciata un suo zio prete (zio Sante) e lui che la fatta costruire verso il 1789, 200 anni! Sempre cosi bella, a me tanto cara…

I primi 14 anni ma marcato per la vita.

 Mamma spesso ascolta e poì capisco, non è contenta che parliamo con mia nonna, che l’ascoltiamo, si può dire. Nonna racconta che gli Alesi non vanno d’accordo con i Conti, infatti hanno avuto qualche problema fra loro.

In particolare hanno dovuto cede un pezzo di terreno ai Conti e nonna Alesi non li perdona. Gli anni passa e un giorno mio padre incontra mia madre, la sera dice a mia nonna (a sua mamma): “non è mica male quella Conti, è intignata ma simpatica”. Nonna dice: “A no! Tutto il male che cia fatto!”. Il tempo passa e nonna dice: “La sposi a condizione che ci ridà la nostra terra”. E cosi fu fatto, si sono sposati nel maggio 1914 e nel 1922, zio, fratello di mio padre, sposò la sorella di mia madre e cia ristituito tutta la terra, il campo dello Roccolo. I Conti sono diventati molto amici degli Alesi. Ma ogni tanto hanno avuto di problemi per i terreni, sempre risolti.

 Il 27 settembre, 14 anni. mio padre è venuto dalla Francia quell’anno, per la vendemmia, ma era pure amante dl buon vino. E in casa erano i preparativi, la sarta faceva i vestiti. Il calzolaio ma preso la misura per le scarpe (era Cirillo) me la fatte largue la forma del piede, di vacchetta, erano dure, ma doveva durare. E morto nonno cosi siamo partiti con le due zie venute dalla Francia in quello occasione (zia Adele, Gemma e figli).

In quella mattina del 14 novembre 1931 avemo salutati i parenti e amici, lasciato la nostra terra e casa dove sono nata. Tutti gridavano a Senigallia, il mare, quanta acqua! Il treno, non potevo pensare, che sarebbe corso per le campagne, città, montagne fino in Francia.

Era una giornata di sole, mi sono seduta davanti la libreria Pieron. Intanto lì era l’incontro con gli zii, hanno deciso che c’era chi andava dormire da una zia, chi da un’altra. Io sono andata da mia cugina Iolanda al village di Herserange nel lettino di Fulvio, era corto, ero lunga, ero stanca, e o dormito. Che bello, buono il croccante alle nocciole.

 Penso che due giorni dopo tutta la famiglia riunita Cité de la Fontaine, n°3 Longwy. Babbo aveva preparato delle vecchie masserizie, c’era da dormire per tutti. Trovavo strano il colore della terra (nera). Il fumo di tutti (quei forni, penso) che usciva della faiencerie e d’usine, era freddo, gelato. Le mie sorelle e fratello sono andati a scuola e per me hanno deciso che imparassi la sarta, ma qui la mentalità era che si doveva lavorare, cosi a gennaio 1932 sono andata lavorare alla faiencerie, ero svelta e mi piaceva lavorare.

Mamma era sempre che non stava bene e infine ho capito, mio fratello è nato il 12 giugno 1932. Ricordo che la sera lavavo i panni, mio padre li faceva bollire e io li dovevo resiaquare, con quella lessive bollente, avevo le mane rosse, mezze brusciate. Mio padre faceva la pastasciuta tanta buona, ma era un uomo pazziente, ci faceva sempre ridere.

 Ce un fatto che lo ricordo sempre, aveva comprato un vecchio buffè lorain, riempito di tutto, un giorno quel buffè è caduto. Esilde era per terra, ma si è ritenuto nel tavolo, cosi lei si è salvata, ma per terra c’era pasta, riso, vino, olio, cafè, via di tutto. Mamma era disperata, senza soldi, con i figli. Ma detto: “tu sei la più grande, vai dalla signora Monti (l’épicière) dirci se ti segna su libretto e cosi siamo andati avanti, ma facevamo sempre i conti e ben presto avemo ripagato contanti. Davanti casa nostra cera sempre tante bambine, ma erano brave a scuola sempre le prime, e non ce stata difficoltà per la lingua hanno subito parlato bene, io un pò meno, ma già lavoravo bene da sarta e a 14 anni mi facevano fare dei vestiti. Le mie sorelle le o vestite sempre io e non solo una camicia, mutande, sottoveste e pantaloni, ero specialista per i calzetti, la maestra Odetta mi aveva imparato.

 Prima della fine del 1932 eravamo a Herserange, la Croix S.Jean, la casa era più bella, spazziosa, c’era il giardino, li si stava meglio.

Una amica mi a detto perchè non vieni lavorare con me? Cosi fece e cambiai lavoro, facevamo le camicie da uomo. Pure li un giorno ce ne capitata una, mamma non riusciva accendere la stufa, è cosi fa: mette nela stufa della benzina, cosi a preso il fuoco, a esploso la bottiglia e noi contro il muro terrorizzate, è venuto un uomo con un sacco a smarciato il fuoco, povera cucina, era tutta nera, ma noi tutti bene. Il terzo disastro, mamma a messo i fagioli nelle bottiglie e un giorno volendola aprire a esploso, lei è stata ferita al naso, e povero plafond, ancora la cucina sporca. Sono stata in Francia 7 anni, mamma era felice, ma babbo pensava sempre alla sua terra, a la sua vigna, al suo vino. Non voleva morire in Francia, lo diceva sempre.

 Cominciavo essere una bella signorina, 15 anni!

Il lavoro cucire a macchina mi piaceva molto e guadagnavo bene, mi volevano bene anche la capa. Il francese non parlavo bene, cosi il mio amico era italiano, e lui era come me, non sapeva parlare. Ero tutta felice quando lo vedevo, ma si vede che era una amicizia e niente altro e poi ogni tanto ero cortegiata. Ma un giorno è arrivato le prince charmant è ne ero inamorata è facile sposarsi a 16 anni e mezzo, non si conosce niente della vita, ma che follia! non capisco i genitori che ti fa sposare! Senza spiegarti, ogni paese ce una mentalità, altre abitudine, è duro abituarsi ad un altra vita.

Se fosse oggi direi a mia madre resta al tuo paese, farli sposare li le tue figlie, non cerca soldi. La vita dell’immigrante è troppo dura e dopo 50 anni non sono ancora abituata, sono felice i 2 mesi che passo a casa mia d’estate.

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 Partenza

 

 Nelle Marche

(Mafalda) – Preparato il passaporto tutto fu in regola e finalmente si decise la data della partenza. Quella mattina mamma controllò che fossimo pulite, ci fece vestire, la biancheria intima pulita, il vestito e il cappotto nuovo che una sarta venuta in casa ci aveva cucito a noi tutte, bambine.

Con noi erano zia Gemma con i figli Ilva e Bruno (una peste!) e zia Adele. Arrivammo a Senigallia, ci dissero che il nostro treno sarebbe partito nel pomeriggio inoltrato. Cosi la sala d’aspetto divenne un campo di battaglia, fagotti e fagottini a non finire. Noi bambine e mio fratello Luigi eravamo silenziosi e timidi, ma Bruno ne faceva di tutti  i colori! Zia Adele stava lontana da noi, tutta riccia e incipriata, con il cappellino, guanti e borsa, un contegno aristocratico, faceva finta di non conoscerci.

Il viaggio fu lungo ma piacevole, tutto il nuovo destava in noi curiosità. Finalmente arrivammo a destinazione, babbo ci aspettava e ci condusse a casa.

(Elia) – Un giorno venne alla Torre un fotografo, che avvenimento! Mamma ci fece mettere in posa. Il fotografo piazzò il suo treppiede, poi dopo numerose raccomandazioni: <<non vi muovete, sorridete> mise la testa sotto quel drappo nero per vedere se eravamo tutti nel mirino e scattò la fotografia che doveva servire per il passaporto.

Era stata la maestra a scegliere per noi un bel cappottino bianco ed io senza di lei non mi sarei mai sognato un cappottino cosi bello.

Nei primi di novembre lasciammo la Torre per andare in Francia. Era ancora buio quando mamma ci svegliò, eravamo tutti ansiosi di partire. Fatte di corsa le scale, in cucina c’era il fuoco acceso, il lumicino a petrolio la rischiarava appena. I bagagli a dire il vero erano fagotti, erano già pronti, non avevamo valigie noi.

Si doveva andare a prendere la corriera per Senigallia a molti chilometri di distanza, al passo del Piticchio. Per l’occasione un amico di babbo, il mugnaio, ci aveva prestato  il suo carretto. Mamma sempre agitata portava tutto sul carro, non ci si doveva scordare niente, tutti fagotti e bambini. Ricorderò sempre la fontanella alla fermata della corriera.

Non eravamo mai saliti su di un treno e mai visto il mare, eravamo tutti svegli per vedere tutte queste cose nuove.

Alla frontiera abbiamo avuto una sosta di qualche ora, vennero i doganieri è non fu roba da poco per controllare il passaporto con i nomi di tutti noi. Per i bagagli poi fu un impresa non facile, mamma si era portata via il caldaio tutto nero di fuliggine in un sacco poi la macchina da cucire, era a mano senza pedale. Previdente come era con tutti quei bambini sapeva che per cucire camiciole e mutandine era indispensabile.

Noi eravamo curiosi di vedere tutto quell’andirivieni, treni che arrivavano sbuffando,gente che scendeva, non avevamo mai visto niente di simile, il fischietto del capo stazione, dei locomotori. Mamma era agitatissima, ci chiamava, ci contava, ci raccomandava di non allontanarci, di stare vicino a lei. Finalmente salimmoi anche noi e il viaggio  proseguì bene.

Dopo molte ore di viaggio, stanchi e infreddoliti siamo arrivati a Longwy.

 Arrivo a Longwy

(novembre 1931)

 

 Longwy, cité la Fontaine

(Mafalda) – In questa nuova vita ci piaceva tutto, il pane aveva un sapore squisito, le persone d’una grande gentilezza. Le prime parole di francese ce le insegna mio padre, ci diceva, se qualcuno per strada vi dice qualche cosa, dovete rispondere:”Je ne comprends pas le français“. Io e Dina andammo subito a scuola, le insegnanti erano tanto care; le bambine nell’ora di ricreazione facevano cerchio e c’insegnavano a parlare francese, ci facevano mangiare i loro biscotti, la cioccolata. Nel giro di due mesi parlavamo correttamente la lingua e in classe io ero la prima, ossia la più brava.

(Elia) – Siccome non erano ancora pronti i letti per tutti io sono andata con zia Gemma a casa sua a Landrivaux, lei era già in Francia da parecchi anni, infatti Bruno è nato là, aveva la mia età. Le meraviglie per me non erano finite, aveva una casetta cosi carina. In cucina c’era una stufa accesa, con il carbone, i cerchi erano rossi, si stava bene. Zia mi ha preparato una tazza di caffè latte, non ne avevo mai bevuto, il pane francese trempè  è una delizia. Poi zia aveva sempre a portata di mano una tavoletta di chocolat.

Io che alla Torre avevo solo pane fatto in casa, spesso duro, il pane francese mi pareva biscotto. Alla Torre il latte non ce l’avevamo mai. I contadini te ne davano un bicchiere solo se si stava molto male, nessun avrebbe privato il vitello del suo latte.

Herserange

(Mafalda) – Il 1 guigno 1932 arrivò l’ultimo fratellino René, ora l’appartamento era troppo piccolo cosi ci trasferimmo a Herserange in Rue de la Croix Saint Jean.

Delle casette a schiera, davanti alla porta c’era la strada, sul retro e su un lato c’era un piccolo giardino, che babbo coltivava a orto e in un angolo una pianta di lillà e una di uva spina. Dal giardino sul retro si arrivava al bosco. A volte, nella radure mio fratello Luigi legava una corda sui rami più robusti, per farci l’altalena.

Quando arrivava la primavera con le sorelle, andavamo al bosco a cercare le fragoline rosse, molto saporite, e le more. Raccoglievamo anche mazzolini di violette, ogni tanto vedevamo qualche scoiatolo, con la lunga e soffice coda, saltare da un ramo all’altro. Alle nostre gridi gioiose in un attimo scompariva. Una volta nel folto del bosco ci trovammo di fronte un cerbiatto, ci guardò con un sguardo dolce e tenero, poi scappò.

(Elia) – Nell’ agosto siamo andati ad abitare a Herserange, Landrivaux. Abbiamo avuto una casa popolare alla Croix St.Jean, e di Senelle la società in cui lavorava Babbo.

Ci è molto piaciuta, c’erano 3 camere, la cucina con il gas, la cave per il carbone poi il grenier. C’è pure il giardino, ho letto che le case di questa via erano destinate ai chef dell’usine poi l’hanno date pure a noi stranieri. Però le famiglie dell’altra parte della via erano tutte francesi, tutte un pò più chic.

Dalla parte nostra c’erano polacchi, portoghesi, famiglie d’italiani di regioni diverse  perciò diverse anche nel modo di vivere, anche più povere perchè molti come babbo non avendo un mestiere guadagnavano meno.

La nostra era una famiglia numerosa, allora babbo per tirare avanti coltivava il giardino. Aveva preso dei lotti di terra che appartenevano a Senelle e che la direzione metteva a disposizione di chi voleva coltivarli. Cosi babbo piantava patate, carote, cipolle, aglio, insalata, insomma tutta la verdura per casa. Avevamo galline, conigli, anatre.

Dietro casa c’era un gran bosco, c’era un prato dell’erba, cosi la mia famiglia tirava avanti bene. Certo è che le francesi a scuola vestivano meglio, mamma voleva sempre risparmiare. Avevamo il vestito per la festa, ma si metteva solo la domenica per andare alla messa.

Come dicevo mamma si era comprata una macchina da cucire Singer. Disse di averla comperata con i soldi del sussidio che riceveva quando babbo era in Albania. Poche sapevano  cucire a quei tempi , per lei era indispensabile, era stata previdente  poichè ebbe molti bambini e cosi la macchina da cucire si rivelò molto utile per cucire camiciole e mutandine e forse qualche vestitino per casa. Allora non si conosceva la confezione. Per le mutandine non c’era l’elastico ma fettucce, quando ero piccola se si faceva un nodo con le fettucce ci voleva la pazienza di mamma per scioglierlo. Noi eravamo nell’entroterra (Arcevia) perciò non posso sapere se nelle maggiori città attorno c’era da vendere l’elastico, mamma lo scopri solo quando eravamo in Francia. Io fino al 1945 ho sempre portato camicie cucite in casa. Da giovanetta, le mie sorelle ed io avevamo imparato a ricamare così eravamo più graziose e i sceglievano tessuti più fini, a colori lievi, insomma più civettuoli.

Avevo un amica a Herserange alla quale delle volte vedevo delle magliette intime di flanella già confezionate, la madre era francese, lavorava, anche il padre guadagnava bene, vestiva bene le figlie. Ma a parte che penso che mamma ignorasse perfino l’esistenza di questo tipo di biancheria intima credo che non si sarebbe potuta permettere questa spesa. Lavorava solo babbo e mandare avanti una famiglia numerosa è difficile, poi teneva molto al risparmio.

Scuola

(Mafalda) –  Quando iniziò l’anno scolastico rimasi delusa e un pochino incuriosita nel vedere la mia nuova scuola. Erano tre costruzioni in legno con un grande cortile e una tettoia per riparaci nell’ora di ricreazione quando pioveva o si voleva stare all’ombra.

Ogni baracca aveva soltanto una grande aula, era bella, con due grandi lavagne, la cattedra e i tavoli con banchetti per noi scolari. Alle pareti vi erano grande carte geografiche, vi erano quattro finestre che davano un grande luce.

Per noi andare a scuola era una gioia, amavamo molto lo studio, dovevamo fare i compiti da sole poichè i nostri genitori non erano in grado di aiutarci. Le nostre insegnanti erano orgogliose di noi.

A 14 anni feci le mia prima Comunione nella chiesa di Herserange, nello stesso anno finivo la scuola dell’obbligo, andai a dare gli esami a Longwy-Bas. Ottenni “le Certificat d’Etudes”, in seguito andai dalle suore a L’Ouvroir, dove le suore insegnavano tante belle cose, c’era l’ora del cucito, dello stiro, della cucina ecc… Poi lezioni su come dirigere una casa.

(Elia) – A scuola le maestre sono state molto gentili con noi, abbiamo imparato con rapidità la lingua francese, c’era pure la refezione, ma noi eravamo abituati alla cucina italiana. Mafalda più di tutti si rifiutava di mangiare le loro minestre, per fortuna c’era tanta frutta, le arance, le banane, tutte cose nuove per noi.

Era molto più freddo, alla Torre avevamo la scuola in casa cosi non prendevamo freddo, ma là bisognava camminare, mamma ci copriva bene.

Prima Mafalda poi io abbiamo avuto la stessa maestra, io l’ho avuta fino a 14 anni. Con lei ho preso le Certificat d’Etudes poi “le Premier Ordre”, era un diploma che usava solo nella Lorraine.

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 Luigi – “Gigetto”

(1919-1941) – figlio di Ernesto Alesi

 

(Elia) – parlando del suo fratello Luigi, anni 1928/1929 – C’erano due ragazzi: Gigetto e Elio Caldarigi d’Alesi, erano molti amici, giocavano sempre insieme. Si arrampicavano sul pino che sta vicino alla casa (Torre), fumavano (sambuco) di nascosto come fanno tutti ragazzi. Facevano tanti progetti, sognavano l’America, dicevano: “andremo a raccogliere l’oro a palate”. Il padre di Elio, zio Caldarigi si trovava già là, ma la realtà era molto diversa di come ce l’immaginavamo. Lavorava in una miniera di carbone in Pensilvania, poi non so come, ebbe un grave incidente è rimase su  una carrozzella. Quando zio tornò in Italia, ormai si era rimesso e camminava (anche se un pò rigido)  così venne a trovarci a Herserange,  sbarcando a Le Havre. Sua moglie, zia Emilia era sorellastra del babbo.

Purtroppo Gigetto e Elio ebbero un brutto destino, il fato si  accanì su di loro, Gigetto  fu disperso in mare nel 1941 e Elio morirà nel 1942 per una malattia contratta quando era soldato, e stette male per  tanti mesi (tuberculosi).

(Narratore) – Arrivato in Francia con la sua famiglia nella fine dell’anno 1931, Luigi ragazzo di 12 anni fece un anno di scuola a Longwy,  dolce sognatore, farà l’apprendista calzolaio, riparerà le biciclette, farà il muratore, ma non   troverà il suo posto. L’epoca non era buona, la disoccupazione toccave anche la Lorena, con qualche piccolo lavoro Gigetto aiuta la famiglia ma i mesi passano è non riesce a trovare un lavoro stabile, non si rilasciavano  più i libretti di lavoro.

Ha voglia di spazio, l’Africa coloniale lo fa sognare, l’Etiopia, la Libia, le conquiste del Duce. Si lascia sedurre dall’ideologia fascista, con fierezza  indossa la camicia nera e concretizza la sua volontà di ritornare in patria at traverso la vita militare.

Lascia Longwy il 6 febbraio 1936, passando la frontiera per la galleria del Frejus raggiunge Pola dove farà la sua prima formazione militare nella Regia Marina fino al maggio del ’37. All’uscita ritorna in Francia per raggiungere i suoi parenti a Longwy, dove rimarrà qualche mese, nonostante le opposizioni della madre. Ernesto, il padre, teme le avventure mussoliniane ma capisce il figlio.

La sua scelta è fatta, Luigi nel novembre 1937 lascia la Francia definitivamente, varca la frontiera a Modane per imbarcarsi sul caccia torpediniere “Lampo”.

Spesso scrive ai suoi genitori, che nel frattempo sono ritornati in Italia, molto attaccato alla sorella Dina, scambia con lei commoventi lettere.

Tra 1938 e 1941 il marinaio marchigiano navigherà in Mediterraneo: da Venezia passando per Pola a Taranto, da porto Mahòn nelle Baleari a Barcelona, da Brindisi a Senigallia, da Durazzo in Albania a Rimini, da Napoli a Tripoli.

Le  avventure del sotto capo cannoniere Alesi  termineranno nel golfo di Gabes in Tunisia il 16 aprile 1941.

Il Lampo scortava un convoglio di cinque piroscafi tedeschi quando fu, nel buio delle due di mattina, colpito e incendiato dal nemico inglese. Il Lampo, feretro zoppicante, unico superstite dello scontro fu portato sulle secche di Kerkenah, la nave si adagiò sul fondo. Rimase arenata oltre due mesi nel golfo tunisino, bara provvisoria di Luigi e compagni.

Un giorno arrivò la nave ospedale Epomeo per rendere gli ultimi onori a queste vite strappate. Un testimonio descriverà:

“Il vento del deserto aveva cosparso il Lampo di sabbia, i piovaschi l’avevano battuto lavando la patina rossigna; il mare polverizzato dai frangenti … aveva imbevuto di salmastro quei corpi di marinai aggrappati ai cannoni ed alle mitragliatrici; il sole li aveva prosciugati; l’acre salsedine della Piccola Sirte … e l’alito del mare avevano preservato quelle membra giovani come in un sonno letargico …. Quei corpi di marinai sembravano ancora vivi quando, alle prime luci dell’alba, l’Epomeo venne ad ancorarsi più vicino e gli sguardi si fissarono su quella nave affascinante. I cannoni erano puntati ancora verso il largo, com’erano rimasti dopo l’ultima salva; nella torretta di poppa sei cannonieri stavano ancora uniti in un gruppo serrato; sull’alto della plancia un biondo ricciuto, dal viso intatto, stringeva la canna della sua mitragliatrice; un sergente e tre siluristi erano accanto ai tubi di lancio. Sparsi dovunque i resti di corpi straziati e mutilati.

Una squadra d’infermieri e marinai e un ufficiale medico trasbordarono sul Lampo. Ispezionarono il ponte di coperta, le plance ed i locali interni; salutarono commossi quelle salme rimaste ai loro posti, tra le lamiere squarciate e i rottami dispersi, e iniziarono l’opera pietosa, cercando di radunare quel che rimaneva dei corpi dilaniati e confusi dalla violenza del combattimento. Poi le salme vennero rimosse ed allineate in coperta per il riconoscimento; qualcuna fece resistenza come se volesse stare ancora la suo posto; alcuni corpi aderivano sulle lamiere come se vi fossero saldati e confusi in una comunione ostinata; furono quasi staccati per forza dal ferro della nave.

Tutta la giornata passò prima che l’ultimo fosse allineato sotto il cielo a fianco degli altri. Al tramonto i sacchi furono chiusi; ognuno ebbe un peso perché affondasse rapidamente e così vennero portati al largo per la immersione con gli onori militari e con un breve rito religioso.

Allora il Lampo rimase solo e deserto sulla secca di Kerkenah. Oramai non era più che un relitto di nave. Il suo equipaggio errava nel cimitero azzurro dove tanti altri marinai riposavano già, lontani dalle frenetiche competizioni, nella quiete profonda dove la vita si rinnova in creature meravigliose…. La pace è con loro e con tutti gli altri, alleati ed avversari, di ogni stirpe e d’ogni lingua, d’ogni fede e d’ogni bandiera”.

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 Il ritorno

 (Elia) – 1938

Si parla molto di guerra, in settembre erano state fatte delle prove per l’oscuramento. Un giorno Maria Bill la mia compagna preferita mi disse che le nostre scuole erano state occupate da soldati senegalesi, perciò le ragazze ne avevano paura e stavano chiuse in casa. Io in quei giorni avevo l’influenza ero stata a letto con la febbre e cosi non li ho visti. Siamo alla frontiera, la gente ha paura. Si vedono passare macchine che portano via dalle loro case le cose preziose.

Babbo decide di venire in Italia, Gigetto e imbarcato, se si dichiara la guerra noi siamo nemici per la Francia.

Arriviamo alla Torre, io non ricordavo quasi niente di come era nel 1931. Siamo stati due mesi, per noi è stata come una vacanza, c’era molta uva, fichi, frutta. In Francia l’uva era molto cara e cosi non si poteva quasi comprare, perciò qui ne abbiamo mangiata a sufficienza. Poi c’era il paesaggio cosi bello, l’autunno dai mille colori, per me era una vacanza.

Passato il pericolo siamo ritornati a Herserange, ma per tutto l’inverno non si fece che parlare che la guerra non era stata scongiurata del tutto solo rimandata. E cosi alla fine di marzo tutta la famiglia è tornata alla Torre, non ci restava altro da fare per il bene della famiglia, a malincuore abbiamo lasciato la nostra casa.

Nei mesi che seguirono mi sono resa conto della differenza che c’era, da come ero abituata fino allora al modo di pensare della gente di qui.

Poi non c’era la luce, nè la radio, non c’era l’acqua, il gas, il carbone, ma per fare da mangiare solo legna. Ero giovane poi babbo e mamma pensavano a tutto loro, cosi il cambiamento avvenne poco a poco.

Le notizie che arrivavano non erano buone, infatti Lidia e Gilbert sono arrivati in settembre, noi eravamo tornati ad aprile, cosi non abbiamo avuto il tempo di rimpiangere il cambiamento.

Il primo anno abbiamo diviso la cucina con il contadino che ci lavorava la terra. Babbo andò a lavorare a Cabernardi ma non in miniera, in superfice come manovale. Era una vita faticosa perche doveva fare tutta quella strada un pò in bicicletta poi tutto il resto a piedi. Cabernardi era lontana ci volevano 2 ore ad andare e 2 ore per tornare, d’inverno nel fango, l’estate sotto un sole cocente. Poi allora si guadagnava poco, il salario era basso, cosi per la nostra famiglia sono incominciati i disagi con pochi soldi.

bergamaschi Herserange 1933

 Bergamaschi di Longwy – 1933

 

Assimilazione ed integrazione

La grande maggioranza degli italiani migranti è d’origine contadina e il passaggio da un mondo rurale arretrato a una vita industriale è difficile, tutte cose complicate oltre alla barriera della lingua. Il modo di mangiare è diverso, negli primi tempi non si trovano i prodotti italiani. Benchè cattolici come i francesi,  anche il modo di praticare la  religione è  differente.

Gli anni passano, numerosi italiani del primo flusso migratorio sono ritornati in Italia, ma molti sono rimasti e sempre ci sono nuovi arrivi. I figli vanno a scuola e lì le differenze cominciano a cancellarsi, la scuola della repubblica, accanitamente attaccata alla sua laicità, mette tutti i suoi figli sulla stessa banchina, i bambini sono il legame tra le diverse comunità. Mano  a mano, ogni famiglia trova il suo posto, alcuni costruiscono la loro casa, nelle fabbriche i più talentuosi occupano posti di responsabilità. Certo le condizioni di vita rimangono difficili e gli stipendi bassi, ma la volontà d’andare avanti dei migranti italiani è riconosciuta da tutti, la loro capacità di lavoro è esemplare.

I figli si sposano, innanzitutto tra italiani, i matrimoni misti rischiavano di “alterare la razza” francese. Ma anche queste idee piano piano si smorzano, le nuove generazioni, i figli che escono della scuola sono uguali, solo la consonanza d’un nome oltre alpi fa capire la differenza. Scuole, associazioni sportive o culturali, vita professionale, il percorso degli italiani diventa uguale a quello dei francesi, con il tempo la distanza culturale, che sembrava insormontabile, scompare.

Basta vedere il numero delle naturalizzazioni per capire la volontà d’integrazione degli italiani:

Per gli anni 1919/1923: 4685 naturalizzazioni nei quali 1601 italiani (34%)

1931/1935: 51592 nei quali 28480 italiani (55%).

Il noto autore Pierre Milza rileva i morti (sui monumenti) della prima guerra mondiale: tutti sono cognomi francesi e dopo il secondo conflitto mondiale appaiono  molti patronimici italiani, numerosi sono  partecipano con la resistenza all’occupazione tedesca. La guerra d’Indocina e quella d’Algeria avranno la loro parte di caduti d’origine italiane.

Sul piano politico, nel 1959 nel dipartimento della Meurthe e Moselle ci sono 163 eletti d’origine italiana nei quali 79 comunisti.

La vita difficile nella siderurgia lorena ha sviluppato un fermento sociale, coniugato con la forte tradizione rivendicativa francese ha lasciato libero corso al sindacalismo e alla politica, questo lembo del nord della Lorena è diventato tra 1950 e 1990 un feudo della sinistra.

L’importante da ritenere è che l’impegno politico o sindacale è un segno che marca l’integrazione nella nuova società.

 L’altra generazione

Hanno sofferto! Nonni e genitori, tra 1880 e la seconda guerra mondiale non l’hanno sempre passata bene l’integrazione! Ma le generazioni sono passate, i tempi sono cambiati, il migrante ha lasciato il suo posto a discendenti nati e stabiliti nel nuovo paese.

Frutto di questa infinita transumanza, quello che scrive queste righe, vuole anche spiegare il ribollire di quelli che, come lui, hanno in loro due culture. Quello vivo oggi nato oltralpe, ha senza dubbio, l’anima francese, nel più profondo  si sente francese.

La Francia, invidiata da troppi italiani, la detta sorella latina qualche volte odiata da quelli che non la conoscono, tra realtà e immaginario ha accolto milioni d’italiani. I figli d’italiani nati in Francia sono, sempre più,francesi come  tutti  gli altri. La istintiva  volontà d’integrazione dei genitori italiani ha dotato i figli nati in Francia di un bisogno di riconoscersi sotto una bandiera, impregnati d’una cultura forte, d’una educazione e di valori riconosciuti da tutti.

Quello si doveva dire, ma sarebbe troppo semplice fermarsi là, le cose sono molto più complicate.

A quelli nati all’estero da genitori italiani arriva per tanti un giorno in cui la doppia cultura provoca molte domande. Un fenomeno, che probabilmente solo psicologo o etnologo potrebbero spiegare in  modo razionale. Una persona dopo 30, 40 o 50 anni di vita si fa la domanda cruciale… e le mie radici? Dove sono? Domanda ancora più forte quando i genitori sono scomparsi.

Recentemente un servizio televisivo parlava della comunità nera dei Stati Uniti, anche alcuni di loro sono alla ricerca delle loro origini, con le nuove scoperte del DNA gli Afro-americani, discendenti di schiavi, possono ritrovare la regione africana da dove venivano  i loro antenati e anche scoprire la tribu’ di appartenenza . Questa parentesi per sottolineare che le radici d’un essere sono un elemento fondamentale per la stabilità e il benessere della persona. Ma di quello pochi dei nostri migranti ci sono impensieriti, le preoccupazioni erano altre: lavorare, nutrire, vestire, educare la famiglia, costruire e arredare la casa.

Tanti di loro hanno anche completamente cancellato la loro vita anteriore, quanti non sono mai più ritornati nella loro valle natale? Profonde ferite hanno provocato il bisogno di chiudere gli occhi sul  passato, meglio dimenticare che soffrire in permanenza…

La terra di accoglienza, benchè qualche volte ingrata, è malgrado tutto la nuova patria.

I figli devono lavorare bene a scuola ” per avere una vita diversa dalla loro“, tutti si devono comportare bene per  non farsi notare “non siamo a casa nostra“,  per paura dell’espulsione.

Allora la nuova generazione deve fare fronte a problemi imprevisti dai migranti.

Conflitti di certi figli che si ribellano per la troppa sottomissione. Sentimento d’inferiorità dei figli: sentirsi straniero, inferiorità economica, il cognome male pronunciato dal maestro o in qualsiasi amministrazione, provoca l’angoscia davanti l’ilarità degli altri. Nel tentativo di francesizzare il nome del padre, Giuseppe diventa Joseph. Vergogna d’una madre che parla male francese e che troppo spesso domanda ed insiste per ottenere uno sconto dal commerciante. Non c’è cimitero dove si possono visitare i nonni, non si possono vantare i fatti di guerra dello zio…era dell’ altro fronte. Non c’è tradizione secolare che rinforza il sentimento rassicurante di appartenere a una comunità.

Niente n’è tutto nero neanche tutto bianco, il grigio dei sentimenti della maggiore parte di questa seconda generazione doveva essere evidenziata.

Nei luoghi dove gli italiani sono molto numerosi, per non dire anche in maggioranza, la cultura italiana esce di più. A qualche chilometri di Longwy, in una città nominata Villerupt i figli d’italiani, per lo più originari delle Marche e Umbria, hanno creato un festival del film italiano, d’un alto livello, dove illustri personaggi del cinema internazionale ci ricordano le nostre origini.

Don Camillo e il Remi di Senza famiglia hanno lasciato il posto a Fellini e Begnini.

 

In un altro paesino -S.Charles- quelli della Valle Imagna ci sono raggruppati e hanno costruito case, ma la loro presenza è rimasta sempre discreta. In tutti i paesi  che circondano Longwy non si contano  più le famiglie originarie della Valle Imagna:

Locatelli-Frosio-Rota-Bugada-Invernizzi-Cicolari-Carminati-Todeschini-Salvi-Franchini-Galeotti-Masnada-Arrigoni-Pelaratti-Moscheni-Cortinovis-Pelegrini-Mazzoleni-Manzoni-ecc… dei paesini di: Valsecca-Fuipiano-Rota-Berbenno-S.Omobono- ecc…

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  Bibliografia

– Vincenzo Marchetti e Lelio Pagani – “Giovanni da Lezze. Descrizione di Bergamo e suo territorio. 1596 – Prov.di Bergamo – 1988

– Diego Gavazzeni – Tesi: “La transumanza, Fuipiano anni 1900-1940”

– G.Noiriel – “Immigration, antisémitisme et racisme en France”- (XIXe – XXe siècle) – Fayard 2007

– M.L.Antenucci – “Parcours d’Italie en Moselle” – Editions Serpenoise – 2005

– (Collettivo) – “Italiens en Lorraine” – C.C.I.F. – 1997

“Herserange au fil du siècle” Fensch Vallée Editions – 2000

– Pierre Milza – “Voyage en Ritalie” Editions Payot et Rivages – 1995

– Louis Hublau – “L’histoire d’Haucourt-Moulaine-S.Charles” – 1997

– Claire Villaume – “Les petites Italies” – Editions Serpenoise – 2001

 stemma IRR.I. – aprile 2010